Il signor Li Ansheng ha ottant’anni e legge un comunicato di fronte alla videocamera. Attorno a lui ci sono solo macerie. È ciò che resta della fabbrica di abbigliamento Yu Long, che dal 1995 si trovava nel villaggio di Dong Xiaokou, a nord di Pechino. Il signor Li, che si presenta come “rappresentante legale” della manifattura, dice di aver rispettato la legge e sostenuto il Partito comunista per tutta la vita. Ha in mano dei documenti: sono il certificato legale di utilizzo del terreno e quello di proprietà degli immobili, cioè in pratica le scartoffie che certificano come la Yu Long avesse il diritto legale di esistere e di stare lì.

Il 15 novembre, il vicesindaco di Dong Xiaokou, Li Xiaotao (stesso cognome), si è presentato alla testa di circa 6-700 uomini in uniforme, che hanno espulso a forza – spintoni e botte – tutti coloro che lavoravano e vivevano nel complesso, tra cui molti anziani e bambini. Poi hanno raso al suolo l’intero isolato. La polizia locale ha in seguito dichiarato che gli autori dello sgombero erano uomini della “sicurezza privata” assoldati dal vicesindaco Li. “Noi non c’entriamo nulla”, dicono i poliziotti di  Dong Xiaokou. E nulla fanno.

Questa ennesima storia di demolizioni/espulsioni che colpiscono i lavoratori migranti di Pechino è particolarmente significativa perchè si è verificata tre giorni prima dell’incendio che in una costruzione “illegale” dalla parte opposta della capitale, nel villaggio meridionale di Xinjiancun, ha ucciso 19 persone e dato quindi il pretesto alle autorità per avviare un’operazione di 40 giorni per “sanare” i tuguri di Pechino. I lavoratori migranti – cioè la forza lavoro a basso costo che ha permesso il boom cinese –  vivono con le loro famiglie in queste strutture che spesso uniscono produzione-magazzino-abitazione. Adesso vengono semplicemente sbattuti in strada.

Le quzhu – parola dal suono sinistro che significa “espulsione” – non sono quindi la conseguenza di un evento occasionale. Sono un programma.

Il programma è stato delineato a settembre da Cai Qi, segretario del Partito comunista a Pechino, uno dei pupilli del presidente Xi Jinping con un passato da sindaco della città di Hangzhou – dove ha sperimentato il metodo della distruzione/ricostruzione urbanistica – e nella Commissione di Sicurezza Nazionale istituita dallo stesso Xi nel 2014.

E proprio questi due pilastri del curriculum di Cai, la realizzazione della sicurezza mettendo mano all’urbanistica – cioè una gentrificazione con caratteristiche cinesi – sembrano costituire la visione che ha il Partito rispetto alla capitale della Cina. Cai Qi ne è l’esecutore materiale e dichiara esplicitamente che bisogna riorganizzare le funzioni “non da capitale” di Pechino. Significa “ridurre la densità di popolazione, la densità degli edifici, la densità dei turisti e delle attività commerciali, e fare di tutto per mantenere tranquillo il nucleo centrale della città”. Nello stesso documento, Cai sottolinea che per nucleo della città non si intendono solo le zone di Dongcheng e Xicheng – cioè quelle all’interno del secondo anello delle circonvallazioni, le antiche mura Ming già demolite da Mao – bensì tutta la città attuale da 23 milioni di abitanti.

Alcuni amici dicono che Xi Jinping vuole far diventare Pechino una specie di Washington cinese. Io mi sento sempre più in una Pyongyang capitalista.

Questo processo ben rappresenta il passaggio della Cina da un’economia industriale a un’economia postindustriale. Dalle “riforme e aperture” proclamate da Deng Xiaoping a fine anni Settanta, l’accumulazione che ha creato quell’enorme liquidità con cui oggi i cinesi comprano le nostre imprese e le nostre squadre di calcio si è basata fondamentalmente su due risorse: la disponibilità di un enorme esercito industriale di riserva (manodopera a basso costo) e la speculazione immobiliare. I due fattori erano strettamente connessi. Senza entrare in eccessivi dettagli, va considerato che il sistema di proprietà dei terreni in Cina è duale: in genere i terreni urbani sono di proprietà dello Stato, mentre quelli rurali appartengono alle “comunità di villaggio”. Sui primi è possibile edificare per decisione che cala dall’alto; sui secondi no, bisogna passare attraverso i contadini che, come da tradizione, hanno le scarpe grosse e il cervello fino. Negli ultimi trent’anni, il sistema ha quindi cercato costantemente di espropriare i contadini dei terreni per pigliare i classici due piccioni con una fava: avere spazio edificabile e creare forza lavoro a buon mercato. Ma il sistema “duale” ha spesso consentito alle comunità rurali di resistere. Così, i governi provinciali – che hanno le casse perennemente in rosso perché il sistema fiscale li penalizza rispetto al governo centrale – si sono inventati di tutto per appropriarsi dei terreni agricoli e renderli edificabili, facendo quindi crescere il loro valore geometricamente: dagli espropri violenti, al pagamento di compensi alla popolazione rurale, ai cosiddetti “land swap” – un meccanismo abbastanza complesso per riconvertire i terreni rurali in urbani – e così via. Questo processo è anche all’origine delle ormai famose città fantasma cinesi, costruite nel nulla e disabitate perché tanto il valore immobiliare cresce comunque. E soprattutto della “popolazione fluttuante”, i lavoratori migranti d origine contadina che si sono riversati nelle maggiori metropoli in cerca di lavoro. Qui, restano popolazione di serie B perché non hanno l’hukou urbano – cioè il permesso di residenza – e non possono quindi accedere a beni e servizi riservati alla popolazione residente: dalla scuola per i figli alle cure mediche. Ed ecco quindi come nasce il tugurio in cui vivono i lavoratori migranti, forza lavoro che ha creato la nuova Cina ma che dalla nuova Cina è stata discriminata.

Oggi, il modello Deng è giunto al capolinea. Il prossimo grande balzo in avanti nella modernità, la prossima accumulazione, non si fa più come “fabbrica del mondo”, specialmente dopo che la crisi finanziaria globale ha frenato l’export di merci a basso valore aggiunto. Il “sogno cinese” di Xi Jinping si costruisce da economia che compete al punto più alto dello sviluppo capitalistico: tecnologia, innovazione. C’è bisogno del giovane istruito nell’università straniera più che dell’operaio a bassa qualifica.

Per attirare la forza lavoro interprete di questo balzo, c’è poi quello che David Harvey definirebbe il capitale simbolico della città, Pechino. La metropoli che nasce come casa dell’imperatore deve tornare a esserlo: una città vetrina, ripulita da quei successivi strati di popolazione che si sono accumulati dal 1949 a oggi. Gli hutong, i vicoli, devono tornare a essere pareti lisce che contengono le case a corte della nobiltà mancese rivisitata all’oggi (funzionari, manager) e attirano un turismo delle grandi agenzie viaggi, un turismo che spende. Basta con il caos autoprodotto di attività commerciali spontanee, negozietti, costruzioni abusive, tavolini dove i vecchi giocano a mah jong, gabbie per piccioni.

Il mingong che fa lavori umili non serve più, almeno nei proclami.

Dal 2010, anche in alcuni documenti ufficiali è comparsa una definizione infame del lavoratore migrante: diduan renkou, “popolazione di basso livello”. Non è più neanche “manodopera”, è la loro stessa umanità a essere sminuita. Per fortuna, l’indignazione popolare dopo il rogo del 18 novembre ha fatto sparire quel termine autenticamente nazista dalla rete e dai media. La censura ogni tanto funziona a fin di bene.

Ma siamo sicuri che il migrante non serva più? Qui in realtà assistiamo alla contraddizione tra l’espulsione di questi lavoratori e il ruolo che svolgono nella moderna società di servizi. A Pechino, la loro “assenza” è sempre più percepita. Il mingong – migrante rurale – è diventato ormai xin gongren – nuovo lavoratore – sempre più integrato nella metropoli: le a’yi, le bambinaie/donne delle pulizie/badanti sono migranti; i kuaidiyuan, i corrieri espressi indispensabili all’e-commerce sono migranti; migranti sono i camerieri, i ragazzi che portano il boccione dell’acqua negli uffici.

L’opinione pubblica cinese (cioè la classe media) non critica tanto il processo in corso – percepito come “necessario” per conseguire “lo sviluppo” – quanto il modo in cui viene attuato: un compassionevole paternalismo. Ma soprattutto, il nuovo ceto medio prova fastidio per i contrattempi a cui lui stesso va incontro: “Dov’è finita la mia a’yi?”.

Per il governo si pone quindi il problema di come allontanare il migrante dal “nucleo” della città, mantenendolo comunque a tiro per ricorrervi come forza lavoro estremamente flessibile. Sarà interessante vedere come chi ha deciso di espellere il mingong risolverà questo problema. Alcuni compagni della nuova sinistra cinese prevedono che saranno stabilite delle quote: tot a’yi, kuaidiyuan, camerieri per tot abitanti, usando sempre l’hukou o magari una politica degli alloggi calmierati come dispositivo per fare selezione all’ingresso. Oppure si delegherà al privato: sembra che le più importanti società di delivery – come Baidu Waimai – stiano già provvedendo ad abitazioni a prezzi contenuti per i propri dipendenti.

Da parte sua, la narrazione prevalente sui media corporate occidentali è ancora una volta viziata dall’agenda politica liberaldemocratica: si attacca la Cina in quanto “Cina”, perché non aderisce al modello politico occidentale; ma guai a criticare come funziona l’accumulazione del capitale. Dopotutto nei nostri paesi occidentali abbiamo già assistito a simili processi di gentrificazione, come l’Haussmannizzazione di Parigi.

Nei giorni immediatamente successivi al 18 novembre, c’è stata una certa reazione. L’impressione è che anche i media cinesi siano stati in prima linea, il che rivela un dissenso strisciante all’interno del Partito e della società. Nel villaggio di Picun, giornalisti di Tencent e Caixin sono stati per esempio pestati da liumang (hooligans,teppisti) simili a quelli visti all’opera a Dong Xiaokou. Sui social media sono proliferate le video-testimonianze e c’è stato anche un certo dibattito, spesso non censurato in tempo reale. È stata lanciata una petizione online a cui hanno aderito sia intellettuali, sia funzionari, sia semplici lavoratori.

Tutto è molto sottile e controverso: per esempio, alcuni mettono in evidenza come la demolizione delle abitazioni abusive sia un bene perché così si fa piazza pulita dei riscaldamenti di fortuna a carbone (quest’inverno in effetti l’aria sembra insolitamente buona). Ma c’è chi invece protesta perché adesso i migranti espulsi sono al freddo e al gelo, tant’è che il governo ha dovuto fare un passo indietro sul bando del carbone. Ancora una volta, come in una Taranto globale, salute della collettività e diritti umani (del lavoro, civili) sono entrati in collisione.

Tutti si interrogano sul metodo con cui questa operazione di polizia&pulizia viene effettuata, più che sulla sua necessità. Non si espelle e demolisce senza offrire alternative. Specialmente quando per trent’anni è stato incoraggiato il processo inverso: “Benvenuti a Pechino”, slogan delle Olimpiadi 2008, sembra essere improvvisamente diventato “vattene!”.

Ma con il passare dei giorni e degli articoli sui media, gli abitanti degli immobili “illegali” sono rimasti da soli a reagire con proteste di strada che contestano la repentina brutalità, quasi la fretta, del giro di vite. Ne hanno ben donde: a Pechino il termometro è sotto lo zero e loro restano senza casa.

 

Fonte immagine: The Star

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