#omaggio a Toni Negri 6

 

Negli anni dopo Genova il concetto di moltitudine mi faceva incazzare. Ero uno studente di filosofia che si approcciava a fare l’artista, e aveva conosciuto Negri attraverso i suoi testi. Ero frustrato perchè la potenza degli anni ‘90, costruita sull’autogestione e l’autonomia,  stava scomparendo. I processi di gentrificazione nella Milano in cui vivevo avevano raso al suolo già tutto.  Noi eravamo moltitudine ma la rivoluzione non stava avvenendo. Ed ero depresso.

Eravamo i giovani lavoratori della conoscenza, artisti con un desiderio inesauribile di rivoluzione. Eravamo quelli formati nel movimento di Seattle e che non credevano più nel lavoro dei nostri genitori. Era l’inizio del nuovo millennio ed eravamo depressi: invece che fare la rivoluzione ci avevano già trasformati in precari creativi, influencer e sfigati startappari senza reddito. Negri, prima di tutti, aveva capito il capitalismo postfrodista,  tanto quanto il capitale aveva capito benissimo Negri. E la sensazione era che stavamo perdendo già ai blocchi di partenza.

Dopo la crisi finanziaria del 2008 Negri scrive Comune. E noi facciamo nascere il movimento per i beni comuni italiano, occupiamo tutto quello che ci si para davanti, e ci mettiamo ad organizzare il Comune di cui scriveva Toni.

La moltitudine s’era fatta rivoluzione, ma ricordo che dentro di me covavo ancora quel risentimento iniziale nei suoi confronti: ci aveva spiegato così chiaramente cosa stava succedendo ma non ci aveva mai detto come organizzare la lotta e come vincerla sta maledetta rivoluzione!

La prima volta che ci trovammo nello stesso collettivo fu a Palermo, in una scuola teorica di Uninomade, nei mesi in cui stavamo organizzando molte piazze e mobilitazioni. Io ed altr* eravamo la novità del momento in quell’assemblea… e mi ricordo che lessi tremante davanti a Toni un troppo lungo scritto su cui io e Paolo avevamo lavorato moltissimo per convincere tutt* della nostra urgenza e posizione. Finita l’assemblea ero agitato, indeciso se andarmene subito, presi la via dell’uscita, e sentii una mano che mi afferra deciso alle spalle il gomito della giacca. Mi giro ed era Toni che mi aveva acciuffato nella folla. Mi ha detto qualcosa di veloce e tagliente, ma non ricordo cosa, si capiva che era una scusa per guardarci in faccia e condividere la gioia di ciò che stava avvenendo. E gli ho risposto: grazie.

Lo stanno dicendo in tant* in questo momento a poche ore dalla sua morte, ma per chi lo ha conosciuto credo questa la sensazione comune che più si è appiccicata ai nostri corpi: Toni Negri aveva una gioia affermativa come postura d’essere, negli occhi, nella voce, nelle pause. La sofferenza comune dello sfruttato, non è quasi mai tristezza, ma potenza del comune agire. La sofferenza contiene sempre questa potenza dell’altrimenti.

Toni era anche uno che si incazzava. Velenoso come un serpente, colpiva senza far più muovere la preda. Una delle ultime volte che lo ho visto eravamo a Venezia, ed era furibondo nei confronti di alcuni movimenti, fuoco amico che tornava da sotto le ceneri. Mi ha guardato dritto negli occhi dicendomi che con determinate persone non si doveva aprire più alcun compromesso. Ho sentito in quegli sguardi parte della sofferenza che Toni ha subito in carcere. La volontà di non scappare e di assumersi fino in fondo le conseguenze di un teorema ingnobile e fallace, costruito anche grazie al cedimento di tante persone che non sono state altrettanto corrette.

L’Italia è un paese tremendamente provinciale, ipocrita e autoreferenziale. Toni Negri è il filosofo italiano più influente e importante contemporaneo. Ma lo sanno solo all’estero.

Noi dobbiamo imparare questo ottimismo suo della ragione.

Senza le analisi dell’operaismo italiano non sarebbe successo tanto di quello che è successo nei movimenti a livello globale del nuovo millennio.

Ricordo un momento in cui mi chiese di fare una passeggiata sulle rive del lago Trasimeno. Voleva parlare con me di cryptocurrencies e delle sperimentazioni algoritmiche che stavamo compiendo contro la finanza. Faceva finta di voler capire meglio, ma sentivo che sotto sotto mi voleva dire una cosa. Mi voleva redarguire dal rischio di subirne una inutile fascinazione alternativa. Quello che io ho capito da Toni è la centralità del corpo e delle relazioni per generare una tecnologia altra.

Toni è stato corteggiato dall’arte contemporanea in innumerevoli programmi pubblici in giro per il mondo, e non si è mai occupato d’arte, sembrava interessargli poco e nulla. Gli interessavano però l’arte come luogo di discussione e potenza dell’altrimenti.

In quanto artista che ha militato al fianco di Toni Negri, non su Toni Negri, penso ancora oggi che la composizione tecnica che caratterizza la nostra condizione di artisti e di lavoratori della conoscenza, sia il luogo per poter pensare ed essere in un altro modo.

E il corpo di Toni è questo comune divenire nella resistenza e nella lotta.

Dobbiamo a Toni questa consapevolezza specifica: se la creatività e le reti della conoscenza sono diventati la fabbrica sociale in cui il capitale ha riorganizzato i suoi processi di cattura, è da questa condizione di precarietà e sofferenza che dobbiamo organizzare un altro modo di costruire potenza del vivere comune.

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