Che si propenda per Antropocene, Capitalocene oppure per un’altra soluzione terminologica, ci pare comunque fuor di dubbio che lo stato di salute del pianeta non sia dei migliori e che l’esigenza di affrontare il degrado ecologico non possa essere ulteriormente rimandata. Scrive Agnès Sinaï al proposito:
L’Antropocene, in quanto periodo caratterizzato da un dispendio energetico senza precedenti, sarà solamente una tappa che andrà ben presto declinata al futuro anteriore. Il grande fallimento è cominciato e il suo emblema è Fukushima. La domanda che rimane è quella della sua eredità: fino a che punto le società umane saranno in grado di dispiegare strategie di resilienza di fronte alle tre grandi eredità dell’Antropocene: cambiamento climatico, radioattività diffusa, artificializzazione del mondo? (Sinaï 2016: 208).
Di fronte a queste sfide non è raro imbattersi in reazioni teconocratiche, convinte della funzione salvifica dei mercati e/o delle innovazioni, depresse, generalmente ispirate alla Gelassenheit heideggeriana, oppure apocalittiche, versioni più o meno raffinate del vecchio adagio “si salvi chi può”. Benissimo ha fatto, dunque, Mariaenrica Giannuzzi a raggruppare alcune filosofie non tristi del cambiamento climatico, cioè tentativi di sganciare l’Antropocene dalla sua aura di necessità naturale per riportarlo nell’alveo delle scelte politiche. Nel suo elenco troviamo, oltre al Capitalocene di Moore, la storia critica dell’anidride carbonica di Jean-Baptiste Fressoz e Christophe Bonneuil (2013), il femminismo postumano di Rosi Braidotti (2014), la potenzialità mitopoietica delle cosmologie amerindie discussa da Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro (2014).
Nella lista di Giannuzzi trova spazio anche un libro molto particolare, Molecular Red di McKenzie Wark (2015), a partire dal quale vorremmo indicare una pista di ricerca che ci sembra particolarmente utile per ragionare sulla fuoriuscita dall’Antropocene. Il testo narra del Carbon Liberation Front – una sorta di Internazionale delle emissioni – e di piccole sacche di resistenza disseminate nel tempo (anni Trenta e anni Ottanta del XX secolo) e nello spazio (URSS e California). Ciò che davvero conta, tuttavia, è che si tratti di “un libro scritto per la teoria dell’Antropocene”, non dunque “un libro che fa teoria, ma una pratica comunicativa che raccoglie voci provenienti da un contesto di sconfitte del movimento operaio ma non per questo rifugiate in distopiche apocalissi” (Giannuzzi 2015). Dal nostro punto di vista la mossa interessante di Wark è quella di assumere l’Antropocene non come una retorica da rigettare ma come un terreno di lotta su cui costruire una nuova “prospettiva del lavoro sui compiti storici del nostro tempo” (2015: xx). Un sintomo sociale da riconoscere per poterne re-indirizzare le potenzialità. Perciò, più che “interrogare l’Antropocene
Un buon modo per pensare la specificità del lavoro nel presente antropocenico è domandarsi come vediamo la nuova era geologica, cioè da quale regime di visibilità sia governata: su cosa si basa l’insieme delle norme che regolano la rappresentazione degli iper-oggetti? A noi pare ragionevole ipotizzare che sia il General Intellect (Marx 2012), divenuto astrazione reale del lavoro e principio organizzativo della produzione contemporanea (Vercellone 2006), a porre le condizioni di possibilità per vedere il cambiamento climatico. In altre parole, il regime di visibilità che ci consente di realizzare che abitiamo l’Antropocene s’innesta sul capitalismo cognitivo, cioè sullo sfruttamento generalizzato del lavoro-conoscenza. Questo è il sintomo. Ed è particolarmente grave perché a dispetto delle potenzialità esso non riduce per nulla gli impatti ambientali: come sostiene Carlo Vercellone, “[l]ungi dall’emanciparsi dalla logica produttivista del capitalismo industriale, il capitalismo cognitivo la sussume, la riproduce, e la estende, determinando una rottura drammatica degli equilibri necessari alla riproduzione dell’ecosistema” (Vercellone 2017 [in corso di pubblicazione]).
Non è un caso del resto che, benché noto fin dal XIX secolo, il cambiamento climatico sia diventato un problema pubblico, una questione politicamente visibile solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento, cioè nel momento in cui la razionalità neoliberale ha permesso di scorgere una strategia di sviluppo per il capitale dentro ad una “crisi di riproduzione” (Gorz 2015) creata dal capitale stesso. Da allora – da quando le élites globali possono affermare che il riscaldamento globale è un fallimento del mercato (in quanto incapace di internalizzare i costi ambientali) che può tuttavia essere risolto solo da un’ulteriore ondata di mercatizzazione (carbon trading e mercificazione della natura) – l’Antropocene può finalmente diventare l’orizzonte dell’accumulazione ‘sostenibile’.
Si tratta di una mutazione epistemica di primaria importanza – incapsulata nelle formule capitalismo cognitivo e green economy – che tuttavia non può stupire se si considera il ruolo fondamentale svolto dalla computazione digitale nel produrre dati e simulazioni riguardanti il riscaldamento globale. Come ha mostrato lo storico Paul Edwards (2010), nessuno vive un’esperienza atmosferico-planetaria senza il supporto della scienza climatica. Affinché si possa stabilire un nesso tra un evento meteorologico – non importa quanto estremo – e il riscaldamento globale, si richiede invariabilmente una mobilitazione su larga scala del General Intellect nelle sue diverse forme (cioè le varie fabbriche del sapere: università, think-tanks, contro-argomentazioni da parte dei movimenti sociali, ecc.). Come è ovvio, una tale dipendenza dal sapere non riduce in nulla la concreta materialità dei mutamenti climatici, né per quanto riguarda l’individuazione delle loro multiple cause, né in riferimento al portato distruttivo dei loro eterogenei effetti. Rimane tuttavia il fatto che, con le parole di Matteo Pasquinelli, “la percezione politica dell’Antropocene è possibile solo grazie ad una rete globale (apparentemente neutra) di sensori, data centers, super computers e istituzioni scientifiche” (2014b)[2].
Ne deriva che un passo importante nell’elaborazione di una strategia di evasione dall’Antropocene sia quello di riflettere più in profondità sul concetto di lavoro nell’epoca della sua rilevanza geologica. Moore stesso, nella Conclusione scritta appositamente per questa edizione italiana, parla di lavoro/energia per indicare la necessità di superare l’opposizione lavoro-natura nel Capitalocene, il quale “mostra il deterioramento della natura come espressione specifica dell’organizzazione capitalistica del lavoro” (infra, p. 141)[3]. Questo tipo di lavoro – quello preso in carico dalla teoria energetica del valore-lavoro, che nel tempo avrebbe assunto forma industrial-fordista e si sarebbe incastonato in una cornice istituzionale quantitativa come quella del salario (Chicchi et al, 2016) – è senza dubbio responsabile del degrado ecologico. Ciò dipende dal fatto che in tale rapporto tra natura e lavoro la prima funge da limite non contabilizzato sia all’inizio del processo (materie prime della produzione) sia alla fine del processo (smaltimento dei rifiuti della produzione). Insomma, in questo modello la natura sociale astratta è certamente internalizzata (appare sia come componente gratuita dell’input che come recipiente, altrettanto gratuito, per scarti dell’output), ma solo per definire i limiti del lavoro sociale astratto propriamente produttivo, limiti che non la coinvolgono nell’attività trasformativa vera e propria (Leonardi 2012b).
Ben diversa è però la situazione nel momento in cui il lavoro-conoscenza diventa fattore primario della produzione e fa emergere, accanto alla propria dimensione di danno ambientale, un potenziale ecologicamente positivo legato alla cura dei beni comuni socio-naturali. L’analisi di questa forma di lavoro/energia – che non è quella discussa da Moore, più legata alla teoria del valore ‘tradizionale’ – ci pare oggi un compito politico di primaria importanza, il cui sviluppo travalica decisamente lo spazio di questa Introduzione. Ci limitiamo dunque a indicare un elemento che ci sembra importante problematizzare: il rapporto tra lavoro ed entropia[4] nel capitalismo cognitivo, cioè nell’Antropocene visibile e da cui è perciò possibile evadere politicamente.
Il tema dell’entropia è stato introdotto nel pensiero economico negli anni Settanta da Nicholas Georgescu-Roegen (2003), il quale ha sostenuto che qualsiasi processo che produce merci materiali diminuisce, nel futuro, la disponibilità di energia e quindi la possibilità di produrre altre merci materiali. Inoltre, nel corso del processo economico anche la materia si degrada, cioè diminuisce tendenzialmente la sua possibilità di essere utilizzata di nuovo: una volta disperse nell’ambiente le materie prime precedentemente concentrate in giacimenti nel sottosuolo, queste possono essere re-impiegate nel ciclo economico solo in misura ridotta e a prezzo di un alto dispendio di energia. Come accennato in precedenza, il lavoro salariato di matrice industrial-fordista, in quanto fortemente entropico, conferma questa analisi: risulta dunque evidente l’auspicabilità sociale una sua diminuzione. Come il movimento per la Decrescita ha più volte sottolineato, una riduzione del metabolismo sociale a livello globale è un requisito necessario per allontanare lo spettro della catastrofe ecologica (Deriu 2016).
Tale riduzione, tuttavia, non copre che una piccola parte della riflessione sul rapporto natura-lavoro nell’Antropocene. L’emergere del lavoro-conoscenza come centrale, infatti, schiude la possibilità di pensare e organizzare una forma di lavoro neghentropico[5], inserito in una teoria informazionale del valore-lavoro e che ancora attende di trovare una sua architettura istituzionale qualitativa (al di là, quindi, del rapporto salariale). Esso non può compensare il danno ecologico che ci ha trasportati nell’Antropocene; può però indicare alcune linee d’intervento politico per abitarlo diversamente – fuori dal mercato e dal feticismo tecnologico – e infine evaderne. Sul lavoro neghentropico dovrebbe basarsi a nostro avviso ciò che Nina Power ha definito “de-capitalizzazione” [decapitalism] (2015), vale a dire una strategia di lotta che aggredisca il capitalismo contemporaneo senza accettare l’aut-aut tra ottimismo accelerazionista e auto-restrizione decrescitista[6]. Essendo fondamentalmente legato al General Intellect, il lavoro neghentropico non può che installarsi su di un paradigma tecno-economico di stampo digitale: solo da quella prospettiva diviene possibile politicizzare la sostenibilità in modo tale che una conoscenza sociale non mercificata possa porsi al servizio della protezione ambientale. Di nuovo, non si tratta di pensare che le ICT in quanto tali possano ‘risolvere’ la questione ecologica: allo stato attuale delle cose i loro requisiti energetici non sono compatibili con un pianeta in salute. Resta tuttavia possibile costruire rapporti di produzione che privilegino lo sviluppo autonomo del lavoro neghentropico rispetto agli imperativi dell’accumulazione capitalistica: tali rapporti dovranno diventare il terreno su cui edificare un modo di produzione sempre più basato su reti peer-to-peer legate a beni comuni e sostenibilità ambientale.
Si tratta con ogni evidenza di un programma di ricerca e azione politica ancora in fase embrionale[7]. Riportiamo perciò, in conclusione, due suggestioni che speriamo di poter approfondire in futuro. La prima riprende l’approccio farmacologico di Bernard Stiegler, il quale legge l’Antropocene non solo come apice della società iper-industriale e della proletarizzazione tecnologica ma, allo stesso tempo, come condizione di possibilità per il suo stesso superamento, cioè per un ri-direzionamento dell’entropia verso la produzione di “valore neghentropico” (2015: 20). Si tratta, per dirla con Sara Baranzoni e Paolo Vignola (2016), di biforcare alla radice, cioè d’individuare “l’ipotetico punto di rottura dove da un’epoca catastrofica e totalmente entropica si può passare a un epoca fondata sull’inversione di questa tendenza”. Questa prospettiva ci interessa soprattutto perché estende il concetto di proletarizzazione all’ambito della conoscenza sociale, mostrando come il futuro – anche ecologico – del pianeta risieda nella riappropriazione da parte di lavoratori e consumatori delle varie forme di sapere che gli sono state sottratte nel capitalismo cognitivo (Baranzoni e Vignola 2015). Oltre al sintomo-Antropocene, ecco emergere i primi segni di una possibile terapia politica.
La seconda suggestione rimanda alla necessità, segnalata con particolare accuratezza da Matteo Pasquinelli, di integrare la teoria energetica del valore-lavoro, fondamentale per comprendere il capitalismo fossile (Malm 2016), con la teoria informazionale del valore-lavoro, senza la quale sarebbe impossibile cogliere la specificità del capitalismo cognitivo. Tale integrazione è urgente poiché, in sua assenza, la forbice che separa le lotte sull’informazione (dal movimento hacker al precariato digitale, da Anonymous al mediattivismo post-Snowden) e le lotte sull’energia (dai movimenti anti-nucleari alla giustizia ambientale e climatica, dall’ecologia urbana alle lotte dei nativi per la sovranità alimentare e territoriale) è destinata ad allargarsi. “Per usare un concetto classico dell’operaismo: una nuova composizione politica di energia e informazione deve essere elaborata contro la composizione tecnica che le ha biforcate fin dall’era industriale” (Pasquinelli 2017).
Non potremmo concordare di più. Ci preme solo sottolineare che, a dire il vero, non si comincia da zero: già nel 1977 André Gorz, di cui ricorre quest’anno il decennale della morte, mostrava in Ecologia e libertà come l’eco-socialismo avesse bisogno simultaneamente di una re-invenzione radicale del lavoro, di una ri-localizzazione della produzione e di una ri-appropriazione autonoma della tecnologia[8]. Si tratta quindi, per ricordare il rivoluzionario francese nel modo migliore, di proseguire qui e ora la sua ricerca su nuovi terreni, di trovare nuove pratiche di conflitto per aprire il passaggio verso civiltà del tempo liberato. Tenendo sempre bene a mente che “l’autonomia sociale è la prima forma di resistenza all’entropia economica” (Pasquinelli 2011: 7).
Note
[1] Con il termine hack s’intende l’uso originale di un sistema pre-esistente.
[2] Questo tema rientra nella dimensione algoritmica del capitalismo contemporaneo. Per un approfondimento si veda Pasquinelli (2014a).
[3] Va comunque segnalato che Moore riprende qui gli esiti più importanti della critica femminista all’economia politica e alla storia del capitalismo. Per un approfondimento si vedano Federici (2014), Merchant (1988) e Mies (1986).]
[4] Nel contesto della termodinamica classica l’entropia è una funzione di stato di un sistema termodinamico che, quantificando l’indisponibilità di un sistema a produrre lavoro, viene introdotta insieme al secondo principio della termodinamica [l’entropia di un sistema isolato lontano dall’equilibrio termico tende a salire nel tempo, finché l’equilibrio non è raggiunto]. In base a questa definizione si può dire che quando un sistema passa da uno stato di equilibrio ordinato a uno disordinato la sua entropia aumenta.
[5] La neghentropia è l’opposto dell’entropia: mostrando la relativa validità di quest’ultima rispetto a sistemi chiusi, essa si afferma come processo di reintegrazione dell’ordine. I due fenomeni non esistono in forma pura, bensì emergono da un’originaria interazione. Per esempio, nel caso del metabolismo degli organismi viventi, vi è da un lato il catabolismo, cioè il consumo e la distruzione di tessuti organici da parte dell’organismo, e dall’altro l’anabolismo, cioè la ricostituzione di questi tessuti attraverso l’assunzione di varie forme di energia.
[6] A dire il vero sono già in atto prove di avvicinamento – o per lo meno di dialogo – tra Decrescita e Accelerazionismo. Per esempio, Aaron Vasintjan scrive: “Se da un lato la Decrescita non possiede un’analisi dei regimi socio-tecnici contemporanei – e non sa dunque come affrontarli – dall’altro l’Accelerazionismo sottostima grandemente l’incremento metabolico imposto da tali regimi. Nulla vieta però di cominciare a comunicare a dispetto dei rispettivi branding ideologici: c’è tanto da imparare per entrambi” (2015).
[7] Tuttavia, alcune recenti elaborazioni sia nel campo della Decrescita (D’Alisa et al 2015) che della produzione Peer-to-Peer basata sui beni comuni (Bollier 2015) fanno ben sperare.
[8] A questo proposito occorre segnalare gli importanti lavori di Tiziana Villani (2013) e Ubaldo Fadini (2015) che, connettendo la ricerca gorziana alle analisi ecosofiche di Félix Guattari, hanno mostrato come la ri-singolarizzazione delle soggettività, le trasformazioni del sociale e la reinvenzione continua dell’ambiente siano condizioni necessarie per una messa in discussione delle forme dominanti di valorizzazione delle attività umane.
Fonte immagine: The Economist.