Un testo estremamente politico di Jack Halberstam che riflette sulla strage avvenuta il 12 giugno al Pulse di Orlando. Halberstam si domanda se siano da ritenersi corrette talune analisi, pubblicate sulla stampa americana dopo il terribile episodio, che vorrebbero le persone LGBT come le più a rischio di crimini d’odio. Non esiste, piuttosto, una linea di colore e di classe che, a ben guardare, rivela che “le persone uccise sono in maggioranza nere e transgender”? Tale linea finisce per separare le “comunità LGBT bianche” dalle “comunità queer di colore

[che] vengono identificate come ricettacoli di criminalità, di illegalità e di protesta”. “Sulla scia dei fatti di Orlando, forse è giunto il tempo di spezzare la fantasia di una comunità LGBT monolitica” […] I fatti di Orlando mostrano, o almeno a me, che lo stato securitario in cui viviamo, con i valori riconosciuti dal suo secondo emendamento, e le sue urlate e crude configurazioni di ciò che siamo “noi” e di ciò che sono “loro”, richiede di essere contrastato da una discussione complessa, intricata, e rischiosa circa chi “noi” siamo e chi “noi” vogliamo diventare”.

Jack (Judith) Halberstam insegna all’Università del Southern California (USC) e si occupa di queer culture, gender studies e cultural studies.  Articolo apparso il 22 giugno 2016 su “Bully Bloggers”. Traduzione di Federico Zappino.

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In reazione alla sparatoria contro uomini gay latinos e altre persone, avvenuta lo scorso 12 giugno al nightclub Pulse di Orlando, in Florida, “The Atlantic” ha pubblicato un articolo in cui si spiega che la violenza contro le persone LGBT, negli Stati Uniti, sia fin troppo comune, e molto più comune, inoltre, di quella rivolta ad altre minoranze. Lo stesso argomento è stato sostenuto quattro giorni dopo dal “New York Times”, con un articolo dal titolo LGBT People Are More Likely to Be Targets of Hate Crimes Than Any Other Minority Group. [“Le persone LGBT hanno più probabilità di essere vittime di crimini d’odio rispetto ad altre minoranze”, N.d.T.]. Entrambi gli articoli citano la stessa fonte, ossia la ricerca condotta dal Southern Poverty Law Center, ed entrambi citano il nome di un ricercatore, Mark Potok. Nell’articolo apparso su “The Atlantic”, viene anche riportata una citazione di Potok: “Le persone LGBT hanno più del doppio delle probabilità di essere vittime di crimini d’odio rispetto agli ebrei o ai neri”.

Si tratta di un’affermazione interessante che presume sia che le persone LGBT non possano anche essere ebree o nere, sia che gli assassini prendano la mira solo sulla base di un’unica tipologia di odio! Si tratta di un’affermazione, inoltre, che crea una gerarchia pretestuosa tra le forme di violenza, all’interno della quale le persone LGBT bianche sarebbero ritenute più vulnerabili di altre minoranze. Ma si tratta, soprattutto, di un genere di affermazione molto diffusa, che dà sostegno a un’espressione altrettanto diffusa della vulnerabilità LGBT, così come l’abbiamo vista, peraltro, sui social o sulle varie piattaforme – Facebook, Twitter – a seguito della strage. Il punto, tuttavia, è che questa strage ha caratteristiche molto più specifiche, e man mano che vengono alla luce nuove informazioni sulla relazione tormentata di Omar Mateen con la sua sessualità diventa sempre più importante sfidare questa retorica di un’omofobia amorfa, che scinde la violenza omofobica dalle particolari e convulse espressioni di odio razziale.

Entrambi gli articoli che ho citato, verso la fine, illustrano delle statistiche relative ai crimini d’odio contro le persone LGBT piuttosto contraddittorie. Nel “New York Times”, ad esempio, il grafico che illustra la distribuzione della violenza omo-lesbo-transfobica a seconda della razza e della classe racconta una storia un po’ diversa rispetto al titolo sensazionalista. Così come scrive l’autore dell’articolo, d’altronde, il grafico rivela che “le persone uccise sono in maggioranza nere e transgender”. E il grafico mostra inoltre che anche tra coloro che non sono mort*, in generale, le persone LGBT più suscettibili di subire crimini d’odio e altre forme di violenza siano quelle di colore.

L’uccisione di quarantanove persone all’interno di un locale gay, in una notte dedicata a uomini gay latinos, sconvolge ovviamente tutte le comunità LGBT e ci riporta alla mente tutti gli altri attentati violenti e carichi di odio accaduti nel corso degli ultimi anni. In altri locali queer, in altre notti, altri corpi sono morti per mano di quelle mascolinità tossiche che pensano che la violenza sia la giusta soluzione di fronte a quelle alterazioni dello status quo che potrebbero scardinare le gerarchie di genere e sessuali. Ma in questa notte, in questo club, nel mirino di una mascolinità steroidea, militarista, narcisista, profondamente conflittuale, c’è un gruppo composto per la maggior parte di uomini gay latinos.

Justin Torres ha evocato la scena della strage, quella notte, al Pulse, in un bellissimo scritto dedicato alle vittime, dal titolo In Praise of Latin Night at the Queer Club:

Forse tua mamma ti ha dato la benedizione sulla porta di casa. Forse ha avvolto un piatto per te, e te l’ha messo in frigo, così quando rientri non fai troppo casino nella sua cucina con la tua ingordigia. Forse è stata tua zia ad accompagnarti, e a darti un po’ di soldi. Forse hai dovuto chiamare una baby-sitter. Forse devi tornare dalla tua famiglia, o forse la tua famiglia ti ha buttato fuori di casa tanti anni fa. Lascia perdere, sei sopravvissuto anche senza di loro… Forse il tuo culo mezzo latino nemmeno sa lo spagnolo; forse sai a malapena l’inglese. Forse sei senza documenti.

Torres restituisce con attenzione e con tenerezza un ritratto delle vittime del massacro di Orlando che non le reifica come un gruppo unitario di “vittime gay”, quanto piuttosto come un gruppo felicemente disordinato di queer latinos che intrattiene relazioni di vario tipo con la razza, la lingua, la classe, la cittadinanza, la famiglia e l’amicizia. Attraverso l’uso della seconda persona – “forse sei senza documenti” – Torres parla direttamente a chi non c’è più, anziché attorno a chi non c’è più, di chi non c’è più, o attraverso chi non c’è più. Torres parla direttamente ai morti, riconosce ciò che li differenzia gli uni dagli altri, nonché ciò che li differenzia da un’intera cultura che troppo spesso li minaccia, li esclude, li sfrutta o semplicemente li ignora; e inoltre li colloca in relazione alla vita notturna, alla città di Orlando, alle loro reciproche relazioni e in relazione alle più ampie comunità LGBT. In un paragrafo successivo, Torres descrive ciò che c’è fuori dal club – neofondamentalisti cattolici, Donald Trump, esclusione, razzismo – e traccia poi una linea magica attorno al club, a indicare quello spazio come sicuro per tutte quelle persone che sono, palesemente, tutt’altro che al sicuro, altrove, nella cultura che c’è fuori da lì. Quando ritorna al mondo, dall’aldilà, Torres ci ricorda il senso della perdita, ci ricorda anche che la lotta continua, ma è qui, solo qui nel club, che puoi prosperare, che puoi ballare, che puoi vivere: Non sei venuto al mondo per essere un martire, ma per vivere, papi. Per vivere, mamacita. Per vivere, hijos. Per vivere, mariposas.

La bellissima canzone di Torres per le vittime mariposas riconosce la bellezza e la fragilità di questa comunità e colloca questa fragilità in relazione ai vettori multipli della violenza che ci sono fuori dal club, e che ripetutamente minacciano di entrarvi. Alcuni di quei profanatori appariranno forse come uomini instabili, e armati; altri appariranno vestiti da sbirri dei migranti [la migra] o da agenti della sicurezza nazionale; alcuni arriveranno mostrando il tesserino della polizia; e altri arriveranno in quanto persone LGBT bianche che si approprieranno di quella violazione e incorporeranno questo crimine all’interno di una narrazione general generica della violenza omofobica.

Christina Hanhardt ha scritto molto a proposito della specificità del discorso sull’antiviolenza all’interno delle comunità LGBT e dei modi attraverso i quali alcune modalità di quel discorso conducano direttamente a una maggior protezione, da parte della polizia, nei riguardi delle comunità LGBT bianche, e a un maggior pericolo, invece, per quelle di colore. In una sintesi esaustiva della sua posizione in merito, apparsa sulla rivista “The Scholar and Feminist Online (S&F Online)”, Hanhardt colloca il ruolo gentrificante delle comunità gay maschili nel panorama del neoliberismo urbano post-welfare. I gentrificatori gay e le gentrificatrici lesbiche, spiega la studiosa, sono spesso “stati accolti come rimedio ai problemi urbani”. E quindi, troppo spesso, le popolazioni urbane gay bianche vanno a rimpiazzare le comunità razzializzate e povere, divenendo esse stesse fonti di investimento. Come scrive Hanhardt,

Nella storia dell’attivismo LGBT, all’interno del quale i temi della violenza e della sicurezza sono sempre stati preminenti, il calcolo del rischio è un elemento centrale: il rischio di subire violenza associato alla vulnerabilità specificamente gay, così come anche il rischio di perdere i profitti connessi alla speculazione immobiliare, chiamano a sé azioni di contrasto alla criminalità. Uno degli effetti perversi di questa combinazione è stata la ridefinizione dell’identità gay normativa come identità minacciata da coloro che sono già ritenuti “criminali” (ossia, i poveri razzializzati), la quale è andata di pari passo con la ricerca di soluzioni in termini di negoziazione dei rischi, tra le quali spiccano l’auto-regolamentazione e l’apertura ai mercati finanziari.

In altre parole, i progetti di sviluppo urbanistico spesso dipendono dalle classi creative bianche e gay, e spesso le incoraggiano a collaborare nello spostamento e nella vulnerabilizzazione delle comunità povere e di colore. In cambio, le comunità LGBT bianche possono finalmente immaginarsi come parte della nazione e della sua prosperità, mentre le comunità queer di colore vengono identificate come ricettacoli di criminalità, di illegalità e di protesta.

Alla luce delle diverse storie delle popolazioni urbane LGBT bianche e delle comunità LGBT di colore, in relazione soprattutto allo spazio, alla proprietà, alla polizia e al rischio, potremmo forse domandarci “chi” siamo, dopo Orlando. L’attentato nei riguardi di questi corpi neri riflette per caso una più ampia vulnerabilità, esperita dalle comunità LGBT nella loro totalità? C’è qualche connessione tra la vulnerabilità delle comunità LGBT bianche dovuta all’omofobia e la violenza che le comunità LGBT di colore subiscono in questo tempo di ostilità nei riguardi dei migranti, dei neri, ma al contempo a favore delle banche, degli affari, del caos dettato dal libero mercato?

Sulla scia dei fatti di Orlando, forse è giunto il tempo di spezzare la fantasia di una comunità LGBT monolitica, non tanto in favore di una più precisa calibrazione delle identità, ma in nome dell’urgente bisogno di affrontare la violenza statale sia nei casi in cui si esprima attraverso un regime securitario che lavora al servizio di banchieri e politici e non invece per conto dei poveri o delle persone di colore, e sia quando quella violenza provenga invece dalle strategie di inclusione rivolte alle persone queer relativamente privilegiate, o dall’aumento della repressione poliziesca nei riguardi delle persone queer di colore. Infatti, nonostante il matrimonio gay venga prontamente indicato quale motivazione per i crescenti crimini d’odio omofobici – scrive, il “New York Times”: “Ironicamente, come dicono gli studiosi dei crimini d’odio, uno dei motivi di questa violenza contro le persone LGBT potrebbe avere a che fare con l’atteggiamento di maggiore accettazione nei riguardi di gay e lesbiche negli ultimi decenni” – sarebbe forse più efficace intendere il matrimonio gay nei termini di parte integrante di una logica inclusiva all’interno della quale il conflitto è fagocitato e, tuttavia, reso iperbolico.

Mentre la middle class LGBT bianca celebra il proprio ingresso nelle formazioni sociali normative e paga il prezzo di questa inclusione dando il proprio consenso a nuove forme di esclusione violenta, non può – e non possiamo – rivendicare di essere i vulnerabili tra i vulnerabili, le vittime tra le vittime, i più bisognosi di riparo, protezione e asilo. I fatti di Orlando mostrano, o almeno a me, che lo stato securitario in cui viviamo, con i valori riconosciuti dal suo secondo emendamento, e le sue urlate e crude configurazioni di ciò che siamo “noi” e di ciò che sono “loro”, richiede di essere contrastato da una discussione complessa, intricata, e rischiosa circa chi “noi” siamo e chi “noi” vogliamo diventare.

Per Justin Torres, il caso di Orlando ci mette di fronte al potere trasformativo della notte latina al club queer: “L’unico imperativo è trasformarsi, trasfigurarsi nella luce della pista”. In modo analogo, Orlando riporta sulla scena l’utopia queer di José Muñoz, in quanto “forma di eccesso d’affetto che ha la forza di dar vita al futuro”. Orlando non è un “noi” generalizzato e amorfo, è chiaramente un “voi”, voi che siete in piedi, che ballate, che vivete e che morite nelle prime ore dell’alba, chiusi in uno spazio ai margini della comunità, eppure sull’orlo di una nascente futurità in cui altri mondi potrebbero venire – e verranno.

Immagine in apertura: veglia dopo la strage al Pulse di Orlando, Florida