Federica Timeto recensisce il libro “Il Virus e la Specie” di Massimo Filippi, di recente uscita per Mimesis Edizioni (2020).

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Nella seconda metà degli anni Ottanta, Paula Treichler discuteva della costruzione ideologica del virus dell’HIV e richiamava l’attenzione sulla necessità di una epidemiologia della significazione. Parlare del testo sociale delle malattie non significa ovviamente dire che le malattie sono metafore, ma avere consapevolezza dell’esercizio e dell’efficacia delle metafore per eventualmente liberarsene (così Sontag). Nel testo sociale della pandemia del Covid-19 a essere ambiguamente centrale è il concetto di specie, scrive Massimo Filippi ne Il Virus e la specie (Mimesis 2020): non un instant-book sulla pandemia, ma un libro che raccoglie una serie di riflessioni di lungo corso sul concetto di specie, e le rivede alla luce della situazione attuale. In un periodo in cui si discute così tanto di spazio aperto/chiuso, accessibile/precluso in relazione al contagio, l’ideologia della specie, scrive Filippi, è depotenziata e rafforzata allo stesso tempo.

La vita è messa a nudo nella sua vulnerabilità da un virus che non distingue fra umani (altra cosa è la “vita vestita”, dove invece le incidenze di classe, genere, etnia incidono sulle possibilità di contrarre il virus) ma neppure fra umani e nonumani, dato che il Covid-19 è una zoonosi1 e passa da una specie all’altra smascherandone scambi e collegamenti. Attraversando le specie, il virus contagia ma allo stesso tempo rende manifesto il contagio come condizione della vita tutta, incontro di relazioni che continuamente differenziano piuttosto che somma di differenze che già esistono.

Quando la specie (dal latino specere, guardare) appare, è definita una separazione essenziale tra gli spazi del soggetto e dell’oggetto che dispone le pratiche di appropriazione/esclusione dell’altro. Gli animali nonumani (e gli umani animalizzati) hanno luogo di fronte allo sguardo che li separa in griglie di segni (tassonomie, bestiari, archivi) e non solo (zoo, istituti, allevamenti alcuni esempi). Il presupposto è che sia solo il soggetto umano a possedere ed esercitare il privilegio di definire. Una ricerca del contenimento che si estende anche alla quasi-vita senza specie di un parassita obbligato, che non può essere né osservato né rinchiuso in sé, ma che un acronimo scientifico e sofisticate tecniche di rendering – di cui anche il pattern decorativo sulla copertina di questo libro è un esempio – cercano tuttavia di cristallizzare in forma.

Solo chi ha già un volto può coprire/scoprire il volto. Gli animali che oggi vediamo apparire improvvisamente sono epifanie funzionali allo sguardo e alle pratiche dell’umano, che dà e toglie loro visibilità selettivamente, come fa con la loro vita (vedi l’“abbattimento selettivo” dei cinghiali laziali). Umani e nonumani sembrano contendersi il mondo. Se ci siamo “noi” non ci sono gli animali, se ci sono gli animali non ci siamo noi. Questa dinamica escludente, però, preclude la relazione e non ristabilisce le relazionalità recise (uno dei punti deboli, per esempio, della definizione di Antropocene). Sia l’umano normale, quello che “resta a casa”, sia l’animale eccezionale, quello che “attraversa la strada”, arginano i movimenti di tutti gli altri corpi nonumani, non normati, marginali, serializzati (gli animali “da reddito” così come i lavoratori dell’industria della lavorazione della carne, uno dei settori più colpiti da questa pandemia), che non lasciamo arrivare.

Specificando il mondo, lo priviamo della capacità di agire dunque significare (e viceversa). Ma la lingua del mondo brulica, sussurra, e adesso evidentemente anche grida, cosa che renderebbe quantomai urgente pensare e agire “la resistenza dell’informe” come compito politico, scrive Filippi. Anche se noi lo abbiamo letto nei testi di filosofia e biologia, il divenire è stato sempre molecolare e mutaforme. Basta vedere i residui vestigiali nei fenotipi di altre specie, o gli organismi e il materiale genetico alieno (tra cui i virus) nei nostri corpi, che contengono tra l’altro molte più cellule microbiche (cento trilioni) che umane (dieci trilioni). Siamo abitati da estraneità che sono sempre già dentro, che lo vogliamo o meno. Queste considerazioni potrebbero costituire la base di una diversa pratica politica, intra e inter-specifica, scrive Filippi, ma ciò non accade. Perché disanimare il corpo dell’altro è anche il modo più efficace e redditizio per trasformarlo in risorsa.

A fronte di qualche animale che ci commuove, stupisce e incanta, ci sono miliardi di animali che rimangono invisibili, rinchiusi nei sotterranei di quel grattacielo descritto da Horkheimer che Filippi commenta nella prima delle Soglie (brevi capitoli in forma di raccordi). Sono, in fondo, due diverse declinazioni del mostruoso: uno che ci incanta, l’altro che esorcizziamo. Mostri che emanano luce verso mostri che priviamo persino della luce: mostri accecanti e mostri pallidi. Tra questi, i non-morti degli allevamenti intensivi, zombie prima di e per morire, che non vedono mai il sole, ma solo il suo simulacro a led. Nell’alimentarsi reciproco di bio- e necropolitica, il valore può essere estratto da ogni vita, e la vita riprodotta per estrarne valore in una catena di messa al lavoro e sfruttamento ininterrotta2 che, scrive Filippi, soffoca “la potenza istituente dell’inoperosità”: dove inoperoso come contrario di produttivo, però, non è affatto sinonimo di immobile.

Gli umani sovraffollano, si muovono e antropizzano il globo – tutte ragioni che concorrono alla diffusione delle epidemie, calpestando una terra che vogliono inerte, presupposto di ogni estrattivismo. L’ideologia della specie poggia i piedi sul mondo e ne fa terreno di conquista. Il salto di specie dell’HIV, una versione mutata di un virus degli scimpanzé, è iniziato negli anni venti a Kinshasa (Leopoldville fino al 1966, quando l’odierna repubblica democratica del Congo era una colonia belga), ed è legato allo sfruttamento coloniale di quei corpi in quel territorio. La teoria dei germi di Pasteur è stata testata ai Tropici nella divisione degli spazi dei bianchi da quelli degli indigeni (Tsing), e volendo potremmo leggere tutta la storia della colonizzazione in una prospettiva batterica (Hird).

Sia che si adoperi un vocabolario militare come nell’immunologia disciplinare, sia che si faccia riferimento al controllo dei corpi con una tracciatura continua, mobile e indossabile, il corpo resta un campo dove si marcano le differenze strategiche del riconoscimento e misconoscimento dell’altro. Ma la perpetua metastabilità del mondo è sempre stata, non lo osservano né la contengono gli strumenti del controllo. Se fossimo stati capaci di ri-guardarlo, forse saremmo meno stupiti dal suo apparire, oggi. Il mondo è un “trickster con cui dobbiamo imparare a conversare”, ha scritto Haraway. Per questo, forse, piuttosto che dire che siamo tutti sulla stessa barca, metafora ancora coloniale per una deriva, faremmo bene ad ascoltare Latour che facendo eco ad Haraway dice che siamo tutti nello “stesso calderone di streghe […] in questa zona metamorfica [dove] risiedono tutti i trickster, tutti i mutaforma”. Da questa brodaglia si alza il fumo di una nuova prospettiva, per niente chiara né ferma, hauntologica piuttosto che ontologica. Conversando coi fantasmi che escono dalle crepe del presente, incontriamo vite che non sono più e vite che potrebbero diventarlo. Spettri che si aggirano nel presente, senza arrivare ancora.

Note

1 Nonostante le zoonosi continuino a essere definite scientificamente come “malattie infettive degli umani che originano negli animali”, il che presuppone definire gli umani come non animali. E d’altra parte, quando si dice che il 70% circa delle patologie che colpiscono gli umani sono zoonosi, si tratta di percentuali che considerano solo i patogeni che fanno salti di specie nel nostro tempo, ma il fatto che tutti gli altri lo hanno molto probabilmente fatto in epoche passate, anche molto distanti, dovrebbe piuttosto testimoniare la coevoluzione tra umani e gli altri organismi sulla terra, nonché la sostanziale artificiosità delle attuali distinzioni tra zoonosi e non-zoonosi (D. Quammen, Spillover 2012, p. 144).

2 Che, anche quando interrotta, non può che trasformarsi in morte nelle attuali condizione di produzione, come si è visto quando lo stop agli stabilimenti di lavorazione della carne ha comportato e continuerà a comportare la soppressione degli animali destinati alla vendita.

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