Mi è stato proposto di recensire il libro ‘Pluriverso, Dizionario del Post Sviluppo’ nella settimana in cui stavo andando o tornando, non ricordo più bene, dalle giornate di Genova 2021. Un anno, il post pandemico, in cui spesso mi sono ritrovata a cercare di mettere insieme il mio percorso di militanza e attivismo con quell accademico, nonché i miei movimenti per il sud del mondo, e il mio rientro ‘forzato COVID’ al nord del mondo, e in Italia, il posto in cui sono nata e da cui mancavo da 18 anni. Mi è sembrata una bella occasione per dare spazio a tutte queste riflessioni, senza la presunzione di essere certezze. Neppure mie.

Giugno 2021-Ottobre 2022

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Il libro Pluriverse: A Post-Development Dictionarydisponibile per download – curato da Ashish Kothari, ambientalista indiano, Ariel Salleh, attivista e sociologa australiana, Arturo Escobar, antropologo colombiano, Federico De Maria, ricercatore italiano e Alberto Acosta, economista e attivista ecuadoriano ed ex presidente dell’Assemblea Costituente dell’Ecuador, è stato pubblicato originariamente nell’Ottobre del 2019. La sua traduzione italiana, Pluriverso, Dizionario del Post Sviluppo (a cura di Maura Benegiamo, Alice Dal Gobbo, Emanuele Leonardi e Salvo Torre) è uscita a giugno del 2021, pubblicata da Orthotes Edizioni, come risultato di quello che gli stessi traduttori e curatori definiscono “un’opera di traduzione collettiva e militante”.

Il libro si divide in tre parti. La prima Lo sviluppo e le sue crisi – esperienze globali, presenta una serie di riflessioni critiche sul concetto di ‘sviluppo’ provenienti da Nigeria, India, Spagna, Stati Uniti, Australia, America Latina. Tratta della bivalenza tra sottosviluppo e sviluppo definita da rapporti di potere, un ciclo di sviluppo lineare e cumulativo, il debito coloniale, il mai interrotto saccheggio neo-coloniale; il convergere nel modello di sviluppo capitalista di due forme di violenza: quella patriarcale e quella legata alla finanza, all’accumulo che depauperizza, senza produrre nulla. Excursus storici sul ‘progetto di sviluppo’ che intreccia il post guerra (del west) con il post coloniale (del rest). L’invenzione dell’America e la negazione di ‘come l’Europa ha sottosviluppato l’Africa’ (Rodney, 1972). Il mito della crescita illimitata e la conseguente illimitata esplorazione sistemica dell’ambiente naturale e umano circostante. Il rinforzo da una parte della precarietà, e dall’altra della autoconservazione individualista di classe da parte delle elites globali. Un fenomeno attraverso cui il sistema finanziario mostra sempre più diluire superate posizioni binarie: nord/sud male/bene ricco/povero. Come ci ricordano la coppia Comaroff: “C’è molto sud al nord, e molto nord al sud, e molto di entrambi verrà in futuro” (2012:21).

Numerose le esperienze latino americane della fase del post-sviluppo – che ha caratterizzato gli anni ’80 e ’90 nel continente. Dagli zapatisti in Messico ai movimenti dei popoli indigeni in Bolivia nel 1990 per arrivare a Cochabamba 2000 e al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre 2001, solo per nominarne alcuni, e poi la fase post estrattivista di diversi governi progressisti di sinistra in America Latina che spesso vede l’occidente incapace di formulare un pensiero critico a riguardo, in parte accecato dalla nostalgica idea della ‘rivoluzione latina’ (Hobsbawm, 2014), e in parte imbevuti nell’idea populista che i surplus siano usati dallo stato per usare programmi di welfare sociale.

Di questa prima parte mi soffermerei sulle parole dei capi villaggio del Pacifico riportate da Huffman: “Gli stranieri ci dicevano che avevamo bisogno di ‘Cambiamento’; poi avevamo bisogno di ‘Progresso’. E ora ci dicono che abbiamo bisogno di ‘Sviluppo’. Di solito significa che stanno cercando quello che noi non abbiamo” (p.76). Immediatamente il mio pensiero va alla frase di Ailton Krenak intellettuale indigeno brasiliano: “La nostra epoca è specializzata nel creare assenze: del senso di vivere in società, dello stesso senso dell’esperienza della vita. Ciò suscita un’enorme intolleranza verso chi è ancora in grado di sperimentare il piacere dell’essere vivo, di danzare, di cantare”(2020). Ricorda Kumar – nella terza parte del libro – “In una società consumistica la maggior parte della gente non ha tempo per la poesia, l’arte o la musica. Non c’è tempo per la famiglia o gli amici. Non c’è tempo per passeggiare in solitudine e apprezzare la natura, né per fare festa”(p.324).

 

Come la prima, anche la seconda parte non segue né l’ordine alfabetico proprio dei dizionari, né alcun ordine tematico. Sembra rispecchiare la storica incapacità della sinistra di creare dialoghi che sommino, piuttosto che separare. Curioso sarebbe sapere quali siano stati i criteri che hanno guidato gli organizzatori (originali) del libro. Universalizzare la Terra, Soluzioni Riformiste, titolo di questa sezione, presenta una serie di alternative che non confrontano i termini in cui il discorso universalizzante occidentale si sviluppa. Non è sorprendente visto che quello che sembra accomunare queste proposte è che abbiano origine nell’emisfero nord, per lo più da una categoria di tecnocrati, high tech activists e vengano implementate in collaborazione con governi nazionali (principalmente ma non solo del nord), agenzie internazionali e istituzioni universitarie, e i loro Think Tank.

Vengono presentate una serie di proposte ‘smart’ dalla Agricoltura Intelligente per il Clima in grado di mitigare i cambiamenti climatici, alla Smart City che promettono un utilizzo efficiente e ottimale delle risorse, la diminuzione dell’inquinamento urbano attraverso l’utilizzo pervasivo di ICT – Information and Communications Technologies, e la Geoingegneria che propone una serie di interventi di larga scala sugli ecosistemi e la loro alterazione quali soluzioni tecnologiche al cambiamento climatico. Non si capisce come il Design Eco Positivo non venga messo in relazione. Idem. Avrei incorporato a questa sezione anche l’Ecomodernismo in quanto accumunati – a mio parere – da una fiducia cieca nella tecnologia.  Un futurismo alla Marinetti che sembra a volte rivivere nel positivismo dell’attuale digital turn in cui, oltre a bypassar la geografia, spesso la figura umana viene posta in secondo piano rispetto alle tecnologie che la muovono. Coerente quindi la fase post-humana delle voci Ingegneria Riproduttiva, Transumanesimo e Lifeboat-Ethics. A tutto ciò la voce Strumenti Digitali mi sembra una adeguata risposta evidenziando le violazioni perpetrate da queste soluzioni smart/high tech a cui, infelicemente, gli stessi movimenti per la giustizia sociale sembrano dare peso. A questo blocco si potrebbe legare quello dei nuovi modelli di gestione economico sociali come quello della Economia Circolare che attraverso la riduzione di impiego di materie prime, l’incremento di pratiche di riutilizzo e il grado di riciclabilità dei prodotti, questiona l’obsolescenza programmata e promuove un incremento all’efficienza.

Un terzo blocco all’interno di questa parte è quello dei nuovi modelli politici proposti, che nuovamente si limitano a cambiare i contenuti mantenendo intatte le modalitá. Non si interroga il potere, semplicemente chi lo può esercitare. I BRICS ne sono un esempio mostrando la struttura degli interventi della fase post estrattivista del ‘sud globale’. In questo caso utilizzo in modo appropriato una nomenclatura che per scelta non utilizzo mai – Il Sud Globale – in quanto creazione funzionale al discorso politico, economico ed accademico. La voce Neo Estrattivismo diviene quindi esplicativa della base della proposta economico politica di questi accordi internazionali così come quella sul Mercato dei Servizi Ecosistemici che spesso vede il Sud come il ‘beneficiario’ delle sue iniziative di ambientalisti di mercato (p.113). A tale blocco si potrebbe far seguire quello delle pratiche governamentali applicate da agenzie internazionali e governi locali, oltre che da ONGs, di cui l’Aiuto allo Sviluppo sono l’esempio più conosciuto attraverso la riproduzione di concetti civilizzatori dello sviluppo proprie del periodo colonialista. Di forma simile la Proposta per un Governo del Sistema Terra – da parte di un élite di specialisti parte di network scientifici e burocrati inter-governativi nominati sotto acronimi propri delle agenzie internazionali, i cui slogan, come i loro impegni, diventano sempre più imbarazzanti. È rivoltante pensare che le Nazioni Unite abbiano il complice beneplacito di tutti noi nel continuare ad emanare false dichiarazioni di intenti. Pensare di estirpare la povertà dal mondo entro il 2015 (MDG) era tanto ridicolo quanto i nuovi impegni assunto dal SDG2030. Eppure ci adattiamo tutti a scrivere progetti che soddisfino i 1.2.3 Goals per accedere a fondi europei. Analogamente il nome del nuovo programma dei movimenti popolari per l’ecologia e per la giustizia sociale, ‘Another Future is Possible!’ (p.106), suona quasi cinico a 20 anni da ‘Um outro mundo é possivel!’ lanciato durante il FSM di Porto Alegre. Abbiamo visto tutti dove è andato il mondo possibile. Sembra volersi mantenere vivo un morto, invece che valorizzare i suoi insegnamenti e criticare le sue concessione per creare qualcosa di nuovo che si adatti a una realtà in movimento, e che sia capace di delegare ad altri la continuità della lotta. E’ questo il sentimento che ho provato a Genova a Luglio del 2021. Un misto tra appropriazione di idee ancestrali altrui (sud) e incapacitá di cedere la rotta (ai giovani).

Un ultimo blocco sarebbe invece dedicato ai concetti ambigui su cui si fondano le contraddizioni e si rivelano le reali intenzioni speculative di molte di queste iniziative di greenwashing. Primo tra tutti il concetto di Efficienza. Un concetto che metterei in coppia con la tanto acclamata Decelerazione – che però sta nella terza parte. L’efficienza richiede la definizione di un riferimento normativo per il fenomeno in questione, l’osservazione dello stato attuale del mondo, il calcolo dello scarto tra il riferimento e lo stato effettivo del fenomeno osservato. È quello che Simone descrive nel suo libro For the City Yet to Come (2004). All’efficienza si lega la nozione progressiva, lineare, cronologica di sviluppo/modernizzazione, a cui si oppone l’idea di ritardo e sottosviluppo. L’efficienza non è che uno degli indici di misurazione del progresso. Come dice Malghan: ‘un mondo del post-sviluppo può essere creato – o anche immaginato – solo se lasciamo da parte la ricerca dell’efficienza (p.120). Altro termine deviante è quello di Sviluppo Sostenibile capace di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le generazioni future, anche associato al termine eco-sviluppo e del green-growth (crescita verde) e Green Economy. Di nuovo, mi torna alla mente Krenak che in un intervista definisce il mito della sostenibilità, come “una narrazione creata dalle multinazionali per continuare a conquistare i consumatori con l’idea che ciò che stai consumando è prodotto in modo sostenibile, ma è una bugia”. Continua:  “Il volo di un uccello nel cielo, un istante dopo che è passato, non lascia traccia. Noi invece lasciamo troppe tracce e qualsiasi cultura che lasci tracce è insostenibile”. Come le pratiche governative applicate da agenzie internazionali e governi locali anche i sostenitori di questi concetti fanno riferimento a mete impossibili e alla fiducia nell’innovazione tecnologica. Dando un valore economico alla natura, la Green economy dimostra il suo inganno nella distribuzione del suo ordine di priorità che infatti continua ad essere la crescita. Come nel caso degli Strumenti Digitali la Green Economy non contrasta l’attività mineraria ad alta intensità di capitale (p.126) ma anzi se ne fa sua complice.

Di questa seconda parte chiamerei all’attenzione l’osservazione fatta da Jeremy Gould: ‘L’idea di sviluppo come progresso umano naturale è inevitabilmente seducente. La narrazione della ascesa umana dall’austerità verso l’abbondanza, dell’estenuante fatica manuale verso un’epoca di comodità e creatività rese possibili grazie all’innovazione tecnologica costituiscono il nucleo della modernità’ (p.100).

Ne siamo veramente ancora convinti? Alcuni nel sud del mondo già si stanno accorgendo della chimera, così come buona parte di noi precari al nord che di questa modernità sentiamo il peso asfissiante. Certo, questo significa cambiare radicalmente le forme di vivere dell’occidente che invece continuano ad essere esportate e ricevute. Come dice Erik Goméz Baggethun: “È tempo che la politica di sostenibilità globale si lasci alle spalle la subordinazione ai precetti di ideologia economica dominante, incluso il sogno tecnologico di dematerializzazione e la possibilità di una economia espansiva basata sulla necessità assiomatica della crescita” (P.147). A mio vedere è anche l’occidentale massimizzazione di tutto, non solo del profitto, che finisce per re-significare anche il godimento, il piacere, il contenuto della ‘abbondanza’ verso l’austerità, come dice Gould.

 

La terza parte è la sola a seguire un ordine alfabetico anche se il libro non è un dizionario. Non si limita a dare significato a parole. Per quanto i testi siano necessariamente volti a dare una introduzione all’argomento e istigare il lettore a saperne di più, non si esimono comunque dal dare delle valutazioni. A volte, a mio parere, troppo sempliciste. Per queste ragioni forse una organizzazione per ambito tematico avrebbe aiutato l’organizzazione del discorso che molto spesso finisce per ripetersi, o non porsi in collegamento. Presenta una serie di iniziative/proposte descritte dagli autori come ‘una serie di cambiamenti strutturali profondi che rappresentano ‘una netta demarcazione rispetto alle soluzioni riformiste (quelle della seconda parte) che presuppongono un Mondo Unico Globalizzato, pre-codificato secondo valori occidentali e mosso dalla futile logica della crescita’ (p.16).

Sarebbe impossibile fornire una lettura di ogni singola voce (84) o tentare di stabilire un dialogo tra loro ma una immediata osservazione indica che la maggior parte dei contributi sono scritti da uomini bianchi, di età media alta, principalmente accademici, alcuni del sud (ricerca delle BIO e foto in internet). Gli stessi organizzatori sono tutti uomini tranne Ariel Salleh. Fatico a rimanere indifferente a tale dato ed immediatamente penso al testo fondamentale di Lorde (1984). Per quanto non sia possibile ridurre la pratica decoloniale a razza e genere, questi due elementi sono centrali. Chiunque si dichiari parte di un processo di trasformazione delle relazioni di potere che stanno alla base della produzione e circolazione non solo di nuovi modelli, ma anche del sapere non può – a mio avviso – essere credibile se non sfida questi cardini strutturali.

Pochi sono gli autori la cui formazione di pensiero non attinga da una tradizione epistemologica occidentale. Eppure – prendendo come esempio le due prima voci, Agaciro (p.155) e Agdals (p.159) – è evidente il diverso approccio a concetti ‘alternativi’. Se la prima voce sottolinea l’aspetto sensibile, la seconda trasforma un aspetto culturale in una fredda tecnica agraria. Il concetto chiave del Buen Vivir (p.194) così come inteso dai popoli nativi andini (ma non solo) sembra distante come è ricevuto in Occidente. Se esistono dei desideri comuni come la necessità di riappropriarsi del proprio tempo, la revisione della relazione uomo/natura, il riavvicinamento della sfera spirituale con quella razionale, la cura degli altri, e la valorizzazione del piacere, ad esempio, le forme per soddisfare questi desideri non sembrano convergere. Forse, la loro stessa comprensione. Ne sono un esempio lo scontro delle posizioni femministe occidentali e non (p. 340); la cura come un dovere calcolabile non una decentralizzazione, pratica e anche emozionale, propria delle comunità tribali; la radicalità di alcune posizioni, si pensi al veganismo, rarissimi sono i popoli indigeni radicalmente vegetariani, il concetto di vegano gli è semplicemente estraneo. La relazione uomo/natura si basa sul rispetto e la conoscenza non il divieto; l’approccio alle medicine tradizionali indigene, troppo spesso ridotto ad una esperienza psichedelica è molto distante da una pratica ancestrale di cura attraverso medicine tradizionali. I desideri sono, appunto, sottoposti a logiche di abbondanza, invece che di rispetto e preservazione.

Non essendo riuscita a sistematizzare i temi della terza sezione del libro “Un pluriverso popolare-Iniziazione per la trasformazione”, riporto osservazioni sparse.

Si accenna al movimento della lotta contro i diritti di proprietà intellettuale nell’ambito del WTO che ha visto India e Brasile negli anni 90 opporsi alle case farmaceutiche e nel 2001 garantire libero accesso ad un farmaco generico contro l’AIDS (p. 87). La versione originale del libro è uscita nel 2019, quindi prima che la geopolitica del vaccino evidenziasse come la pandemia sia stata in realtà un immenso business per le case farmaceutiche, sotto il beneplacito della comunità europea.

Sebbene si accenni al tema del Free Software (p.289) sarebbe importante riprendere questi temi, così come quelli inerenti al digital divide in cui il Brasile era una avanguardia, temi che sono stati pressoché abbandonati a causa di uno stato di inebriamento dovuto alla ingordigia di social media e nuove tecnologie da cui, anche i più critici, sembrano essere rimasti intontiti. È importante riportare questi temi alla centralità del discorso, ancora di più alla luce delle realtà in cui viviamo.

Così come è importante problematizzare la distribuzione diseguale dell’accesso alle risorse, ai prodotti, ai servizi (p. 91 nell’ambito della EC), dell’Open Source per accesso libero alle tecnologie che offrono soluzioni condivise alle questioni ambientali, non meno importante sarebbe stato parlare della sfida alla produzione e circolazione della conoscenza all’interno delle istituzioni educative, università, scuole primarie e secondarie, ma anche il settore della industria culturale responsabile spesso della gestione e controllo della proprietà privata della conoscenza. Mentre si accenna al fatto di parlare di Green Capitalism piuttosto che di Green Economy (p.127) manca nel libro una voce che metta in relazione il Cognitive Capitalism (piuttosto che Creative Economy/Cultural Industry) con il discorso della decolonizzazione del sapere, un argomento a mio vedere affrontato troppo trasversalmente nel libro. Soprattutto alla luce della nuova formazione capitalista post-fordista, il suo regime di accumulazione finanziario, e le sue differenti diramazioni settoriali il cui limite, peraltro, mi sembra diluisca sempre più (tra la creatività, la conoscenza, l’ecologia e l’alimentazione, ad esempio).

Mi interessa sottolineare di questa parte le parole di Caffentzies: “La produzione dei mezzi digitali è un disastro ecologico […] E’ impossibile affermare in modo non problematico che Internet rappresenti un nuovo tipo di Commons” (p103). Se alcuni sono digital nomads, la maggior parte dei lavoratori continua sottomesso a nuove e più sofisticate gerarchie, diseguaglianze, emarginazioni. La pandemia ha reso ancora più evidente come il digital turn interessa solo una porzione limitata dei lavoratori. Se è vero che il libro è stato pubblicato prima della pandemia dubito che agli organizzatori fossero sfuggite le e diseguaglianza di accesso a internet, nonché comunicazione e mobilità, presenti nelle diverse aree del mondo. E’ difficile non considerare queste differenze come dei criteri guida, quando si presentano queste ‘alternative allo sviluppo’. Penso banalmente non solo all’accesso a internet, ma ai razionamenti energetici (load shedding) con cui si convive in Sudafrica, uno dei paesi con le più avanzate infrastrutture del continente Africano.  Il rischio può essere quello di assumere una visione missionaria della vita che spesso sposa il mito della comunità rurale, antitesi della modernità, congelando le esperienze indigene nel passato; oppure di utilizzare di un tono tra il newage e hippy, di cui, peraltro, gli autori sono consapevoli. Sono vizi che a mio avviso possono indebolire le proposte perché presentate come un privilegio accademico e elitista, di chi può permettersi tali radicalità. Tali visioni in parte romantiche, quando rivolte alle forme di vita indigene, le congelano gravemente nel passato facendo si che gli venga negata la contemporaneità e autonoma partecipazione. Possono apparire paternaliste e volutamente ingenue. E’ importante ricordare che la dissociazione della crescita dall’inquinamento e dall’uso delle risorse naturali (dematerializzazione della economia) è possibile solo in quei paesi sviluppati che hanno appaltato le loro industrie a paesi in via di sviluppo (p.147) senza peraltro preoccuparsi di alcun tipo di tutela all’uso delle risorse umane e naturali dei paesi stessi.

 

Il Coronavirus potrebbe salvare il pianeta?” un testo firmato dagli organizzatori del libro nel marzo del 2020, in piena pandemia, richiama alla ‘possibilità di porre rimedio a ingiustizie storiche’. Dopo due anni la geopolitica del vaccino rende questa frase vuota, come gli slogan che non saremmo tornati alla normalità “perché la normalità era il problema”. Quello che è successo, e sta ancora succedendo, mette in evidenza l’incapacità di sfuggire a quella normalità. (Quando scrivevo – luglio2021) non era ancora iniziata la guerra in Ucraina, anche se già allora ce la si poteva aspettare).

All’inizio dell’emergenza sanitaria in Italia abbiamo assistito ad un grottesco dibattito su un articolo scritto da Giorgio Agamben (30 luglio 2020). Il contrasto era stridente. Nel mondo reale i “lavoratori essenziali” erano impegnati a consegnare sushi e hamburger di fassona a kilometro zero, mentre il numero dei morti cresceva drammaticamente. Nel mondo del web, un gruppo di intellettuali stava discutendo quanto Agamben fosse stato, o meno, frivolo nei suoi commenti. Il problema non era Agamben, ma l’intero gruppo di intellettuali. Come il virus, questo dibattito si è spaventosamente diffuso in tutto il mondo, e in poche settimane amici ne discutevano in Brasile, ed in una chat i cui partecipanti sono sparsi tra Stati Uniti e alcuni paesi africani ed europei. Il mio primo pensiero è andato al Mouvement des Gilets jaunes, alla divisione in classi, e alla nostra distanza dalla realtà. Il secondo alla tanto citata decelerazione (nel libro non esiste una voce – solo Decrescita (p.239). Milano e Bergamo, città le cui immagini di camion che trasportano bare hanno fatto il giro del mondo, hanno mantenuto i loro slogan fino all’ultimo: “Milano (e Bergamo) non si ferma”. Allo stesso modo, “Gli intellettuali non si fermano”. Perché la crisi del coronavirus sia capace di segnare ‘la fine di un universo di false promesse’ bisognerebbe affrontare queste contraddizioni interne al nostro stesso sistema.

Il testo inoltre, afferma che ‘la crisi del coronavirus è il segno del declino della nostra civiltà. Ma mostra anche ‘un pluriverso’ di nuovi mondi che nascono” (p.14). Eppure questi plurimondi son sempre stati lì. È complicato pensare che perché noi li abbiamo negati, diminuiti o repressi li si presenti ora come se stessero nascendo ora. Così facendo gli si nega la loro storia, il loro percorso. Si rischia di ripete una visione colonialista che arriva ad inventarsi un’America giovane (e acerba) e un’Europa vecchia (e saggia). La filosofia africana da molto parla di pluriverso invece che di universo. Dopo che le scienze evidenziano che l’universo non ha un centro, si rende necessario lo spostamento del paradigma dall’universale al pluriversale (Ramose, 2010).

Nel testo finale del libro – La Tessitura Globale delle Alternative – si riproduce lo stesso vizio di forma. Si apre, addirittura in corsivo, con la frase ‘il mondo sta vivendo una crisi senza precedenti’ (p.474). Ma forse siamo noi occidentali a viverla come ‘senza precedenti’. “Il Futuro è cancellato” allarmava il collettivo francese Comitato Invisibile nel 2017, ma l’allarme sulla fine del futuro ci accompagna da tempo. Dagli anni delle paure generate dalla corsa nucleare durante la Guerra Fredda, alle più recenti teorie apocalittiche dell’Antropocene di inizio secolo. Davi Kopenawa (2010) si riferisce alla caduta del cielo come alla fine del mondo. Che peraltro i popoli indigeni non hanno mai visto come eterno, ma soggetto a cicliche distruzioni. Quando le galline parleranno come gli uomini allora sarà giunto il momento (Dnowski e De Castro, 2017). Una chiara inversione dell’idea moderna di involuzione. Non diversamente ci ricorda Ailton Krenak in un’intervista: “Siamo indios, abbiamo resistito per 500 anni. Sono preoccupato se i bianchi resisteranno”(2018). Citiamo anche la tratta degli schiavi atlantica e ci renderemo facilmente conto che ‘la crisi senza precedenti’, in realtà di precedenti ne ha avuti molti, dipende da che lato la si voglia guardare.  Quando gli organizzatori del libro – come anche citato dai curatori della edizione italiana – ricorrono alla citazione di Gramsci ‘il vecchio sta morendo e il nuovo non può nascere’, io credo invece che ci sia una sorta di accanimento terapeutico da parte della intellighenzia accademica e attivista globale. Manca, a mio avviso, una coraggiosa capacità di aprirsi al nuovo, al dubbio, da cui l’universalismo occidentale con le sue certezze ci preserva. Sono necessarie delle analisi che includano una fine e quindi permettano una ripartenza invece che ridurre le lotte ad una conseguenza del conflitto fondamentale che oppone il bene al male (Cocco, 2021) limitandosi a creare delle figure ‘malvage’ di cui peraltro abbiamo ormai accumulato anni di osservazione e conoscenza senza essere capaci di risposta.

 

Si dice nella prefazione italiana ‘l’elemento di maggiore novità è dato dal fatto che la maggior parte delle parole che potremmo introdurre nel nostro vocabolario del mutamento si formano e nutrono in quello che il dibattito post-coloniale ha definito come il margine’ (p. 9). Alla luce dell’impasse dei modelli di vita ed epistemologici in cui stiamo vivendo credo che questo margine – come descritto da autori come Gloria Andalzua o Walter Mignolo – debba essere portato al centro. Fino a quando non saremo in grado di spostare non solo queste divisioni di centro/periferia, ma anche il controllo della loro definizione, non sarà mai possibile far nascere il nuovo. Che in realtà, a mio avviso, è già nato e sta crescendo anche se non riconosciuto e non egemone. Resta da chiedersi se l’alternativa non risieda proprio nell’assenza di necessità di riconoscimento. Come afferma Lewis Gordon “la sfida è affermare non una Afro-modernità come specchio dell’Euro-modernità, ma una possibilità di appartenenza a ciò che frantuma mimetismo e imitazione come condizioni di possibilità”. Il raggiungimento di questo obiettivo, naturalmente porterà al ribaltamento di quello che continuiamo ad intendere di forma binaria, nord/sud centro/periferia, noi/l’altro.

 

Ma vorrei tornare a Genova, al momento in cui mi è stato chiesto di recensire questo libro che in una delle sue ultime pagine fa un esplicito riferimento a ‘organizzazioni esistenti, come il World Social Forum’ (p.475). Tra gli interventi in Piazza Alimonda quello di Nicoletta Dosio dei No Tav della Val Susa ricorda come il movimento “Non è semplicemente un movimento contro un treno, ma contro un certo modello di sviluppo”. Lo dice chiarissimo: “Questo modello non si corregge, si abbatte”. Lo dicono anche gli striscioni: un altro mondo non è più è solo possibile, come lo si desiderava nel 2001, ma diventa necessario nel 2021. Ma cosa ha fatto si che quell’outro mundo possivél ritardasse tanto ad arrivare da diventare ora necessario alla sopravvivenza? Forse il fatto che in realtà non si sia mai realmente posta in discussione la sua unica forma.

Il palco di piazza Alimonda segue due giornate di interventi nazionali e internazionali organizzati dal Comitato ‘Genova 2021 – Voi la Malattia – Noi la Cura’ in Piazza Matteotti. Genova riporta a Porto Alegre 2001, al Forum Europeo di Firenze 2003. Sembra tutto fermo nel tempo. Perché non far parlare i movimenti studenteschi in Sudafrica, in Chile, in Etiopia? I tanti riders a Milano come a São Paulo? Gli Hi-Tech nigeriani che sfidano la violenza della polizia SARS? I dipendenti Amazon? I movimenti di lotta per la casa? Quelli per il reddito di base? Gli svariati movimenti mutualistici sorti durante la pandemia in ogni parte del mondo? I movimenti trans-femministi? I movimenti Indigeni in Amazonia? Per citarne solo alcuni. I processi di decolonizzazione non possono essere diretti dallo stato o dalle istituzioni del sapere, così come i processi di movimenti non possono essere diretti da consigli internazionali, da accademici o da high-tech attivisti. Sono progetti realizzati dalle persone sulla base del momento che stanno vivendo e del loro contesto locale esteso ad una rete globale, ma di cui nessuno deve centralizzarne l’organizzazione. L’obiettivo non è più quello di impadronirsi dello Stato – il che non significa non esigere giustizia da esso – ma è quello di impegnarsi in una ricostruzione epistemica e soggettiva, e questa ricostruzione avverrà solo attraverso il cambio di centralità dei soggetti.

Lasciare che nuove esistenze oltrepassino la resistenza. Forse bisognerebbe pensare meglio a come rinforzare queste nuove esistenze, invece che concentrare le forze solo in resistere contro un nemico che ormai conosciamo benissimo, o mantenere in vita strutture e apparati che hanno compiuto il loro percorso. C’è bisogno come dice Nicoletta Dosio di abbattere questo nostalgico modello di ripetizione. È importante sottolineare le voci capaci di questionare dei capisaldi del movimento alter mondista come ad esempio quella sulla Teologia della Liberazioni (p. 342) e abbandonare toni apocalittici e nichilisti, come quelli di alcune voci, penso Transumanesimo come Ingegneria Riproduttiva e il cancellamento delle donne, Lifeboat Etichs. Saranno di aiutano al cambiamento dei nostri modelli di vita? Stimoleranno una reazione?

Come ricorda Klein (2007) lo choc – o la sua riproduzione – più che fare reagire immobilizzano. Scrive Paulo Freire nel libro Pedagogia della Autonomia: ‘uno dei compiti principali della pedagogia critica radicale liberatrice è quello di contrastare la forza dell’ideologia fatalista dominante, che favorisce l’immobilità degli oppressi e il loro adattamento alla realtà ingiusta, necessaria per il movimento dei governanti’.

Concluderei rinnovando l’importanza dell’invito di Pellizzoni (p.488) di “concepire il pluriverso come un composto di mondi non solo separati ma anche auto-consistenti” in cui non ci sia più bisogno di ‘figure di intellettuali che agiscono come mediatori’. Nelle parole di Viveiros de Castro, è necessario accettare che «tutti gli esseri vedono il mondo allo stesso modo, ciò che cambia è il mondo che vedono» (2004:239).

La maggiore potenza nell’edizione italiana di Pluriverso, Dizionario del post-sviluppo, è – per me – la sua opera di traduzione collettiva. Una volontà politica condivisa di rendere il lavoro fruibile a tutti. Il mio augurio è che il futuro ci apra al nuovo, che gli si riconosca capacità propositiva così come una azione propria, nuove parole d’ordine – magari che le parole d’ordine neppure più siano necessarie! Che si inventino altri vocabolari, si sovvertano le definizioni in cui li vogliamo organizzare, e vengano altre modalità di lavorare, e stare insieme. È così che io penso che si dovrebbe scrivere un dizionario del post-sviluppo. Sapendo andare oltre un atto di terrificante resistenza in appoggio di una radicale sovversiva esistenza.

 

Contenuti

Prima sezione

6 Contributi: 2 donne – 4 uomini

1 uomo non bianco – 3 uomini bianchi, 2 di base al sud, 2 al nord

1 donna non bianca – 1 donna bianca, entrambe di base al sud

 

Seconda sezione

20 Contributi:  7 donne – 13 uomini

0 donne non bianche – 7 donne bianche, 6 di base al sud, 1 al nord

1 uomo non bianco – 12 uomini bianchi, 3 uomini di base al sud – 10 uomini di base al nord

 

Terza sezione

84 Contributi:  61 uomini -36 donne

33 uomini bianchi – 22 uomini non bianchi

16 donne non bianche – 14 bianche

22 uomini e 18 donne al sud

33 uomini e 14 donne al nord

 

I dati numerici sono imperfetti. La loro certezza avrebbe richiesto un tempo di verifica che non avevo. Si basano su ricerche fatto in internet sia di bio, cv, che immagini. Inoltre, in assenza di una autodichiarazione di razza e genere, i dati sono supposti. Rimane però evidente l’ampia sproporzione numerica tra uomini e donne.

 

 

Riferimenti bibliografici

Agambem, G., 2020, L’invenzione di un’epidemia, Quodlibet;

Cocco, G., 2021 Per un estrattivismo antropofago, Mundi;

Comaroff, J., Comaroff J.L., 2012. Theory from the South: Or, how Euro-America is Evolving Toward Africa, Reutledge Ed.;

Comité Invisible, 2017. NOW, Zine layout by Ill WIll edITIons;

Danowski D., e Viveiros de Castro, E., 2014. Há mundo por vir? Ensaio sobre os medos e os fins, Cultura e Barbárie Editora;

Hobsbawm, E.J., 2017. Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina, Ed. Rizzoli;

Klein, N., 2007. The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism, Knopf Canada

Krenak A., 2020, entrevista https://expresso.pt/internacional/2018-10-19-Somos-indios-resistimos-ha-500-anos.-Fico-preocupado-e-se-os-brancos-vao-resistir

__________, 2021 entrevista https://www.correio24horas.com.br/noticia/nid/vida-sustentavel-e-vaidade-pessoal-diz-ailton-krenak/

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