La recente vertenza sul trasporto pubblico locale di Genova ha riportato alla ribalta, al di là della valutazione sull’esito del conflitto, l’efficacia di un’azione che, negli ultimi anni, è sembrata a molti desueta e inefficace: lo sciopero. Ma si tratta di una forma di sciopero non convenzionale, fuori dalle regole oggi esistenti che lo hanno fortemente depotenziato, spesso con la complicità degli organismi sindacali stessi. E’ quindi necessario ripensare e adeguare il concetto di sciopero alle nuove forme di valorizzazione e alle nuove figure del lavoro. Con questo contributo, intendiamo iniziare una riflessione sulle pratiche di conflitto e sull’idea stessa di sciopero.

Della decadenza dell’ex premier poco ci importa. Decadente, il signor B, lo è senza dubbio. E, aggiungiamo, egli è pure il deprimente archetipo del disonorevole condottiero di un Paese a cui è stato imposto lo spot triste della convenienza di una servitù volontaria, il martellio opprimente dei modelli della sottomissione e dell’impotenza.

Ci piace invece insistere sull’insegnamento che è arrivato, inaspettato, dai tranvieri di Genova. Ennesima dimostrazione che la “storia” sta da un’altra parte, tra le persone che vanno al lavoro, studiano, creano ricchezza (spesso senza che ciò venga riconosciuto), partecipano al lavoro di riproduzione sociale, fanno i conti con un reddito sempre più insufficiente.

Succede dunque, ancora e sempre, che quella che viene raffigurata come una massa passiva, fiacca e ignorante, sappia riscoprire l’essenza, sfidando la storia ufficiale, i grandi destini, l’Europa che chiede genuflessione e privatizzazione.

“Succede, dunque, a volte che le persone cominciano ad acquisire una consapevolezza più o meno profonda del fatto di avere interessi in comune con tutti gli altri come loro che sono opposti a quelli dei loro datori di lavoro”, scrive Jeremy Brecher  in Sciopero! “Nel momento in cui i lavoratori iniziano a perseguire strategie collettive, si accorgono che uniti hanno molto più potere che presi isolatamente. Costituiscono la stragrande maggioranza nei luoghi di lavoro, nelle comunità locali, in tutto il Paese. La vita stessa delle imprese, e in fin dei conti della società intera, poggia sul loro operato. Astenendosi dal lavoro, o rifiutandosi di obbedire all’autorità costituita in altri modi, possono bloccare la produzione, fermare  le città e in definitiva arrestare la vita dell’intera nazione”[1].

Per depotenziare questa forza, evidentemente, entra in gioco il ruolo delle istituzioni, politiche e sindacali che pure sostengono di rappresentare i lavoratori. Il profilo che quest’epoca pretende di assumere è essenzialmente quello della repressione e della normalizzazione e il sindacato, nel mordere dei problemi generati dal rigore e dall’austerity dell’Europa-che-ce-lo-chiede, svolge oggi con sempre maggiore aggressività il proprio ruolo, fino a diventare l’interprete minaccioso delle strategie dei padroni e degli stati lacchè delle banche. Essendo saltato il ruolo di “mediazione” che il sindacato riveste per sua stessa natura, nella configurazione di un capitale “as-soluto[2]” che non si sente minacciato poiché gli attuali rapporti di forza sembrano solo a suo vantaggio, i rappresentanti dei lavoratori non solo contrastano i propri rappresentati, ma incutono loro paura: sono tristemente ridotti a caporali a cui raccomandarsi nell’incertezza e nella speranza.

Pur consapevoli di questo, perciò fuori da ogni inutile enfasi, senza dirci profeti di possibili rivoluzioni dietro l’angolo ma dentro la materialità delle cose, semplicemente diciamo: non credere mai a chi ti racconta che uno sciopero, quando non è più un rito stantio e vacuo, ma preannuncia sottrazione e infedeltà,  “non serve a niente”; non dare retta a chi sostiene che è un’arma spuntata, inutile, vecchia, consunta. Lo sciopero è lo strumento che mostra, ancora e sempre, il nostro potere.

Ricordiamo anche Milano, quando, tra dicembre e gennaio 2003-2004, la città si bloccò con cinque giorni di scioperi dei tranvieri “correttamente dichiarati in anticipo ma a sorpresa estesi dai tranvieri anche alle fasce protette”, mentre i sindacati confederali diffondevano appelli unitari per convincere i lavoratori a riprendere il servizio, condannando ”lo sciopero fuori dalle regole”. Uno sciopero rituale e impotente si trasformò in un’azione di lotta in grado di incidere sui rapporti di forza. Uno sciopero per fare male.

Qui sta il punto, ed è incredibile quanto sia banale ma toccherà ripeterlo.  Perché l’idea di sciopero – che oggi viene dichiarato e reso possibile paradossalmente solo se non crea danni all’interno di una gabbia di regole corrotte che ne hanno annullato l’efficacia – deve essere aggiornata, ritrovando sua funzione originaria: quella di causare il blocco della produzione di ricchezza.

Durante lo sciopero “selvaggio” di Milano quel dicembre 2003, quasi nove imprese su 10 subirono disagi perché i dipendenti non avevano potuto raggiungere l’ufficio e un dipendente su tre (29%) era arrivato in ritardo (in media di un’ora e dieci minuti): 150mila persone non erano riuscite a raggiungere il posto di lavoro. La perdita di fatturato dichiarata dalle imprese di Milano e provincia arrivò a 140 milioni di euro (in media 400 euro per impresa, pari circa al 13% del normale fatturato giornaliero). Solo a Milano città le imprese persero 100 milioni di fatturato.  Vedi qui. Sarebbe interessante conoscere i dati dello sciopero di Genova. 

La produzione, oggi, è organizzata per flussi. Dunque perché lo sciopero possa essere un arma efficace non può limitarsi a bloccare gli stock di produzione (come nel taylorismo) ma deve intercettare e bloccare i flussi di merci, di persone e di informazioni. E’ per questo che nella logistica, sia nel caso di trasporto di persone (Milano ieri, Genova oggi) che di merci, lo sciopero è capace di colpire ancora e duramente (vedi gli scioperi nella distribuzione o nel trasporto marittimo). 

Ma, certo, non basta ancora, andiamo avanti: l’idea di sciopero deve essere aggiornata anche sotto un altro profilo. Deve diventare espressione di dis-identificazione professionale, messa in discussione dell’individualismo proprietario, messa in discussione del concetto stesso di “produzione”. Deve assumere la forma dello sciopero sociale, nelle reti della riproduzione sociale, tenendo conto del contributo del femminismo e delle trasformazioni del lavoro (sciopero da fb, sciopero della spesa, sciopero dall’università del debito…).

Si può fare anche l’esempio della protesta scoppiata in Campania a seguito delle vicende legate all’inquinamento da rifiuti tossici e non. Il senso della protesta è significativamente contenuto nel concetto di “biocidio” che diventa esplicita accusa a tutte le variegate forme dell’azione del capitale contemporaneo e dei suoi agenti istituzionali. Momento di lotta biopolitica, innanzi a processi che vanno molto oltre la cattura del bios o l’orientamento dei desideri attraverso i dispositivi del lavoro, del consumo e del debito, arrivando a trarre forme di valorizzazione direttamente dalla “morte”. Sottrarsi a questo destino di morte attraverso la protesta è il senso delle campagne “stop biocidio” che hanno visto riunirsi, in una composizione sociale molto eterogenea, diverse soggettività campane in varie iniziative culminate con la manifestazione “fiumeinpiena” del 16 novembre.

Sciopero! contro la precarizzazione del territorio, dunque. La devastazione progressiva della terra e dunque di sé stesso da parte dell’uomo è una nuova forma esplicita di alienazione. L’esempio delle lotte della comunità campane, delle numerose “comunità contaminate” (si pensi anche all’Ilva di Taranto ma anche al territorio lombardo depredato da Expo 2015), condannate a un destino di morte dalla logica divorante e distruttrice del capitale, ci mette contemporaneamente di fronte alla necessità di dotarci di  un vocabolario sempre più adeguato nei termini di solidarietà e conflitto nel rapporto con le collettività travolte dai disastri. Si pensi insomma agli scioperi di natura certamente “biopolitica” che hanno infiammato nell’ultimo anno molti territori globali, dal Brasile a Gezi Park di Istambul,  dai cognitariato[3] del  Magreb di ieri alla Thailandia di oggi.

All’alienazione del soggetto dal territorio fa infatti da contrappeso la densità della cooperazione biopolitica considerata come rete di affetti, sentimenti, capacità relazionali, comunicative e inventive che caratterizzano sempre ogni collettività umana. Dunque, la biopolitica è un campo di battaglia aperto, dove proprio la ferocia della messa al lavoro integrale di vita e morte, produce, dall’altra parte, continuamente, processi di costruzione di autonomia reale, ben radicati nella materialità dell’esistenza quotidiana delle persone coinvolte.

Il processo di valorizzazione oggi non fa più perno esclusivamente sulla produzione materiale, ovvero sul corpo del lavoratore, schiavizzato e alienato dalla macchina, ma sempre più sul coinvolgimento della sua stessa vita (sentimenti, cuore, cervello). Viene richiesto il suo coinvolgimento totale, autocontrollo e disponibilità di tempo di vita.

Pensare lo sciopero della produzione “immateriale” vuole dire ri-pensare nuove forme di sabotaggio e di blocco selvaggio. Il lavoro cognitivo e di relazione è spesso ancora inabile nell’attuare forme di sottrazione, esodo e infedeltà: da un lato, il coinvolgimento nella prestazione lavorativa è molto elevato, dall’altro, il grado di ricattabilità, nella precarietà del lavoro cognitivo, diventa dispositivo indiretto di subalternità. I processi di contro-soggettivazione faticano a esprimersi, sono facilmente incrinabili, subiscono l’ambiguità dei meccanismi di interiorizzazione, sono inquinati da depressione, stress e nichilismo.

In questo caso, come ci insegna Jason Read, “la produzione di indignazione è un compito difficile, va non solo contro la necessità percepita del modo di produzione capitalistico, ma contro i modi in cui i nostri stessi desideri, le nostre aspirazioni più intime, sono state prodotte dal capitalismo”. Cioè “questa tendenza affettiva non solo spiega perché “lottiamo per la nostra servitù come se fosse la nostra salvezza”, ma anche perché continuiamo contro ogni evidenza  a ritenere che l’attuale sistema economico finirà per cambiare opinione, ci ricompenserà per i nostri sforzi. Non solo ogni trasformazione radicale deve rompere le linee di articolazione che intrecciano il conatus con il lavoro e la felicità con il consumo, si devono produrre altre gioie, altri modi del conatus. Una rivoluzione è un nuovo orientamento tanto delle nostre relazioni affettive quanto delle relazioni sociali, e non può essere l’uno senza l’altro”.

 E dunque, poiché il lavoro è cambiato, anche “la rottura soggettiva espressa dal rifiuto del lavoro resta imprescindibile per l’azione politica” e “la pretesa di fondare una nuova politica non può prescindere da uno scontro con il capitalismo e le sue leggi”.

Perciò, lo sciopero deve anche voler rifiutare di “essere assegnati a una funzione, a uno ruolo a un’identità prefissati dentro e tramite la divisone sociale del lavoro. Da questo punto di vista un operaio, un artista o un lavoratore cognitivo sono esattamente la stessa cosa: delle assegnazioni” (Maurizio Lazzarato).

Cura dello sciopero, perciò, per tutte e tutti. Ne hanno bisogno soprattutto i precari e le precarie che ne sono stati fino a ora esclusi. Protestare fa bene, è una cura vigorosa, fa sentire meno soli, fa venir voglia di cantare.

Protestare per riaffermare il diritto a un reddito, visto non solo come ideologico antagonismo al pensiero dominante ma come una vera cura fisica della mente. Sta qui, forse, uno dei punti di svolta che può modificare la vita senza futuro a cui si è preteso di condannare intere generazioni in qualcosa di diverso. Un varco per la luce in mezzo alle tenebre del presente della mortificazione della crisi. Sciopero, dunque, anche per dare un senso all’uomo e alla donna flessibili moderni, per fargli intravedere qual è la via di fuga, personale e collettiva. Più realisticamente, per dargli la voglia di continuare.

Pur soffocata dai messaggi di rassegnazione che giungono a ripetizione, i tranvieri di Genova forse ci segnalano che può partire una nuova stagione di conquiste sociali? Le bio-precarietà sono plurali e riguardano tutti i campi della vita dell’essere umano. Diritto di proprietà, affetti, interazione sociale, famiglie, consumi, personalità, concetto di reddito e creazione dell’Io: tutto ne è travolto. Quanto ancora potremo consentir loro di imporsi dentro ogni recesso della nostra vita?