Mario Perniola è stato un pensatore irriverente, acuto e sensibile che  ha attraversato con grande curiosità e ironia il nostro tempo. Alla sua formazione rigorosissima (a Torino era stato allievo di Pareyson, con Givone e Vattimo) ha unito una rara capacità di sperimentare riflessioni originali e non scontate – rispetto ai modi più tradizionali in cui si è ingabbiata a ripetutamente la filosofia contemporanea, soprattutto in Italia. Il pensiero critico francese è stato il suo riferimento prevalente – da Debord a Derrida, da Klossowski a Deleuze. Ha spesso rivisitato questi pensatori quando ne ha ripreso i concetti di simulacro, nomadismo (per Perniola transito), società dello spettacolo,  riproponendoli nella critica “estetica” del presente.

L’inquietudine è stata forse la dominante esistenziale e intellettuale di Mario, ciò che non lo lasciava catturare da forme del discorso troppo semplificate, troppo discorsive. Troppo colto e raffinato per lasciarsi sedurre, troppo intelligente per non comprendere che quelle forme discorsive erano diventate soverchianti. Quest’inquietudine riguardava anche un suo lato più radicale, una sobria ebrietas sempre attiva, ma talmente ironica e curiosa rispetto agli eventi che su cui si esercitava. L’estetica l’ha intesa come evento che apre dei varchi di pensiero, delle possibilità altre, delle immagini capaci di creazione e dunque una filosofia attiva. In questo la lezione mai trascurata di Nietzsche, dell’aristocrazia come modo di divellere le pressioni dell’omologazione.

Il suo carattere gentile rimandava anche a delle durezze, a delle fermezze intorno alle quali aveva sviluppato un’esistenza di viaggiatore che restava sempre però innamorato di Roma.

Delle molte cose scambiate restano anche le incomprensioni, le divergenze, le mie durezze talora senza appello. Ma Giuliano Compagno, Anselm Jappe, Pierre Dalla Vigna ed io in un breve periodo siamo stati come delle divergenze radicali, alcune  turbolente altre meno, che solo Mario era riuscito a cogliere e forse a comprendere e che si erano raccolte intorno a lui. Queste diversità sono esattamente il segno di quella radicalità cercata soprattutto in chi gli stava attorno e che doveva coniugarsi con un percorso coerente con l’accademia, la sua sicurezza, il suo riconoscimento. Su questo ci siamo allontanati.

Per Mario la noia e la solitudine erano intollerabili, quasi come se si trattasse di una velatura capace di annientare l’intensità di vivere sempre in agguato.

Abbiamo fatto dei progetti insieme, certamente “Millepiani” nella prima fase, ma voglio ricordare soprattutto le bozze del Sex appeal dell’inorganico che mi chiese di leggere e di discutere – un libro di rottura in cui già emergeva il bisogno di riprendere quella interrogazione trasgressiva dei suoi anni Sessanta, un libro che si poneva decisamente altrove rispetto all’avanzare della filosofia estetizzante, quella descrittiva e senza forza combattuta nella disputa ospitata da Alfabeta sul pensiero forte/debole; un libro che cercava spazi di pensiero diversi.

Con Mario mi sono adirata, divertita, incuriosita e soprattutto ho imparato molto senza patire “la noia della comunicazione”, quanto l’ansia di cercare affetto. Nella diversità, nella divergenza è stato un incontro indimenticabile, importante, difficile, pieno di intensità.

 

Grazie.

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