Questa è la storia della fine di un rapporto di coppia, una delle tante. È la storia di un caro amico che dopo la rottura ha iniziato a guardarsi dentro, cercando di capire cos’era successo e come si fosse arrivati al punto di non ritorno. Una normale storia di fine relazione che potrebbe, alla fine di un percorso personale che il compagno sta iniziando, potrebbe raccontare con drammatica durezza la distanza che esiste tra il dire ed il fare nel percorso di lotta al patriarcato e quindi nel lavoro di de-costruzione che gli uomini dovrebbero fare. Ho deciso di dar voce alle sue riflessioni, per quanto ancora acerbe perchè potrebbero, nel proseguo del suo lavoro, sostanziare “il personale è politico”.
Di errori, concause, dettagli non parleremo, non servono, non sono interessanti e riguardano il privato dei due. Interessante invece è provare ad osservare le dinamiche che lui sente di aver riprodotto e che hanno portato lei a decidere di chiudere la storia dopo un percorso di anni che ha esaurito emozioni ed amore nei confronti dell’ex partner.
Tutto sembra iniziare una decina di anni fa quando i due vanno a convivere. Lui lavorava, lei no. Lui, seppur più grande, poca abitudine a vivere “solo” perchè era abituato ad usare la casa solo per dormire. Lei si è presa in carico la cura della casa. Poi, lei ha iniziato a lavorare precariamente, decidono di fare un figlio e di comprare casa, intanto lei ha intrapreso percorsi sociali e politici. E lui? Nulla, seduto sull’accordo di anni prima, faceva da mangiare, faceva la spesa (spesso chiedendo a lei cosa ci fosse da comprare, certamente mai attento alle mancanze di prodotti per l’igiene della casa) e, su indicazione della sua compagna, ogni tanto faceva qualcosina… Intanto la relazione proseguiva con l’arrivo di un bambino e l’acquisto di una casa. Chi pensate abbia gestito la compravendita? Lui è intervenuto in una sola occasione e co-organizzando il trasloco, preoccupandosi di trovare persone che aiutassero, nulla di più. Poi, cinque anni fa è nato il bambino, e nuovamente lui lavorava e lei “no” – come se curare un neonato non fosse un lavoro… e lui leggendo libri sul femminismo questa cosa avrebbe dovuto saperla e riconoscerla.
Lei, ad un mese dalla nascita del bimbo, dopo una discussione notturna, scrive: “Scusa amor, non volevo mettere in dubbio che anche per te sia stata una notte difficile. Se non stavi dormendo non posso però evitare di chiedermi… allora perché non ti sei mai alzato ad aiutarmi? Capisco anche il “tra 6 ore devo svegliarmi”. Ma quindi? Cosa vuol dire? Che devo fare da sola? Perché io lo faccio, però per 6 ore di fila non dormo da non so quanto, e anche non filate non è scontato che riesca a racimolarne 6 ore di sonno in una notte. Questa notte avrò dormito sì e no 4 ore. E va bene così. Ma almeno quando non serve la tetta ho bisogno il cambio, se no si fa davvero pesante. Piuttosto andiamo a dormire prima se serve, così c’è più margine prima che tu debba uscire di casa. Se alzarsi in piena notte è troppo dura prima di un turno impegnativo, magari potresti anche solo cambiarlo e cullarlo un po’ prima di uscire. Per quanto brevi, anche solo quei pochi minuti prima che chieda di nuovo la tetta possono essere di sostegno, oltre che un modo per salutarlo prima di andare via”.
Ed in risposta riceve: “Mi sono svegliato 3 volte per pisciare. Due volte perché lui piangeva e con te che gli stavi dando da mangiare, tra una volta e l’altra addormentarsi non è stato facile. Eviterò di dire ed esprimere le mie difficoltà. Oggi guardiamo come funziona il tira latte, così di notte ci penso io a dare al bimbo da mangiare. Don’t worry”. Il tiralatte, però, è ancora lì, sigillato.
Da quel momento in poi il piano inclinato della distanza d’investimento, soprattutto mentale e di attenzione, si è fatto sempre più pendente. Lei, a quanto mi riporta il mio amico, in una prima fase si metteva in discussione addossandosi responsabilità non sue, dicendo di sapere di essere “pesante” e “rompiscatole”, dall’altra parte lui si diceva pronto a parole a prendersi pezzi di lavoro domestico e di cura, di fatto cambiando modo di vivere ed essendo fisicamente più presente in casa, ma riguardandosi si rende conto di essere stato assente e lontano dal compiere quanto promesso…. giustificando il tutto con l’impegno lavorativo e il carico politico. La situazione era talmente squilibrata, non solo nel lavoro di cura ma anche negli aspetti riguardanti il carico mentale e la presenza negli aspetti della vita quotidiana, che lui non aveva nemmeno l’accesso all’home banking del conto comune. Mentre questa dinamica continuava e si aggravava, ora gli pare di poter dire che in lei cresceva frustrazione e rabbia, mentre in lui un sentimento di incomprensione e lamentava continuamente di essere solamente criticato… ciò potrebbe, dice, aver portato ad una rarefazione delle comunicazioni con lei sempre più stanca di dover chiedere e di sentirsi criticata. Pensava che stava “facendo cose” per de-costruire la propria figura e di andare verso le necessità della sua compagna. Come, vi chiederete voi? Smettendo di discutere e di litigare, perché discussioni e litigate facevano soffrire, e molto, la ex partner… anche perché l’atteggiamento di lui durante i conflitti – si è accorto – portavano seco modalità machiste e violente, come posture del corpo rigide, freddezza in volto e a volte anche lo smettere di parlare per giorni.
Ma mentre tutto questo accadeva per una forma, evidentemente errata e problematica, di “cura”, dall’altra parte si velocizzava il percorso di de-responsabilizzazione nella vita di coppia e famigliare. Lui si convinceva che evitare conflitti e discussioni assecondando le prese di posizione della sua ex compagna servisse a riconoscerle spazi, volontà e necessità e nascondendosi dietro la capacità della partner di prendere decisioni, organizzare la vita famigliare e preoccuparsi del tutto; lui le scaricava di fatto scelte, responsabilità e carichi. Si è accorto di aver continuato a dire “facciamo come vuoi tu?” oppure “dimmi cosa devo fare che lo faccio”. Oppure, tronfio di sé, elencava giornalmente le cose fatte durante il giorno, dicendo, in maniera indiretta, a lei: “Ora sai che c’è da fare perché io ho già dato”, o almeno è quello che – emerso dalle loro discussioni post rottura – lei percepiva o lui ha capito. Lavoro di cura e carico mentale completamente scaricati, incapacità di cogliere le grida di allarme che lei lanciava, atteggiamenti scocciati quando lei sollevava questioni. Il tutto auto giustificandosi tra presunti sforzi e investimenti per farle “piacere” e le fatiche della precarietà lavorativa. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, lei si sottraeva al dialogo e si allontanava, lui pur accorgendosene non faceva molto, se non quando la vedeva visibilmente arrabbiata, che portarla allo scontro.
Voi penserete “ma in una coppia si è in due, gli errori si fanno in due”. Vero, ma come dicevo all’inizio non è interessante entrare in dinamiche più personali e delicate e soprattutto fare analisi di chi ha sbagliato cosa.
Interessante è vedere come una persona che si è sempre detta attenta al femminismo, ha letto libri, ha partecipato a manifestazioni, ha comprato i fumetti di Emma per regalarli, si renda conto, sicuramente ancora in forma parziale, di non essere stato in grado di vedere come stesse replicando nella coppia pratiche patriarcali.
Ora si rende conto, nel parziale viaggio che ha realizzato, che con la nascita del bambino, lui non sia stato in grado di fare un salto di qualità nel lavoro di cura e nell’attenzione allo stato di salute e benessere della sua (ex) compagna, restando appoggiato al palo del privilegio, rendendosi certo “disponibile” e “attivo”, ma solo su richiesta, quasi mai pronto neppure a dire “amore sto io oggi con il bambino due o tre ore, tu prenditi del tempo” (dai racconti che ho forse questo sarà accaduto due o tre volte in diversi anni), senza pensare che una ripartizione paritaria della cura del bimbo non passa certo da una “concessione” di qualche ora. Se pur parziale e incompleto, la consapevolezza di quanto agito attivamente – lui dice – genera un doppio dolore: uno per la fine della storia e uno per essersi reso conto di ciò che aveva replicato, oltre che rendere complessa la gestione del bambino.
Una storia come tante che si è chiusa probabilmente solo quando lei è riuscita a buttare fuori anni di frustrazione e dolore, buttati fuori certamente con rabbia degna e inquietudine. Lui, invece, dice di non essersi arrabbiato, certamente ha reagito mortificandosi mentre ha iniziato a rendendosi conto di quanto messo in campo, di quanto “fatto subire al più grande amore della sua vita”.
Lui dice di farsi schifo e per questo ha deciso, anche qui con tempi oramai tardivi, di iniziare un percorso di de-patriarcalizzazione dei comportamenti per combattere violenza e azioni maltrattanti. Questo è certamente importante e lui dice di aver deciso di farlo per sé e per essere un padre migliore. Ma è da vedere se avrà il coraggio di portarlo a fondo e, soprattutto, quali saranno i ragionamenti che riuscirà a fare anche sulla fine della storia. Troppo spesso, come lui ha ammesso, ha fatto promesse e si è detto pronto a fare cose che invece non ha fatto.
La sua ex compagna affrontando la fine della storia ha certamente espresso rabbia, con forza e nettezza. Una rabbia degna che a quanto lui ha capito lei ha tenuto nascosta per tanto tempo sperando che le “cose si sistemassero”. Una rabbia che certamente l’ha portata a liberarsi della situazione oppressiva. Lui dice di essersi arrabbiato solo in un secondo tempo, ma non in maniera degna, scoprendosi geloso per gelosia, replicando, così, nuovamente stilemi patriarcali.
Perché ho deciso di dare spazio al racconto non solo parziale ma probabilmente ingenuo, di questo amico? Perché mi pareva interessante poter mettere in circolo un fragile ragionamento che non incolpa una parte della coppia per la fine della relazione ma prova – e la speranza è che sia davvero così – ad aprire un discorso individuale per cambiare il suo modo di fare… cercando il modo di combattere, non a parole, il patriarcato. E perché, come sostiene, Carol Hanish: “Poiché abbiamo vissuto così intimamente con i nostri oppressori, in isolamento le une dalle altre, ci è stato impedito di vedere la nostra sofferenza personale come una condizione politica. Ciò crea l’impressione che il rapporto di una donna con un uomo sia una questione di interazione tra due personalità uniche e che può essere risolto nel privato. In realtà tutto va inscritto in una cornice più grande, e i conflitti tra singoli uomini e donne sono conflitti politici che possono essere risolti solo collettivamente”.
Immagine in apertura: René Magritte, L’amore a distanza, 1965
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