«Ci avete visto lanciare sassi, oggetti e bottiglie incendiarie. Brandire spranghe e bastoni a mo’ di alabarde. Tendere nervi e muscoli in gesti improbabili e poi scappare, nasconderci, mimetizzarci, uscire dal niente e rientrare nell’ombra. Certo, vi piacerebbe sapere che siamo adolescenti ben pasciuti, pargoli di genitori separati, viziati dal logo e solo per cipiglio passati dall’altro lato della barricata. Vi piacerebbe credere che siamo la punta dell’iceberg di una generazione senza valori. Forse la vostra brutta sociologia vi porterà a vedere solo ciò che vorreste…».
Sono passati quasi 15 anni da quando, nel dicembre 2001, poco dopo Genova, uscì il libro Io sono un black bloc. Poesia pratica della sovversione. Appena conclusa la manifestazione NoExpo Mayday del 1 maggio 2015 la tentazione di molti è stata quella di andare, ancora, proprio a cercare epiteti e definizioni per il cosiddetto “blocco nero”. Tutte sbagliate. Non sono adolescenti frustrati, non sono per forza stranieri, né figlie della borghesia con il rolex al polso (“siamo ciò che distrugge la merce, siamo ciò che volete che siamo”). Catalogarli, quasi a volerli esorcizzare per distanziarli da sé, è scorretto e infattibile. L’esempio più clamoroso di questa tendenza è stato forse l’intervista raccolta dalla solita informazione italiana, priva di stile e di decenza, al disgraziato ragazzo che dichiara di amare “il bordello”. Se vi va, condividetela, ridetene, mettetelo alla berlina.
A Milano noi abbiamo visto una componente del movimento, legittimamente interna al corteo. Ampia (non 30 persone, ma forse 1500), determinata e organizzata. Alle tesi complottiste sugli infiltrati non è il caso di dedicare parole. Ma, effettivamente, dentro a quello stesso corteo, in tanti e tante, (meno giovani e più giovani), in alcuni momenti non siamo stati “con agio”. Questo è un primo dato. Frutto del trauma che ci ha regalato Genova 2001, ma anche del fatto che non esiste un largo tessuto sociale, coeso, in grado di investire completamente su tali pratiche di “rivolta”, assumendosele, né, davanti alle vetrine che saltano o a una macchina che brucia, riesce oggi a esprimersi vero consenso.
Sappiamo benissimo che la “democrazia” è morta e il punto non è affidarsi al meccanismo di una rappresentanza svuotato di senso. Sappiamo ancora meglio come gravi su ciascuno di noi, sempre più precisamente, la radicale violenza degli effetti sociali della crisi perenne neoliberista con i suoi cascami ideologici. Ci dichiariamo infatti fuori dall’ideologia cittadina, quella dei cittadini “buoni” contro i “cattivi” potenziali criminali, che è ideologia della sorveglianza, la quale ieri, infatti, ha messo in onda, a Milano, una manifestazione “civica” per ripulire la città dai resti lasciati dai “violenti”. Detto questo, chiarito tutto questo, il problema politico ci resta. Ci resta da affrontare un nodo politico intorno al quale si gira da tempo, ormai.
Vogliamo guardare davvero, senza romanticismi, alla potenza e all’empasse dei movimenti nelle piazze, a queste eruzioni reiterate ma mai collegate? Come uscire dalla contrapposizione, tra l’affidarsi alle istituzioni da un lato o alla logica dello scontro dall’altro? Come possiamo trovare modalità per condividere pratiche dentro grandi cortei partecipati a livello internazionale e importanti, come era questo del NoExpo Mayday di Milano 2015? Oppure, ancora, altra domanda: queste forme nostrane di riot generano “immaginari” – e quando scrivo immaginari intendo qualcosa che costruisca tensioni che resistano, proiezioni capaci di replicarsi, traiettorie in grado di svilupparsi lungo una qualche strada? Immaginari, cioè, che mettano in moto desideri e si coalizzino intorno a progetti, a un’idea diversa del mondo? Come ben sappiamo, più della rabbia o della rappresentazione, anche gestuale, della sofferenza, è l’immaginazione quella che apre le porte, sempre. In realtà, oggettivamente, questi lampi metropolitani non vanno appiattiti affatto sulla casualità estemporanea del puro sfogo. Ma nemmeno sono capaci di rappresentare una risposta alla nostra collettiva difficoltà nell’incontrare e a organizzare le soggettività. Così, il rischio di marginalizzazione si mantiene elevato, mentre è altrettanto elevato il pericolo di una stretta repressiva che rischia di accompagnare giornate come queste. Perciò, era giusto ed è giusto far notare le difficoltà che potrebbero incontrare la rete NoExpo e il movimento milanese nella sua complessità dopo questo primo di maggio. Non per pavidità, ma per bisogno di concretezza, dentro questa nebbia che si taglia con il coltello, tra fumogeni e lacrimogeni, alla fine, dove andiamo?
Il tema della condivisione, dell’allargamento, della capacità di parlare a settori sempre più ampi della società resta il nostro problema e, con il passare del tempo, sempre maggiori dubbi genera l’idea che la strada giusta sia quella di pestare solo lungo contraddizioni insanabili, tanto meno pare possibile, a questo punto della storia, fare affidamento su un soggetto contrapposto al mondo (l’avanguardia) che lo spinge nella corretta direzione. Si tratta anche di evitare, se possibile, le coazioni a ripetere, perché le cose non si presentano mai sotto la stessa forma che hanno assunto nel passato.
Sul sito urge/urge c’è un testo assai interessante di Amator Savater, una lettura del libro A nuestros amigos del Comité Invisible, dal titolo “Riaprire la questione rivoluzionaria”. Nel finale si legge: “Forzare le cose dall’esterno: le rivoluzioni che si fanno da questo punto di vista finiscono in un disastro e bruciano i rivoluzionari nel volontarismo”. “L’intelligenza strategica nasce dal cuore… incomprensione, negligenza e impazienza: il nemico sta qui”.
E allora, “ci sarebbe un altro percorso: imparare ad abitare pienamente, invece che governare, un processo di mutamento. Lasciarsi trasformare dalla realtà, per poterla trasformare a sua volta. Darsi tempo, per imparare i possibili che si aprono in questo o quel momento
Grazie di questa segnalazione. Scrive ancora Savater: “Ho passato varie settimane a sbrogliarmela con il libro perché per me molto di quello che esso dice è strano, controintuitivo o contraddice direttamente quello che penso. Però in questo caso valeva la pena di scontrarsi…”. Dal punto di vista del lettore, posso sottoscrivere: vale la pena!
Solo per precisare, il titolo del libro originale è francese, “A nos amis”, edito da La Fabrique
grazie della segnalazione. A presto! Effimera
l’impostazione che emerge dalla citazione di Savater mi trova profondamente d’accordo, ma è proprio questa prospettiva, temo, quella che manca a questi riots (tipo quello del primo maggio), così vistosi e isolati, concepiti in primo luogo, per non dire unicamente, per i media, per essere ripresi, , visti, ,notati, non per essere capiti ed aprire, e aprirsi, ad affrontare la complessità della realtà sociale .. Ci si limita allora a tentare di sottrarre un po’ di spazio alla festa del capitale e far convergere i proiettori di quella festa sulla propria protesta per farne parlare per uno o due giorni. Ma questa è la più evidente manifestazione di debolezza e, soprattutto, di incapacità, o timore, di provare ad articolare un discorso critico del complesso sociale rivolto erga omnes, e non solo, e non tanto, agli amici e amici degli amici, tramite il solito tam tam ristretto del social digitale, inevitabilmente conchiuso ai già più che convinti e sodali. Ecco, se dovessimo in una parola caratterizzare il limite formidabile di questi modi di aggregazione e azione potremmo forse dire che scambiano le dinamiche di gruppo e di ruolo per le ben più ampie, accidemtate e complesse derive di ricomposizione sociale di classe, ovvero che scambiano dimensione e dinamiche gruppali e comunitarie per quelle sociali generali. Da questo punti di vista mi piace riportare una battuta colta recentemente al margine di una manifestazione da parte di un vecchio compagno , provocatoria ma non poi tanto, anzi: d’accordo, diceva, vanno benissimo i social media, ma qualche manifesto alle cantonate delle strade e magari anche qualche volantino, o volantone, ecc, rivolti a spiegare le ragioni di un’azione proprio no? altrimenti se ne dovrebbe dedurre che bastano i già connessi e i già acquisiti e che non c’è nessuna voglia e coraggio di espandere l’area d’ascolto oltre i soliti (e pochi) noti.