Presentiamo oggi la versione integrale del documentario This Arm/Disarm che Maurizio Gibertini ha dedicato all’opera di Paolo Gallerani ed alla sua esposizione presso la Casa della Memoria di Milano – e del cui tentativo di censura ci siamo occupat* a più riprese nelle scorse settimane.

9 ottobre 1953 ore 21 e 15: sul Canale Nazionale della RAI viene trasmesso Mostre d’arte: la mostra di Pablo Picasso a cura di Marco Valsecchi.
22 novembre ore 18 e 45: prende avvio il programma Avventure dell’arte con la prima puntata su Michelangelo da Caravaggio. 27 novembre ore 18 e 30: Aria di Torino, una passeggiata alla scoperta delle bellezze della città. 28 novembre ore 18.00: Mezz’ora a Venezia e alle 18:30 Musei d’Italia con la prima puntata di questa lunga e ricca serie in onda fino al 1959, poi sostituita per due anni con Musei d’Europa. 1 dicembre ore 21 e 15: Italia sconosciuta presenta La Basilica di Pomposa.
6 dicembre ore 18 e 30 : Antonio Morassi illustra, per la seconda puntata di Avventure nell’arte, L’avventura giorgionesca. 14 dicembre ore 21 e 15 : Lorenzo Camusso propone, per Italia sconosciuta, la sagra di San Michele in Val di Susa.
6 giorni dopo: Ernesto Nathan Rogers dedica un Omaggio a Le Corbusier.

Quando le trasmissioni televisive erano attive solo nelle grandi città della penisola e solo pochi televisori erano in circolazione, in sole dieci settimane si susseguirono dieci programmi sulla storia dell’arte e dell’architettura a dimostrazione dell’ampiezza di spazio televisivo dedicato alla divulgazione artistica.

Questa importante presenza in palinsesto assume ancora più rilevanza se rapportata al numero di ore destinate alla trasmissione televisiva, all’epoca limitata a pochi giorni a settimana e solo nelle ore pomeridiane.

In quei primi anni i documentari erano collocati nella fascia oraria del Ritorno a casa, tra le 17.30 e le 18.30, oppure tra le 22.00 e le 23.00, nella Ribalta accesa, prima dell’ultima edizione del telegiornale.

Si trattava di una posizione strategica che ne permetteva il godimento al più ampio pubblico di telespettatori: nel tardo pomeriggio i lavoratori che rientravano a casa oppure gli italiani che nel dopocena si recavano nei locali pubblici di ritrovo, i bar, potevano assistere alle trasmissioni.
Questa fruizione collettiva testimonia il compito per cui la RAI, con natura di servizio pubblico, era nata: educare, quando non alfabetizzare, informare e divertire gli italiani.

Quando il 3 gennaio 1954 avvenne il battesimo ufficiale della televisione italiana, alle ore 19 fu trasmesso, per la serie Avventure dell’arte, la puntata Gianbattista Tiepolo curata da Antonio Morassi; a lui spettò dunque l’onore del primo documentario “nazionale”.

A cosa giova rievocare tutto questo?

A non cadere nel banale equivoco di credere che mai i linguaggi dell’audiovisione abbiano avuto in questo paese il delicato e fondamentale ruolo del “mìscere utile dulci” per tutte e tutti.

Ad allontanare la convinzione che non si possa e che non si sia mai potuto.
Vorrei quindi sottoporvi una riflessione di Claude Lévi-Strauss il quale, in Tristi Tropici del 1955, afferma che: “L’umanità si cristallizza nella monocoltura, si prepara a produrre la civiltà in massa come la barbabietola.
La sua mensa non offrirà più che questa vivanda”.

Quale spazio è possibile quindi tra apocalisse e fermento?
Perdite e privazioni culturali sono state imposte, perpetrate – ma anche auto-inflitte – da parte di una cultura dominante che ha avuto la capacità, come mai altre, di plasmare il mondo a propria immagine.

Quella cultura che all’altezza degli anni ’70 del secolo breve è stata chiamata dal situazionismo europeo il capitale maturo, lo spettacolo integrale, la proletarizzazione della specie.
Tuttavia, gli interstizi lasciati da questo collasso sono molti e molto vasti: fosse solo dal punto di vista delle lacerazioni che questa cultura ha inflitto ai tessuti intellettuali locali all’interno ed all’esterno del suo dominio; in questi è facile ancora osservare il riemergere di complessità, di combinazioni di linguaggi, di attribuzioni di senso e di significato, di operazioni e di accordi spontanei.

In questo senso, l’occasione di raccontare Le Macchine Armate di Paolo Gallerani e di farlo nello spazio altamente significante della Casa della Memoria apre un duplice percorso di riflessione.

Il film, il cinema del reale, si trasforma da oggetto a documento quando è coinvolto in una serie di operazioni che vengono genericamente denominate come “atti sociali” e che tendiamo a considerare nel loro momento di massima autorità politica e sociale: ovvero nel momento in cui si inseriscono in uno spazio di significazione e nell’ordine di discorsi che ne scaturiscono. Se la riproducibilità delle immagini ha messo in crisi il concetto di unicità dell’opera – per dirla con Benjamin – non possiamo non valutare quanto sia invece autenticamente originale il suo insieme di appartenenza, il quale si configura sempre come oggetto storicamente unico e irripetibile.

Per tutte queste ragioni il dispositivo a cui si fa riferimento è quello di un archivio: la Casa della Memoria. Ovviamente la conditio sine qua non è stata quella di partire dal valore di documento, in quanto soggetto ai meccanismi sociali che determinano la sua capacità di divenire tale.

L’importanza assegnata alla natura meccanica, ritenuta in sé capace e sufficiente a conferire una presunta quanto persuasiva oggettività ha come conseguenza quella di autorizzare l’audiovisivo ad avocare a sé la facoltà di essere un documento naturale.

Qualità di carattere genetico che permetterebbe, quindi, di documentare tutta la realtà, eccetto se stessa; come se le immagini per noi potessero esprimere solo qualcosa di diverso da sé, tendendo a farci scordare che è sempre un atto interpretativo soggettivo e che, innanzitutto, costituisce sempre un fatto dal quale non si può prescindere: un fatto che nella sua trasparenza si oppone con resistenza diamantina al suo riconoscimento e alla lettura della sua materialità.
Un insieme costituito di parti, saldate da “fattori intangibili” dove il gesto di raccogliere, e quindi di trasformare i pezzi in “documenti”, analogamente al gesto e al significato de “la mise en archive” (De Certeau) dà inizio alla storia.
Parliamo del luogo, ancora, e parliamo al contempo di chi lo ha abitato.

Perché raccontare Paolo Gallerani e l’univèrsitas rerum che il suo lavoro dis-pone è stato possibile situando l’accento sul senso dell’accumulo.
Per l’osservazione di un fenomeno tanto vasto e diversificato nel quale si intrecciano una moltitudine di fili e si affollano le narrazioni possibili, la superficie ci è sembrata costituire un punto di vista privilegiato per l’osservazione, sia per la possibilità di muoversi nelle aree periferiche – anche dei saperi da Paolo evocati – sia per il fatto che, come nella fisica dei fluidi, il flusso del liquido tende a ridurre il proprio movimento dal centro ai bordi.
La “modernità liquida” della nostra società mostra una certa relazione con il consumo e il potere delle immagini, dovuti alla loro fluidità e mobilità.
Vicino al bordo la capacità di spostamento si smorza, si fa cogliere…
Solo poche parole per concludere: Paolo ci ha posto criticamente, ancora una volta, di fronte ad una evidenza.
Il ruolo del narratore deve trasformare l’agire in leggibilità, ma con l’’accortezza di non assecondare la voracità del sistema descrittivo che tende a sostituire il segno alla pratica.
La Nike non è una reliquia.
La comune sapienza ci insegna – ogni giorno – con quale intelligenza creativa si possa disinnescare un missile.
O anche ricaricare una bottiglia. (OfficinaMultimediale)

Su This Arm/Disarm segnaliamo anche le due recensioni di Tiziana Villani e Federico Chicchi, apparse rispettivamente su il Manifesto e Alfabeta2

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