Continuano i commenti all’intervista di Gennaro Avallone a Jason Moore (qui la prima e la seconda parte): oggi, sempre più a ridosso del climate strike di domani, la quinta tappa.

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Jason Moore apre l’intervista proponendo la World Ecology come una teoria marxista, ma necessariamente storico, slegato da una presunta “purezza” ideologica o attinenza a dei concetti chiave immutabili. Questa, per me, è la ‘verità’ di Marx: la verità del divenire – di un mondo che, cambiando, ci chiede di essere pensato, detto e fatto di volta in volta diversamente. L’idealismo fissa delle categorie interpretative, il materialismo ne scalza la possibilità. Il pensiero è parte immanente di un mondo in continuo mutamento e per questo emerge sempre diverso. Al contempo, esso fa e produce i mondi di cui è parte. Proprio l’eredità marxiana ci rende consapevoli che le nostre parole sul mondo non sono mai naturali o neutrali: sono parziali poiché situate, ma più profondamente politiche perché costruiscono la realtà, oltre a rappresentarla.

Viviamo una crisi ecologica senza precedenti nella storia umana, strettamente legata ad altre crisi (sociali, politiche, soggettive) del nostro modello socio-economico. Insieme, esse ci chiamano a pensare questo mondo per poi cambiarlo, delineare percorsi a venire. Dobbiamo costruire pensieri all’altezza di questo obiettivo rivoluzionario e ciò ci spinge a domandarci cosa sia un pensiero militante, come emerga. È la questione del metodo. Non a caso, penso, l’intervista si apre con una riflessione circa il fatto che la World Ecology è una conversazione. E se i pensieri si costruiscono relazionalmente, attraverso parole e cose e azioni, ci si pone il problema di come costruirli. La prassi del pensiero, ossia come lo pratichiamo, diventa fondamentale.

Cosa significa per un metodo di ricerca essere un dialogo? Primariamente, materializzare la convinzione che non si dà pensiero unico astratto e fisso: esso emerge attraverso interazioni. Moore fa ad esempio i conti con Marx attraverso un confronto con tradizioni diverse, quali quella femminista e decoloniale. Inoltre il suo approccio è storico: quasi per definizione fa i conti con un mondo in divenire. Proprio da qui nasce la critica di Moore al concetto di Antropocene realizzata attraverso quello di Capitalocene: dalla necessità di storicizzare la crisi ecologica e rintracciarne le premesse non in un astratto e generico “anthropos” ma piuttosto in rapporti di produzione e riproduzione determinati. Più in generale, il materialismo ci suggerisce che le nostre conversazioni sono sempre qualcosa di più di un dibattito intellettuale: avvengono con il e sul mondo. La filosofia orizzontalista di Moore implica necessariamente questo: non solo gli esseri umani sono inseriti nella rete della vita e da essa non possono prescindere – il pensiero stesso lo è, perciò le modalità con cui si relaziona a tale rete non sono secondari a una teoria e a una pratica rivoluzionarie.

Sulla base delle analisi ispirate alla World Ecology possiamo dire che la forza distruttiva del capitalismo ha portato alla crisi attuale grazie ad una certa costruzione della Natura (che comprende natura non umana, donne, popolazioni indigene) come sfera altra e inferiore rispetto alla Civiltà. Questa costruzione si è materializzata ed ha operato su tutto il pianeta attraverso la sua colonizzazione da parte degli imperi europei. Nel momento in cui il capitalismo diventa un regime ecologico globale in cui la biosfera tutta è messa-a-lavoro (gratuitamente) con l’obiettivo di estrarne valore e quindi profitto per pochi, la crisi ecologica diventa inevitabile poiché le sue capacità di riproduzione vengono trascurate in favore della corsa all’accumulazione. La responsabilità della devastazione ecologica odierna è quindi innanzitutto da imputare ai sistemi di dominio a cui il pianeta è stato sottoposto all’incirca negli ultimi cinque secoli. Un pensiero ecologico di matrice marxista ci dice allora che non esistono soluzioni alla crisi ecologica senza che si siano instaurate delle relazioni sociali, ma anche socio-ecologiche, giuste e liberate dal dominio.

Che forme di sapere ci possono accompagnare nella riflessione circa questo ambito e circa le contingenti eppure sistemiche interrelazioni tra umano e non-umano? L’approccio di Moore privilegia uno sguardo ampio circa tali processi, nello specifico sui singolari dispositivi che rendono possibile da un lato la creazione del sistema-mondo e dall’altro l’appropriazione del lavoro non pagato di molti attori umani e non umani. Contemporaneamente, l’approccio “dialogante” ci spinge ad aprire l’ecologia-mondo verso campi di interesse sociologico parzialmente nuovi, o comunque dal taglio originale. Pellizzoni suggerisce che il capitalismo nelle sue dinamiche non sia così omogeneo come l’analisi di Moore dà a credere. Si potrebbe ipotizzare che un approccio empiricamente situato che si occupi di studiare la micro-fisica delle dinamiche socio-ecologiche capitaliste possa offrire interessanti visuali sul mondo così come esso si sviluppa nella sua complessa attualità. Se la nostra domanda di ricerca riguarda capire “in che modo le relazioni umane sono configurate all’interno e con la natura nel suo complesso” allora questo può diventare un’importante integrazione ad un approccio storico che guardando al mondo ad ampio spettro è necessariamente meno sensibile alle sue forme “piccole”, devianti, singolari.

Un campo di potenziale interesse in questo senso è la vita quotidiana. Essa è potenzialmente già-sempre implicata nella World Ecology e in molti dei suoi riferimenti, in particolare nella riflessione femminista ed ecofemminista. Si tratta di uno spazio ambiguo, indefinito, eppure centrale alla vita di per sé – apparentemente privato eppure politico, politico in un modo singolarmente profondo. Attraverso di esso gettiamo uno sguardo sui micro-processi eco-sociali di produzione e riproduzione nelle loro concrete dinamiche. Assistiamo a come i dispositivi capitalistici di messa a valore e appropriazione della biosfera vengono agiti, vissuti, ripetuti e così prendono consistenza attraverso la formazione di soggettività, pratiche, discorsi, abitudini, desideri: uno svolgersi apparentemente banale e tuttavia così profondamente in-formato dalle categorie e dai processi di dominio che qui trovano la propria concretizzazione e costante riproposizione. Se ciò fa del quotidiano un ambito “ripetitivo”, “lento”, quasi fuori dalla Storia, la sua componente concretamente vitale lo rende creativo e perciò irriducibile agli stessi processi che gli danno forma.

Se guardiamo alla vita quotidiana in modo aperto e pronto a coglierne le singolarità, siamo spinti innanzitutto a mettere alla prova gli impianti teorici con cui interpretiamo il mondo. Moore ci suggerisce che uno dei modi in cui si riproducono il sistema capitalista e quindi la crisi ecologica è che la gran parte delle persone accetta le dicotomie attraverso cui esso categorizza e quindi sottomette il mondo stesso. Lo studio empirico della vita quotidiana aiuta a chiarire la portata e la verità di questo assunto: in che modo, in che senso il vivere quotidiano è caratterizzato dall’esperienza vissuta di tale dicotomia? La “natura sociale astratta” si concretizza in una scissione e gerarchizzazione dell’agire pratico – per esempio il pensare e il fare, il lavoro intellettuale e manuale, produttivo e riproduttivo? Che tipo di lavoro è valorizzato, quale viene de-valorizzato? L’interrelazione o “doppia internalità” dell’umano e del non umano implicano che non si dia sfruttamento e distruzione del secondo senza che il primo ne paghi le conseguenze e il quotidiano è uno dei luoghi dove ciò diviene inesorabilmente vero – come nei corpi malati a causa di contaminazioni “ambientali”, più sottilmente nel malessere di essere sottoposti a ritmi e spazi che hanno a che vedere con la valorizzazione ma non con la vita.

Le cause profonde della crisi ecologica odierna si incarnano nei più intimi spazi vitali e studiarle ce ne offre una critica immanente. Ma soprattutto è utile domandarsi, per delle scienze sociali volte all’emancipazione, in che modo la quotidianità produca affetti, pratiche, interpretazioni che sfuggono a questi schemi e inventano qualcosa di singolare. Il quotidiano è uno di quei campi in cui il mondo continuamente dimostra la sua irriducibilità a schemi dati – l’apertura al divenire, la sua necessità di espressione. Ciò soprattutto nel momento in cui la crisi economica e sociale che attraversa il nostro mondo ci pone sempre più fortemente di fronte alla necessità di immaginare modi altri di (soprav)vivere. Questo avviene continuamente, si sperimentano giornalmente modi di essere nel mondo che trascendono categorie date: scintille di novità, aperture su piccole ecologie e comunità (umane e non umane) il cui funzionamento sfugge ai dispositivi di dominio capitalista sul pianeta – per quanto in modo parziale, embrionale o contraddittorio. Compito di un pensiero ecologico rivoluzionario è allora anche quello di captarne il portato, le radici comuni, le possibilità di radicalizzazione.

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