Le fonti rinnovabili sono elementi irrinunciabili per la costruzione di un regime energetico fondato sulla giustizia climatica e sociale. Ne sono, però, anche condizione sufficiente? Il testo che segue riflette su questa domanda, discutendo da una prospettiva geografica le contraddizioni del produrre energia ‘pulita’ dentro il paradigma dell’accumulazione perpetua.

Procediamo con ordine. La necessità di de-carbonizzare il regime energetico, è oramai largamente accettata dagli approcci egemonici nell’accademia e nella politica. Tuttavia, sulla determinazione di quanto profondo debba essere tale cambiamento e di come debbano essere distribuiti costi e benefici tra classi e territori, pesano i rapporti di forza prevalenti nella società, aggravati dalla frammentazione della coscienza di classe dei subalterni. All’apice dell’era neoliberale, le teorie della modernizzazione ecologica (del capitalismo) hanno intelaiato la transizione energetica attorno ai principi dell’investimento privato, mettendo l’accumulazione di plusvalore al riparo da qualunque pretesa trasformativa, men che mai sovversiva. Un esito, questo, cui si è giunti attraverso la pacificazione del ciclo di lotte che dalla fine degli anni ’60, e lungo i ’70 e parte degli ’80, intrecciava le istanze ‘ambientaliste’ all’interno dei conflitti di classe, ponendo il sovvertimento sistemico quale unica, complessiva, soluzione alle ingiustizie sociali, quindi ambientali. Le energie rinnovabili erano concepite come alternative all’ordine mondiale -guerresco- del nucleare e delle fossili. Erano, insomma, uno tra gli elementi di una nuova civiltà. Le teorie della modernizzazione ecologica hanno via via astratto e cooptato le energie rinnovabili dal contesto in cui erano state pensate da ecopacifismo e antinuclearismo. Le hanno rese una mera soluzione tecnica, sanificata dal veleno rivoluzionario, completamente funzionale all’accumulazione perpetua. E allo stesso tempo le hanno forzate dentro la retorica imbonitrice della green economy, che dagli anni 2000 ne faceva il testimonial di quanto fosse adeguato, e profittevole, derubricare la distruttiva irrazionalità del capitalismo a semplice imperfezione. Ovvero, di quanto fosse possibile, e sexy, proteggere l’ambiente estraendone profitto.

Se però è vero, come ci ricorda David Harvey, che in ogni momento “l’ambiente costruito appare come un palinsesto di paesaggi la cui forma è determinata dai dettami dei differenti modi di produzione a seconda del loro stadio di sviluppo storico”, dovendone dedurre che “sotto il capitalismo […] tutti gli elementi assumono la forma-merce”1, non può sfuggire a questa logica la svolta ‘verde’ del capitalismo, quindi la produzione rinnovabile dentro il mercato. È infatti con un processo di mercificazione (commodification), continuamente esteso alle nature umane e più-che-umane, che il capitalismo protende verso l’infinito l’estrazione di plusvalore; che crea, cioè, geografie, ecologie e addirittura nature adatte a soddisfare il suo imperativo categorico: per sempre accumulare sempre di più2.

Riformulando la domanda iniziale possiamo ora chiederci quali spazi lascino i sistemi sociotecnici che organizzano la produzione di energia rinnovabile, quindi le narrazioni egemoniche innervate, al superamento in senso eco-socialista dell’ecologia del capitale?

A questo guardano le considerazioni teoriche e politiche3 esposte più avanti. Sono il risultato dello studio di due casi di produzione rinnovabile industriale, condotto nel corso degli ultimi due anni e che ha combinato i metodi qualitativi e quantitativi della geografia umana. Il primo si è concentrato sulla produzione di energia eolica nell’Appennino Apulo Campano, il secondo sulla produzione di biogas, e delle colture energetiche necessarie (mais prevalentemente), negli stati tedesco-orientali di Brandeburgo e Meclemburgo-Pomerania Occidentale. Insomma, due periferie all’interno dell’Europa occidentale, uno dei centri del capitalismo mondiale.

Oltre all’elevata concentrazione geografica di investimenti e alla conflittualità sociale sviluppatasi intorno ad essi, a rendere significativi i due casi è proprio la marginalità economica e sociale dei rispettivi territori. Questa affonda le radici nella storia più o meno recente, successiva all’unificazione, per l’Italia (1861)4, e alla riunificazione, per la Germania (1990)5. E in particolare, il fallimento delle politiche pubbliche, tese a colmare il divario con le aree più ricche dei due paesi, ha relegato i due territori in una geografia periferica, tipica delle comunità sacrificate a svolgere funzioni tributarie dell’accumulazione di capitale, affluente nei centri dell’economia (ecologia) mondo6. Ed è questo contesto che rende le due produzioni rinnovabili assimilabili a enclavi estrattive. Mentre la stragrande maggioranza dell’energia prodotta viene esportata, le tecnologie impiegate7, che drenano porzioni sostanziali del plusvalore estratto, sono importate da centri esterni, come la Germania occidentale, la Danimarca, l’Italia settentrionale, la Cina e gli USA. Infine, i capitali che controllano gli impianti sono, per grandezza e origine, scarsamente integrati nel tessuto socioeconomico locale.

Non bastano però lo spirare del vento e la produttività del suolo agricolo a spiegare il radicamento delle due filiere estrattive. Un quadro omogeneo possiamo costruirlo solo guardando ai costi ridotti e la redditività degli investimenti, alta – come vedremo – nonostante la bassa produttività degli impianti.

In quanto ai costi, a contare è quello della terra. La dismissione dell’economia agricola e forestale dell’Appennino meridionale e la privatizzazione forzata della proprietà collettiva e statale della DDR, dopo il 1989 in Germania, hanno compresso i costi fondiari, inspessendo i margini di profitto. Cosa significa questo dal punto di vista della teoria marxista? Soffermiamoci di nuovo su David Harvey. Secondo il geografo inglese, gli aggiustamenti (fixes) cui il capitale ricorre per mantenere sempre alta la redditività, tirata verso il basso dalle sue stesse contraddizioni interne, sono in sostanza due: l’innovazione tecnologica e la rimodulazione spazio-temporale8 degli investimenti. Nei nostri casi, mentre l’aggiustamento tecnologico, turbine da un lato e digestori-generatori dall’altro, ha consentito di valorizzare determinati processi biofisici, ossia il vento e la produttività del suolo agricolo, quello spazio-temporale ha guidato i capitali verso territori marginali dove l’accesso a tali processi costava meno.

Qualcosa però ancora non torna. Per quanto elevata la produttività della tecnologia, per quanto compressi i costi della terra, né gli aerogeneratori né i digestori-generatori sono in grado di produrre profitto. Nessuno di loro, insomma, ha raggiunto quella che in gergo viene definita grid parity9.

Da dove proviene quindi il reddito che le filiere estrattive in questione redistribuiscono? Dall’incentivazione. Possiamo concepire quest’ultima come un flusso di valore che lo Stato immette nelle filiere, con la legittimazione della – irrinunciabile – necessità di mitigare la crisi climatica. Tale flusso, che origina in processi produttivo-estrattivi situati altrove nell’organizzazione socioeconomica e viene raccolto attraverso il sistema fiscale, è assimilabile a una rendita finanziaria. Con una fondamentale discontinuità: non accresce i profitti dell’entità che lo emette (lo Stato), ma di quella che lo percepisce (investitori-speculatori). Con questa redistribuzione verso l’alto, lo Stato foraggia l’accumulazione privata perché realizzi la transizione energetica, fornendogli, al contempo, una potente legittimazione.

Il volume dell’incentivazione attira gli investitori come il miele le api. Più ce n’è più sciamano. Sia per l’energia eolica in Italia che per il biogas in Germania il picco di investimenti si sovrappone a quello di incentivazione, grossomodo tra il 2002 e il 2012. Durante questo periodo, diverse fazioni del capitale, i settori delle classi lavoratrici direttamente coinvolti (tra cui gli impiegati nella produzione delle macchine e gli installatori) e alcune articolazioni dello Stato, soprattutto a livello locale, hanno cooperato attraverso alleanze territoriali10. Almeno fino a quando il taglio degli incentivi non innescasse il si salvi chi può.

Chiaramente, le specificità dei due casi hanno favorito dialettiche storiche simili solo in parte.

Nell’Appennino meridionale, le opportunità offerte dall’incentivo CIP6 (1992), il primo a sostenere la produzione rinnovabile in Italia, furono colte principalmente da capitale nazionale, con le due aziende Riva Calzoni e West Ansaldo, e da una joint venture di capitale statunitense e italiano riunito nella Italian Vento Power Corporation, di Brian Caffyn e Oreste Vigorito. Questi sarebbe ben presto diventato uno dei re dell’eolico italiano insieme a Vito Nicastri, per potenza eolica gestita. I due incarnano la figura dello sviluppatore verde in salsa italiana. Un ruolo che richiede la conoscenza – palmo a palmo – dei territori, di cui gli sviluppatori, veri e propri intermediari, padroneggiano i linguaggi11. Senza di essi sarebbe impossibile per capitali di provenienza e natura disparata accedere alla catena estrattiva dell’eolico di scala industriale in Italia. Ovvero, agganciare i territori, influenzare gli enti locali, comprese le procedure autorizzative che questi controllano, entrare in contatto con i proprietari della terra e cooperare con le altre fazioni del capitale sovra o sotto-ordinate nella filiera. Nel contesto socio-storico del capitalismo italiano, ciò implica la convergenza di capitali armati, comunemente conosciuti come mafie12. Così la filiera si espande, in uno scambio fitto di influenze e soldi, lungo reti che connettono potentati locali a nazionali, passando per i partiti. Tra questi spicca la Lega Nord13.

In Brandeburgo e Meclemburgo-Pomerania Occidentale il legame normalmente stretto tra biogas e produzione agricola è stato esasperato dalla presenza di grandi estensioni agricole a basso costo combinate con la generosità degli incentivi. Dal 2004 un sistema di bonus ha premiato fortemente l’uso di colture energetiche per la produzione di biogas14. Il grande stimolo alla domanda, prevalentemente di mais, che ne è derivato si è mutualmente rinforzato con un altro, fortissimo, originato dai sussidi per il settore agricolo garantito dalla Politica Agricola Comune (PAC)15. In sostanza, piantare monoculture energetiche su grandi appezzamenti e trasformarle in biogas divenne incredibilmente profittevole, poiché remunerato da due differenti linee di incentivi, uno per le rinnovabili e l’altro per l’agricoltura. Bastò a suscitare gli appetiti di una pluralità di fazioni del capitale, da quelle tradizionalmente agrarie ad altre con origini disparate, tra cui grandi società di costruzioni, multinazionali produttrici di mobili e fondi d’investimento16. Grandi conglomerati agro-finanziari fecero il loro ingresso, approfittando degli alti rendimenti possibili. Un esempio ne è KTG Agrar che, con 46 mila ettari di cui 38 mila in Germania orientale, è stata la più grande agro-corporation d’Europa fino al 2016, quando andò in bancarotta lasciando debiti per 600 milioni di euro. Gli appetiti del gruppo per il biogas crebbero talmente tanto che il ramo venne affidato a KTG bioenergie, una controllata quotata in borsa. KTG Agrar era un grande collettore di incentivi per le rinnovabili e sussidi PAC, che, tramite complesse ingegnerie contabili, usava per nascondere la fragilità dei bilanci e aumentare costantemente la propria esposizione debitoria. Un altro caso è AC biogas, per un periodo il più grande produttore di biogas in Europa, con una produzione per lo più integrata verticalmente, dai campi alla generazione elettrica. Anch’esso fallito nel 2014, in concomitanza con il taglio degli incentivi, impiegava capitali da fondi d’investimento statunitensi, come Alinda Capital Partners, e banche europee, tra cui Deutsche Bank.

Rimane ora da capire come le filiere estrattive siano penetrate nei territori e con quali effetti sulle relazioni socio-ecologiche. Ci vengono in aiuto i concetti di accaparramento (grabbing) e inglobamento (enclosure)17, con cui Marx racconta quanto l’atto fondativo del capitalismo si compia sempre come espropriazione, espulsione e alienazione18. In effetti, l’accaparramento e l’inglobamento caratterizzano anche i nostri due casi, a un primo sguardo almeno come semplice accaparramento e inglobamento di terra (land grabbing)19. È infatti da questa forma cruda, ossia assicurando il controllo sulla terra in quanto spazio e condizione di produzione, che accaparramento e inglobamento possono estendersi all’interezza delle relazioni socio-ecologiche viventi su specifiche porzioni di globo. Un processo perpetuo e necessario tanto quanto l’accumulazione stessa. Almeno finché vigerà l’ordine del capitale.

Nel caso tedesco, l’accaparramento di terra si è sviluppato secondo uno schema che ha combinato meccanismi ostili di mercato20 e azione giuridico-amministrativa, nel solco della variante ordoliberale tipica di quel paese. A una prima fase di privatizzazione immediatamente successiva alla riunificazione, quando, sotto la guida dello Stato, il patrimonio agricolo e forestale della DDR fu per la maggior parte spartito tra investitori privati, e per la restante trasferito a una società pubblica che ne avrebbe completato la privatizzazione, ne seguì una seconda. Dalla metà degli anni 2000 l’alto livello di incentivazione del settore agricolo, anche a causa delle politiche di supporto alle rinnovabili, i prezzi fondiari estremamente contenuti e i bassi tassi d’interesse hanno accresciuto l’attrattività della terra tedesco-orientale come opzione d’investimento. L’ondata di accaparramenti21 che ne è derivata ha progressivamente spinto in alto i prezzi, rendendo sempre più difficile la permanenza nel settore per piccoli agricoltori, peraltro esacerbando la già alta concentrazione della proprietà fondiaria22.

Nel caso italiano, l’accaparramento di terra è avvenuto dapprima attraverso meccanismi ostili di mercato e poi, primariamente e più classicamente, come processo forzoso organizzato da un dispositivo giuridico: il d.lgs 387/2003 introdotto dall’allora governo Berlusconi. Il decreto stabilisce che “le opere per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili […] sono di pubblica utilità ed indifferibili ed urgenti”. Con tale norma, si introdusse la possibilità di espropriare ex lege gli appezzamenti individuati per la costruzione di impianti rinnovabili, in assenza di un efficace sistema di contrappesi. Da un lato, dunque, si tutelava l’investimento privato riconoscendogli il diritto all’accaparramento di terra, dall’altro si indebolivano le già flebili capacità di resistenza o negoziazione dei piccoli proprietari, nonché la possibilità per le comunità territoriali di incidere sulla programmazione socio-ecologica del proprio futuro.

Tuttavia, l’accaparramento e l’inglobamento di terra non sono che la manifestazione superficiale di una dialettica di mercificazione molto più profonda, dove l’accaparrare e l’inglobare rispondono a-come dicevamo-ll’esigenza di metabolizzare in merce, ovvero riplasmare in oggetti del capitale, porzioni sempre più ampie dell’esistente. Ed è qui che l’accumulazione per espropriazione23 diviene accumulazione per incorporazione. Un processo che nell’assicurare controllo su spazi e risorse, fra cui primariamente la terra, non può che estendersi al groviglio vivente di relazioni socio-ecologiche che li significano. Un processo che ingloba il territorio, inteso come socio-natura geograficamente determinata, imponendo la riorganizzazione di quella dialettica di “fecondazione e domesticazione” tra l’insediamento umano e la natura più-che-umana secondo i dettami dell’accumulazione perpetua24.

Un’osservazione progressivamente più profonda dei due casi in questione ci permette di scoprire come le politiche di promozione delle fonti rinnovabili, dentro gli schemi del capitalismo, possano, disgraziatamente, contribuire a rafforzarne il dominio. A un primo, più immediato, livello di osservazione, si nota subito come il paesaggio sia profondamente modificato, dalle pale che affollano i crinali appenninici al giallo del mais che colora le lande tedesche orientali. Una trasformazione visiva impetuosa quanto il boom sospinto dall’incentivazione irrazionalmente concentrata su scale produttive estese. Così tanto da aver inspirato epiteti quali “eolico selvaggio” o neologismi come “maisificazione” (Vermaisung) del paesaggio, tutti e due coniati dai movimenti che delle filiere contestano soprattutto il carattere estrattivo. Andando più a fondo, vediamo come il radicamento delle due filiere estrattive, attraverso processi centralizzati e poco partecipati, possa determinare l’instaurazione di dipendenze socioeconomiche, dagli esiti peraltro prevedibili. Una volta che la fase di picco passa e la bolla esplode, le fazioni del capitale più forti e mobili disinvestono rapidamente e scappano, mitigando i contraccolpi o tramutandoli addirittura in ulteriori profitti. Di contro, a subire i danni peggiori di tali svalutazioni territorializzate rimangono le fazioni del capitale meno mobili, come i piccoli i produttori di colture energetiche o i piccoli fornitori di servizi. Ancora più duramente sono colpiti altri attori strutturalmente più deboli, come i lavoratori, le cui vite dipendono da produzioni localizzate, o come gli enti locali e le istituzioni di prossimità, che percepiscono una seppur minima frazione del valore estratto, tramite la tassazione. Ciò appare particolarmente chiaro dal caso tedesco, dove si è passati dall’incitare gli agricoltori a trasformarsi in “coltivatori di energia”25, alla catena di bancarotte e licenziamenti innescata dalla de-incentivazione. Andando ancora più a fondo, colpisce come siano le stesse caratteristiche biofisiche dei territori a uscire accomodate ai desiderata dell’accumulazione perpetua. Se gli sbancamenti necessari all’installazione dei parchi eolici alterano stabilmente gli habitat autoctoni, le monoculture intensive di mais impoveriscono stabilmente i suoli. O peggio, li contaminano, con il largo uso di composti chimici che richiedono, aggravando direttamente e indirettamente la crisi climatica.

Così, i territori diventano giacimenti di energia rinnovabile, ma insostenibile. Attorno alla sua estrazione vengono completamente riorganizzati e risignificati, come oggetti del capitale.

Veniamo ora alla proposta teorica. La portata dei processi metabolici del capitale è talmente profonda da suggerire l’estensione del concetto di accaparramento e inglobamento dalla terra al territorio. Bisognerebbe parlare di accaparramento e inglobamento di territorio o territorio grabbing and enclosure26 per rendere conto della pervasività trasformativa del capitalismo. Se i territori sono socio-nature geograficamente determinate, la loro ri-significazione in giacimenti di valore, ovvero di cibo, minerali, energia, servizi per il turismo o derivati finanziari, sottende la loro mercificazione e incorporazione all’interno di filiere estrattive e ne rimodella le caratteristiche bio-fisiche. Le dialettiche storiche implicate non possono che dispiegarsi secondo rapporti di forza, esercitati tramite la coercizione fisica, la forza legale o relazioni di mercato ostili, e legittimati da retoriche egemoniche che sfruttano l’efficienza, ovvero la necessità determinata da emergenze di ordine economico, amministrativo, sanitario e ambientale. Le razionalità sottese tecnicizzano la partecipazione politica, accentrandone i processi e relegandoli alla sfera giudiziaria, minando la capacità delle comunità territoriali di autodeterminarsi.

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Quali considerazioni politiche si possono trarre? Innanzitutto, che la trasformazione del regime energetico nella direzione della giustizia climatica e sociale è tanto necessaria quanto inscindibile dalla sovversione del sistema di accumulazione perpetua di capitale. Un nesso chiaro a molti tra i gruppi e collettivi che si battono per una democratizzazione della produzione rinnovabile. Quando dicono “noi non ci opponiamo alle energie rinnovabili, vogliamo piuttosto che vengano liberate dalla speculazione, ovvero dalla morsa delle filiere estrattive” avanzano un punto programmatico importante per il percorso di costruzione proprio della giustizia climatica e sociale. Sostengono cioè che bisogna sottrarre la produzione di energia da fonti rinnovabili alle grinfie del capitale. Riappropriarsene. Come? Decentralizzandone la produzione e distribuzione quale bene comune, tramite meccanismi territoriali di democrazia sostanziale. E ancora, finanziando gli investimenti necessari attraverso il prelievo fiscale su grandi profitti e patrimoni. Quindi, proclamando la proprietà collettiva dell’energia e plasmando un pezzo dell’ecologia del vivente a discapito di quella del capitale.

 

Note

1 Harvey, D. 2018. The limits to capital. Verso.

2 Smith, N. 1984. Uneven development: Nature, capital, and the production of space. University of Georgia Press.

3 Le tesi anticipate in questo articolo sono discusse in maggiore profondità in Lipari S. forthcoming 2020. Industrial-scale wind energy in Italian southern Apennine: territorio grabbing, value extraction and democracy. Scienze del Territorio.

4 Barbagallo, F. 2017. La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi. Laterza.

5 Giacchè, V. 2013. ANSCHLUSS. L’annessione: L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa. Imprimatur Editore.

6 Wallerstein, I.M. 2004. World-systems analysis: an introduction. Duke University Press.

7 Le tecnologie produttive più rilevanti sono le turbine per la produzione eolica e i digestori-generatori per il biogas.

8 Harvey, D. 2018. The limits to capital. Verso.

9 La grid parity è il momento in cui il costo livellato dell’energia prodotta da fonti rinnovabili raggiunge un livello equivalente a quello delle fonti fossili.

10 Harvey, D. 2018. The limits to capital. Verso.

11 Giannini, M., Minervini, D. and Scotti, I. 2012. The Wind-Farm Developer: A New Green Expert Connecting Métier and Profession. Energy Issues and Social Sciences, Theories and Applications., pp.151–162.

12 Armiero, M., Gravagno, F., Pappalardo, G. and Ferrara, A.D. 2019. The Nature of Mafia: An Environmental History of the Simeto River Basin, Sicily. Environment and History.

13 Palazzolo, S. and Reale, C. 2019. Arrestato Paolo Arata consulente di Salvini per l’energia. In cella anche Nicastri, il ‘re’ dell’eolico. La Repubblica Palermo.

14 Il biogas può essere prodotto anche da altri substrati, come i residui di lavorazione agricola, il letame o i rifiuti organici.

15 La Politica Agricola Comune è la voce più importante del bilancio UE nonché una delle sue politiche più importante. Finanzia direttamente e indirettamente il settore agricolo e lo sviluppo rurale. È al centro di durissime contestazioni per la poca trasparenza e la tendenza a favorire la concentrazione fondiaria e l’accaparramento, tramite i suoi meccanismi di finanziamento.

16 Tietz, A. 2017. Überregional aktive Kapitaleigentümer in ostdeutschen Agrarunternehmen: Entwicklungen bis 2017. Thünen Institute.

17 Alla traduzione recinzione comunemente usata in letteratura, si preferisce qui inglobamento. Il significato di questa parola appare più adatto a indicare il processo di incorporazione, annessione, sotteso dal verbo inglese en-close, letteralmente chiudere dentro. D’altro canto, recinzione sembra troppo connotato al perimetrare, l’apporre un recinto, perdendo la capacità di segnalare la pervasività trasformativa dell’enclosure come atto dell’incorporare, ovvero della trasformazione metabolica in oggetto del capitale.

18 Marx, K. 1976. Capital: a critique of political economy, Vol. 1 (B. Fowkes & D. Fernback, eds.). Harmondsworth London: Harmondsworth: Penguin.

19 Questa formula è preferita per quei casi di accaparramento legittimate da retoriche basate su imperativi di mitigazione del degrado ambientale o della crisi climatica

20 Hickey, S. and Du Toit, A. 2013. Adverse incorporation, social exclusion, and chronic poverty In: Chronic Poverty. Springer, pp. 134–159. I due autori offrono una analisi del concetto di incorporazione avversa (adverse incoporation) all’interno delle strategie di accumulazione del capitale. Mettono in risalto come la partecipazione alle filiere estrattive, anche formalmente in qualità di investitori e non di lavoro sal