Da Dinamo Press, rilanciamo alcune riflessioni di Carla Panico sul “Patriarcato nazionale” a partire dalla statua colorata di rosa. 

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Quando i bambini scoprono che i padri non sono infallibili, piangono.

Quando lo scoprono le bambine, iniziano a essere femministe.

Ecco cosa penso, leggendo le reazioni del giornalismo italiano di fronte alla statua di Indro Montanelli imbrattata di vernice rosa durante la manifestazione dell’8 marzo a Milano: i bambini piangono perché il padre – cosa ancora più dolorosa di quando si tratta del Re – è nudo. O peggio: è vestito di rosa.

Sono davvero sorpresi i Telese, i Travaglio, i giornalisti italiani seri, imparziali, impegnati, davanti alla pubblica esposizione del corpo morto della vergogna paterna, una vergogna sessista e violenta, coloniale e razzista? Mi piacerebbe pensarlo e mi piacerebbe provare tenerezza, pensare che c’è tanto lavoro da fare, da spiegare, da raccontare. Ma sarebbe un’illusione bella e buona: di nuovo e sorprendente, di scioccante e inedito, in fondo, non c’è poi molto, nella luna che il dito di vernice rosa ha indicato.

Ad essere nuovi sono solo e soltanto i soggetti che si trovano dal lato dalla visibilità e quelli che, al contrario, della visibilità – e della possibilità di raccontare – sono abituati a essere i padroni e non gli imputati. Mentre le ferite inconsolabili della maschilità intellettuale italiana vengono a galla, il caro Telese – in una performance degna delle Olimpiadi del mansplaining – ci spiega che esiste “il contesto” e che noi, povere femministe e/o sedicenti “antirazzisti progressisti”, che vuoi che ne sappiamo noi, del “contesto”.

Partendo dal mio, di contesto, ovvero in quanto storica, donna, femminista, (aspirante e precaria) studiosa di postcolonialismo, italiana all’estero, militante antirazzista, ossessiva analista del nazionalismo italiano, figlia di quella marginalità – della geografia e della storia dello Stato – che chiamano “Meridione”, avrei un incontrollabile istinto di rispondere elencando dati, spiegando eventi storici e battaglie, citando testi inequivocabili. In buona sostanza dimostrando che chi difende Montanelli si sbaglia perché non sa o, per lo meno, non sa abbastanza.

Ma è davvero cosí? Possiamo davvero, ancora, cedere alla tentazione auto-assolutoria di credere che non sappiamo, o che non sapevamo? Possiamo ancora credere che il colonialismo italiano – e i suoi orrori, le sue conseguenze e le sue responsabilità storiche – possano ancora essere una sorpresa per qualcuno? Perché, a dircela tutta, “la luna” era giá lí, ben indicata, da diverso tempo. Dalla storiografia e dai libri accademici – Giuliani, Lombardi, Diop, Proglio, etc.. Ma anche – prima che ci accusino di snobismo intellettuale, di cui invece Telese non sembra affatto doversi preoccupare – da film, da reportage e romanzi di grande diffusione, come i testi e gli articoli di Igiaba Scego, o romanzi come Point Lenana e Timira della “famiglia” Wu Ming o Sangue giusto di Francesca Melandri. E allora, vale davvero la pena assumersi il compito – da sempre dannatamente femminilizzato – di “educare” i maschi che proprio non sanno le cose o è arrivato il momento di assumere che il problema è probabilmente più profondo?

A leggere il dibattito giornalistico sull’azione di Milano, passa anche la voglia di spiegare.

Nel momento in cui “Repubblica” grida al vandalismo e Telese si espone esplicitamente per giustificare babbo Montanelli – e con lui, tutti “noi” o, meglio, tutti “loro” – non solo abbiamo a che fare con una capillare e naturalizzata cultura dello stupro, sessista e patriarcale. Abbiamo anche davanti il sintomo del fatto che nessuno in Italia voglia fare i conti col “nostro” colonialismo e con la sua continuità contemporanea.

Davvero Telese pensa che quello contro Montanelli sia un !processo a posteriori» o un anacronismo? Oppure chi lo dichiara è consapevolmente in cattiva fede, sentendosi protetto dall’arroganza di chi ha – e ha sempre avuto, come soggetto storico – il potere di raccontare come sono andate le cose?

Il dubbio è retorico e legittimo al tempo stesso, poiché gli stupri e gli orrori del colonialismo – inclusi quelli personali di Montanelli – sono sempre stati denunciati da chi li ha subiti o da chi si porta addosso l’eredità storica delle vittime: solo che questa parte della storia è sempre stata scientemente silenziata, nei libri di storia, nel dibattito pubblico, nella narrazione della nazione italiana.

Davvero non avevamo visto il famoso video del 1969 in cui la scrittrice eritrea Elvira Banotti spiegava in maniera inequivocabile a un paternalista e sorridente Indro Montanelli che ció che aveva appena raccontato a proposito della sua “sposa dodicenne” era uno stupro? Davvero – nell’era della quasi totale accessibilità alle informazioni – un grande giornalista puó fingere di non conoscere le successive prese di posizione dello stesso Montanelli – tre, fino a poco prima della sua morte, come spiega bene Zad El Bacha – volte sempre a confermare la propria innocenza di vincitore?

Verrebbe piuttosto da chiedersi e da chiedere: ha mai chiesto scusa Montanelli? Ha mai mostrato di aver compreso – come sarebbe lecito pretendere da una grande figura di intellettuale – di aver interpretato il ruolo storico dell’oppressore? Si è mai chiesto che ne è stato di quella ragazzina di dodici anni che – come tante, tantissime altre – è stata abbandonata alla fine dell’occupazione italiana dopo essere stata la moglie legittima di un “talian”? E noi, ce lo siamo chiesti?

Quelli che si appellano all’assolutoria parola “contesto”, si ricordino che il “contesto”, ben ampio e ben grave, è quello per cui gli stupri di guerra sono sempre stati, nel caso italiano e non solo, una parte strutturante dell’occupazione coloniale, un’arma di guerra per piegare e controllare il nemico: ed è dentro questo contesto che Montanelli si inscriveva, con tutto l’orgoglio del maschio bianco italiano che praticava il “madamato”.

Il colonialismo – se vogliamo, come è necessario, contestualizzarlo nella maniera in cui esso struttura le relazioni di genere – è sempre uno stupro e lo stupro è sempre una forma di colonizzazione del corpo femminile: le due cose strettamente legate tra di loro nella grande riaffermazione del maschio bianco conquistatore, che possiede, per definizione, le terre e le donne.

E quello che rimane più grave in tutta questa storia è che questa è esattamente la base di formazione del nazionalismo italiano, quello stesso schifoso impasto di razzismo, sessismo e confini – sancito in una lunga storia di accordi internazionali criminali, come quelli con la Libia – per cui oggi ritroviamo Salvini al governo e una schiera di maschi bianchi proprietari ad applaudirlo con la bava alla bocca mentre dichiarano guerra alle donne e ai migranti, i soliti grandi “altri” sulla cui dominazione si basa la riproposizione del progetto nazionalista.

E mentre questi grandi “altri” della Storia italiana – oggi nella forma dei processi migratori e dei movimenti femministi – bussano alle porte del nazionalismo per chiedere il conto, non c’è niente di cui stupirsi se questo provoca una reazione scomposta e violenta da parte dei maschi italici. Quelli direttamente fascisti e gli utili idioti della sinistra che pure hanno la stessa coscienza sporca.

Quando abbiamo scelto, come femministe, di scendere in piazza al grido di «Né la terra, né le donne sono territori di conquista» eravamo eredi, consapevolmente o meno, di questa storia, di questa lotta contro una meccanica specifica di articolazione del potere: un potere patriarcale, coloniale e capitalista, che si spiega e si può decostruire solo quando teniamo ben presente questa sua triplice articolazione. Lo hanno fatto perfettamente le compagne di Milano, in maniera visibile e potente, dimostrando che ciò che è in ballo non sono elucubrazioni teoriche, buone solo per i salotti intellettuali ma che, al contrario, il femminismo è pensiero radicale incarnato nelle vite e nei corpi, capace di produrre alleanze perché dotato di una straordinaria vocazione alla tempestività storica, una vocazione a essere attuale.

Non ci provate nemmeno, cari intellettuali da bene, a propinarci lezioni sul “contesto”: gli unici decontestualizzati siete voi, maschi bianchi abituati da tutta la vita a considerarvi come i portavoce del punto di vista “neutro” e “assoluto” della Storia globale, perché su questo avete costruito il vostro dominio.

La vernice sulla statua di Montanelli mette a nudo la favoletta dell’”imparzialità” storica dei grandi intellettuali, laddove ció che è neutro è sempre e solo la naturalizzazione del punto di vista parziale dei vincitori, di una parzialità bianca e maschile che si autoproclama neutrale e assoluta. Al tempo stesso apre alla sfida più grande e attuale: quella di affrontare le ferite che sono state aperte, anche dentro al femminismo, dalla questione della razza e dal colonialismo, come dispositivi di divisione profondissimi che tuttora rendono difficile e doloroso il dialogo tra le donne dei Nord e dei Sud – interni e globali.

La vernice sulla statua di Montanelli è una chiamata a nuove alleanze e articolazioni, una presa di parola assolutamente necessaria che dimostra come il grande silenzio sul colonialismo italiano possa essere infranto e a riuscire a farlo – finalmente – sono state proprio le lotte delle donne. Tutto meno che un caso, visto che è all’ombra dello Stato-nazione che si costruiscono le uniche alleanze oggi in grado di sfidare l’egemonia fascista ed è in questo cono d’ombra che si incontrano i grandi esclusi del progetto paternalista del nazionalismo.

Come diceva un intellettuale sardo che – a differenza di Montanelli – durante il fascismo si è fatto un bel po’ di anni di carcere, è proprio «ai margini della Storia» – soprattutto di quella dello Stato-Nazione – che bisogna andare a ritrovare le tracce dell’iniziativa autonoma di quelli che sono sempre stati descritti come “subalterni”.