Lombardia, anni (20)dieci: la maggior parte di quelli che hanno un reddito sanno che, per questo loro reddito, devono dir grazie a qualcuno.

Non c’è oggi un contesto generale autonomo di produzione e commercio come invece è stato in passato.

Industria e design negli anni sessanta in Lombardia erano forti, innovativi e strettamente collegati, ma si sono poi progressivamente separati. Il design (e poi la moda) ha forse voluto rendersi progressivamente immateriale sganciandosi dall’industria, l’industria è stata smantellata e delocalizzata.

Dagli anni ottanta a oggi, progressivamente, l’economia lombarda ha perso l’autonomia di un sistema che in precedenza era stato in grado di autosostenersi – anche se a danno del territorio e dell’ambiente e al prezzo dello sfruttamento del lavoro.

E l’ha persa progressivamente, ma velocemente. Dalla fine degli anni novanta le attività economiche non sono più organizzate in filiere produttive /distributive, bensì in catene di distribuzione di fondi di origine pubblica, controllate in alto dal potere regionale. Questo avviene sia nel regime ordinario, sia mediante il meccanismo dei “grandi eventi” (o “grandi opere”), i quali, oltre a muovere maggiori quantità di denaro, hanno in più l’effetto di riprodurre e amplificare il meccanismo. I finanziamenti vengono spartiti tra amici, alleati, interlocutori e apparenti avversari nel contesto del governo regionale. Questi capi provvedono a distribuire i fondi lungo le catene che controllano, con sequenze di accordi, contratti e appalti aziendali che alla fine hanno l’attività lavorativa come pretesto e non come oggetto. I percettori di fondi, finanziamenti, e infine anche di reddito sotto le varie forme del lavoro dipendente, autonomo o pseudo-autonomo hanno ben chiaro da dove arrivano i soldi. E sanno che quel che conta sono le loro relazioni personali.

Queste riflessioni non si basano su dettagliate analisi empiriche. Ma conferme si potrebbero trovare (banalmente?) nell’edilizia, nelle costruzioni stradali, nel settore alimentare (da agricoltura/allevamenti alla grande distribuzione), o nel settore della sicurezza.

Occorre tenere presente che la trattativa tra gruppi di potere si svolge sempre in una zona sfumata dei confini della legalità. E in questa ambiguità può agire meglio chi ha qualche leva di controllo legislativa ed esecutiva (e ancora meglio chi controlla tutta la regione da 25 anni, anche grazie alla “devoluzione” voluta dal centrosinistra).

In tutto questo, conseguentemente, i risultati effettivi del lavoro, la qualità dei prodotti e dei risultati, non contano più nulla. Contano i legami personali che diventano di tipo feudale – ovvero di tipo mafioso, se si pensa a relazioni di tipo feudale nel mondo moderno. Tutto ciò riguarda in maggiore o minore misura tutti i livelli, ma, alla base della ramificazione, la condizione precaria è certamente una condizione di ricattabilità, quindi espone individualmente lavoratori e lavoratrici allo sviluppo di relazioni di dipendenza da un lato extra-giuridica e dall’altro personali, in questo senso “feudali”.

Nel suo passato industriale la Lombardia ha visto, probabilmente, una maggiore importanza della qualità dei prodotti e anche un maggiore sfruttamento del lavoro. Il lavoro de-qualificato veniva spremuto per quantità, ma manteneva un certo potere collettivo di contrattazione. D’altra parte, il lavoro variamente qualificato aveva, probabilmente e altrettanto variamente, maggiore potere di contrattazione anche individuale. Evidentemente situazioni di questo tipo ci sono anche adesso, ma non sono prevalenti. Nel contesto descritto sopravvivono alcune isole – a volte definite “di eccellenza” (ma non sempre, e non sempre a proposito) – in cui il criterio della qualità rimane attivo, e che per un motivo o per l’altro sono rimaste al riparo del meccanismo generalizzato di voracità distruttiva. Ma si tratta di casi isolati: isolati, appunto, dal contesto generale.

Il meccanismo generale, da una prospettiva esterna, può assomigliare a un sistema di erosione delle risorse simile a quello sperimentato a ripetizione (in mille varianti) nei paesi poveri, per mezzo dell’azione delle élites corrotte e per conto della grande finanza internazionale. Questi meccanismi di saccheggio hanno fruttato enormi ricchezze anche quando sono stati applicati a paesi poverissimi. Ora è il turno dell’Europa, e di aree che sono ancora relativamente ricche, che sono state economicamente forti in un passato recente. Il bottino sarà maggiore.

Da una prospettiva interna, questo meccanismo rende inefficaci le analisi critiche che si basano sull’importanza del lavoro, per quanto siano adatte a diversi modelli produttivi e distributivi, da quello fordista a quello post-fordista, al lavoro cognitivo. Non perché tali analisi siano sbagliate, ma perché nell’attuale contesto generale il lavoro è, semplicemente, meno importante. Quello che invece è importante in questo contesto è la spartizione del bottino, ovvero delle spoglie dell’economia industriale lombarda del tempo che fu.

È chiaro che tale sistema di relazioni è sempre esistito. Si tratta però di capire se e quando prevalgono meccanismi più o meno creativi di spartizione di fondi pubblici, in cui né la qualità del prodotto, né il lavoro contano davvero. Il lavoro può allora, addirittura, essere “meno” sfruttato: ma non nel senso che è meglio retribuito: nel senso che è “dissipato”, perché, tanto, l’utile non viene da lì. E questo toglie potere contrattuale al lavoro.

Una conseguenza è che il meccanismo della corruzione è oggi generalizzato. Perfino persone che ritengono di essere oneste, e che in effetti lavorano, si impegnano, e faticano, si ritrovano ad essere consapevoli che “devono” il loro reddito alla benevolenza di qualcuno. E quindi questa relazione personale va protetta: è prioritaria rispetto al lavoro. Anche se lavorano davvero.

L’efficienza lombarda all’opera nella soluzione fulminea di una crisi politica

Nell’ottobre 2012 la giunta regionale di Formigoni collassò per effetto di un ennesimo scandalo di corruzione. In quel momento gli alleati politici che avevano governato la regione per vent’anni con maggioranze estremamente solide erano impegnati in una furiosa e (per una volta) pubblica lite, con polemiche e insulti quotidiani. Era in effetti un momento di debolezza del sistema di potere lombardo. In quel momento perfino le “opposizioni”, che in verità non erano mai state molto oppositive, poterono credere di poter vincere le elezioni, ineluttabilmente anticipate, per semplice effetto delle divisioni della maggioranza. La percezione generale era quella dell’imminente crollo: non solo della giunta, ma dell’intero sistema economico di spartizione distruttiva delle risorse pubbliche. Nel “territorio” c’era quindi incertezza: i percettori di fondi, a tutti i livelli non vedevano più, in quel momento di confusione, gli agganci centrali del ramo di spartizione a cui sapevano di appartenere e temevano che alcuni di questi rami, forse anche il proprio, perdessero l’aggancio con il “centro”.

Ebbene, le temute elezioni anticipate vennero posticipate, inizialmente a “dopo Natale” e infine fissate a Marzo. Alle feste natalizie si arrivò apparentemente ancora in una situazione di guerra tra cosche.

A metà Gennaio tutte le “cosche” indicarono unite il nome di Maroni, che infatti venne eletto in Marzo con forte maggioranza, nonostante il risultato deludente del suo “partito” di appartenenza.

Durante le feste natalizie era evidentemente intervenuto lo Spirito Santo: la forte aspettativa dalla “base” di non rompere il “giocattolo” permise la fulminea ricompattazione della maggioranza, con rassicurazioni per tutte o quasi tutte le ramificazioni del meccanismo di spartizione, sufficienti a garantire l’elezione del nuovo “governatore”.

 

 

 

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