La parola “libertà”, benché eufonica e affascinante, è risaputamente scivolosa. Il concetto di libertà deve infatti, sempre, necessariamente, raffrontarsi con quello speculare di “sovranità”. Come ci ricorda Wendy Brown, questo rapporto oggi “è turbato da forme di potere sociale sempre più intricate e diffuse”.

Trovo del tutto inventata e stucchevole la dicotomia tra “femminismo moralista” e “femminismo libertario” che abbiamo visto agitarsi scompostamente in rete, partendo dal “caso” di Paola Bacchiddu. I vari percorsi, tutti italiani, di Se non ora quando e del suo troppo spesso rimosso predecessore Usciamo dal silenzio con le sue ambizioni sicuritarie, non hanno certo appassionato chi scrive né altre tra coloro che hanno preso parola in questi giorni. Mi pare invece interessante affrontare il tema a partire da quella che chiamerò “una pretesa di consumazione violenta della nostra vita”, ovvero del nostro modo essere e di interagire con il mondo che dovrebbe sottendere una matura presa di posizione politica, iscritta nel presente neoliberista globalizzato.

La libertà e l’autodeterminazione sono diventati oggi elementi necessari per stimolare la “creatività” e l’“invenzione” produttiva, sono cioè anch’essi funzionali alla realizzazione ri/produttiva. Si tratta di una libertà, cioè, che diventa del tutto interna alla razionalità economica, dispositivo di controllo dei desideri delle nuove smarrite identità contemporanee. La logica della produzione espande la sua influenza e la sua logica procedurale su ogni aspetto della vita sociale. Guardandola da un altro lato, possiamo dire che la riproduzione sociale diventa il modello del lavoro contemporaneo, assumendo come materie prime il corpo, il desiderio e il tempo.

La storia delle donne è anche un movimento progressivo di avanzamento sul piano dei diritti della persona che si compie attraverso pratiche illecite e fuori norma, per strappi e rotture di conformismi e abitudini, per destituzione di centralità ideologiche fallogocentriche. Ma, soprattutto di questi tempi, bisogna porre attenzione alle trappole: perfino il “desiderio” finisce per essere socialmente costruito, mentre la frammentazione precaria del presente piega il soggetto verso una deriva narcisistica e conformistica, consumatoria, che, lungi dal fracassare precetti e imposizioni, asseconda i dispositivi prescrittivi del potere. Paradossalmente, nel contesto biocapitalistico in alcuni casi trasgredire la norma può essere adeguato alla reificazione del soggetto, contraddicendo qualsiasi presunta dinamica di liberazione. Non è difficile intravvedere il rischio di rientrare appieno, con i nostri selfie, con le nostre testimonianze “vitali” affidate ai social network, con le foto dei bambini o in costume da bagno, con le ricercate provocazioni di titoli di libri, all’interno di un circuito circense voluto da un potere osceno fondato sul nuovo dispositivo prestazione-godimento molto lucidamente richiamato da Ida Dominijanni in un suo recente post dedicato proprio a questo dibattito. (si vedano anche il primo post sul tema di Dominijanni e le risposte di Angela Azzaro e di Elettra Deiana)

Mi interessa ricordare come, se si accetta di immergersi in questa logica, probabilmente senza averne consapevolezza, si finisce per trasformarsi non in un faro di libertà ma, al contrario, nella donna della competizione e della prestazione. Non sono certa che sia libera scelta e che collimi con il desiderio di autodeterminazione questo principio di azione onnipresente e omnicomprensivo che si traduce in una ricercata visibilità mediatica, cioè, alla fine, in un preciso valore economico. Cade l’opposizione tra potere e libertà soggettiva se si ammette che l’arte di governare non consiste nel trasformare un soggetto in puro oggetto passivo ma “nel portarlo a fare ciò che accetta di voler essere e fare” (Pierre Dardot, Christian Laval, 2013). La società neoliberale è violenta perché consuma libertà sotto la parvente accettazione di tutte le devianze e di tutte le identità che tuttavia controlla attraverso meccanismi sempre più elastici e pervasivi.

Perciò, è più che mai necessario investigare su una prassi della libertà (del corpo-mente) che non può essere improvvisata. Si tratta di costruire un sapere che affonda profondamente nelle condizioni e nei problemi sociali ed economici contemporanei in cui è in gioco la praticabilità stessa della libertà nel suo esercizio pubblico.

Non deve sfuggirci, inseguendo slogan sul diritto alla fellatio privi di interesse, l’inedita invasività dello sfruttamento contemporaneo, sollecitato brutalmente dal regime di precarietà. Un campo di inedita ampiezza che penetra l’intera vita del soggetto. Questa non è più, da tempo, solo una intuizione: gli esempi che possiamo fare, pensando a questo meccanismo di appropriazione del bios (dal corpo dai geni agli affetti) si amplificano a dismisura e ci parlano esplicitamente del tentativo di traduzione antropologica della vita in una misura per la traduzione della sua scambiabilità.

Abbiamo già, e più volte, citato facebook e i social network come il terreno dove diviene evidente la trasformazione della relazione in commodities con tutte le ansie psicotiche che questa trasformazione comporta.

La libertà femminile si alimenta sempre del valore relazionale fra donne e non può mai essere immaginata come espressione puramente individuale, sganciata da un processo di interazioni e relazioni che risponda alle diverse interpretazioni della libertà femminile, valutando anche le conseguenze sulle vite poste ai margini e tra confini che rispondono alle diverse interpretazioni del potere. Pensiamo per esempio alle donne migranti la cui soggettività è data dalla compresenza simultanea di diversi assi di potere: da quello patriarcale tradizionale ai processi economici e politici che usano il linguaggio efficientista del neoliberalismo.

Questo significa, dal mio punto di vista, sforzarsi di ripensare completamente, dalle fondamenta, soprattutto il nostro rapporto con questo modello di sviluppo, un modello che le donne hanno contribuito a sostenere con il loro lavoro e le loro energie e che oggi pretende un’adesione ancor più generalizzata, intensificando un processo di neutralizzazione e naturalizzazione. Tutto si gioca tra libertà individuale e libertà collettiva, certamente fuori da ogni versione femminista essenzialista, essendo però ben consapevoli delle trappole suadenti del potere, recuperando strumenti autonomi di diagnosi in cui il soggetto prende parola senza intermediari, posizionandosi in modo conflittuale rispetto ad esso e alle istituzioni contemporanee.

Si tratta, insomma, di pensare a pratiche di libertà e di lotta capaci di cambiare, davvero, le vite e non a performance estetizzanti che finiscono per avere un alto tasso di ambiguità “nell’umanità riformattata nello spettacolo, biopoliticamente neutralizzata” (Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, 2003).