“Il precariato deve operare per restringere il campo d’azione dei mercati finanziari. Questo non tramite l’illusione di una loro impossibile riforma, ma tramite la costruzione di un contropotere in grado di eroderne l’efficacia”.

Passati pochi anni da quando si scrissero queste parole che invitavano a “non avere paura del default”, ecco che, tra poche ore, la Grecia verrà chiamata a esprimersi sui termini non negoziabili dell’accordo che le è stato imposto dalle istituzioni dell’Eurozona. Porta con sé, dentro le urne, i pensieri e le speranze di tante e tanti abitanti d’Europa.

Molto abbiamo scritto, in questi mesi, cercando di ricostruire la difficile trattativa tra Eurogruppo e governo greco, sin dagli esordi sottoposto al ricatto di ciò che abbiamo chiamato “il terrorismo della Bce”; abbiamo cercato di ricostruire la verità (parresia) e la crudeltà dell’origine del debito greco e provato a smontarne la retorica imperante, analizzando nei dettagli la sua reale composizione; abbiamo fatto notare che molti punti indicati dalla plutocrazia europea fossero già stati accolti da Tsipras ; abbiamo spiegato, insomma, quali strade Atene abbia provato a percorrere, fino all’ultimo, per evitare la rottura, prospettando una dilazione dei tempi e una possibile chiusura onorevole del patto per entrambe le parti. In tutto questo percorso, la Grecia ha rappresentato un’opzione sinceramente riformista, dal nostro punto di vista forse fin troppo cauta. Eppure, essa è stata respinta e ritenuta “indecente” poiché si permetteva di mettere in discussione i principi di un potere tanto rarefatto quanto aggressivo.

A questo punto, poco resta da aggiungere, in attesa dell’esito di un verdetto dove ci auguriamo che le ragioni del NO prevalgano così da riuscire a imprimere una forma nuova al presente e da consentirci un’ipotesi di futuro.

Questa vicenda ci segnala la necessità di ripensare il nostro rapporto con l’idea stessa di Europa: abbiamo criticato con convinzione i princìpi dell’Europa di Maastricht centrati su una visione strettamente economicista cioè pesantemente condizionati, sin dagli esordi, dalle volontà di operatori economici, grandi imprese, gruppi finanziari, banche, eurocrazie. Tuttavia, abbiamo sempre ritenuto di poter combattere per modificare tale impostazione, insistendo sulla necessità di processi di integrazione prima di tutto politici e sociali che rispondessero a un bisogno diverso d’Europa, fondato su altri interessi, culturali, geopolitici, solidali. Oggi dobbiamo aggiungere: si tratta di una grande utopia? Resta innegabile che, in questo momento, sentiamo più ostile lo spazio europeo nel quale sembrano prevalere le previsioni unilaterali di grandi apparati totalitari, in diretta collisione con i desideri e le necessità delle persone nella vita e nel lavoro. Se analizziamo le modalità con cui è stata condotta la trattativa greca ed è stato vergognosamente “non gestito” il problema dei profughi che fuggono da paesi che la stessa Europa ha contribuito a destabilizzare, non riusciamo a farci illusioni. L’assetto attuale dell’Europa istituzionale pare inesorabilmente in direzione opposta da quella chesolo la nascita di un forte movimento sociale paneuropeo potrebbe imprimere..

Questa, prima, abbozzata, riflessione ci porta a chiederci, in modo altrettanto preoccupato, quale sia il ruolo della democrazia europea contemporanea, ovvero il ruolo dei governi e dei parlamenti dei paesi che ne compongono il corpo politico – parlamento europeo incluso. Il dominio diretto del potere economico e finanziario sui processi della decisione politica e sulle ragioni dell’etica si esprime senza più neppure la discrezione della copertura di un velo. Un governo legittimamente eletto come quello di Atene, che si muove sulla base di un preciso mandato, viene bloccato da istituzioni sovranazionali (La Troika) che sono diretta espressione del potere dei mercati finanziari.

Tutto ciò getta una luce inquietante sui meccanismi della rappresentanza, sul luogo e sul senso della decisione. Tutti elementi che potrebbero condurci a confermare lo svuotamento e il senso d’impotenza della politica di fronte a ciò che qualcuno ha definito un divenire mondo del capitale: una nuova articolazione del potere capitalista di cui lo Stato diventa del tutto esplicitamente una delle componenti. Il nostrano Matteo Renzi incarna in modo perfetto tale crisi della politica, accettando di rivestire la funzione del devoto e fedele paladino di riforme neoliberiste che generano la normalizzazione dell’esclusione. Ma, d’altro lato, non può essere disconosciuto che, appunto, la Grecia stia provando a modificare la tendenza, che la Spagna si muove… Tentativi, forse fragili e destinati a cadere, significativi, però, di una possibilità a cui non si può smettere di guardare, in particolare se saranno in grado di attivare una mobilitazione sociale diffusa.

Evidentemente, questo sistema si fonda su un’ineguaglianza che ha nei processi di precarizzazione, sicurizzazione e di debito i propri architravi. Tecniche basate sulla sorveglianza, la sanzione, il controllo, la gestione differenziale. Nonché sulla subordinazione dello strumento monetario, agito da un potere sovranazionale non democraticamente eletto (Bce) che soggiace alla logica della valorizzazione capitalistica: anche da questo punto di vista, la Grecia si è posta come una deviazione inedita, da estirpare prima che si creassero forme di “contagio” .

Né possiamo dimenticare il peso del sistema mediatico che, in questi mesi di trattativa Grecia-Troika, si è dato da fare per distribuire a piene mani falsità, panico, giudizi affrettati, faziosi, orientati. Non è più il caso di appellarsi alla libertà di informazione, va osservato come la governamentalità neoliberale che impone lo “Stato minimo” abbia di converso necessità di incatenare in modo massiccio la società attraverso la diffusione dell’obbligo al consenso. Da qui la mancanza di trasparenza dell’informazione, tradotta in pura cinghia di trasmissione del potere – e suggestioni derivano dalle più classiche teorizzazioni sul ruolo della comunicazione nelle società distopiche.

Per queste ragioni il referendum che si terrà domenica in Grecia può essere considerato anche uno specchio del funzionamento dei meccanismi disciplinari di governance dell’opinione pubblica.
Per tornare al punto da cui siamo partiti, il più importante di questi dispositivi è la paura. È il meccanismo più moderno, quello che, negli ultimi anni, ha sostituito i sistemi disciplinari diretti. Stiamo parlando di processi indiretti che inducono, in modo “formalmente” autonomo, il cambiamento dei comportamenti nei soggetti. Stiamo parlando, quindi, di come il ricatto venga introiettato. Il caso greco è un ottimo esempio della costruzione di forme di ricatto crescente, costruite ad hoc, sulla base di assiomi che vengono presentati non solo come imprescindibili ma anche come neutrali e oggettivi.
Per alimentare la paura si afferma che un eventuale vittoria del No porterebbe alla crisi totale della liquidità greca, con conseguenze immediate per la popolazione greca che potrebbe non disporre di contanti per la spesa corrente quotidiana.

Non solo: il conseguente fallimento delle banche porterebbe alla perdita dei depositi in conto correnti con effetti pesanti sulla già precaria condizione economica dei greci. La paura generata da tale ricatto (“se voti NO perderai tutto”) è stata già anticipata nelle settimane scorse quando la fuga dei capitali dalla Grecia ha assunto proporzioni rilevanti, tali da indurre il governo greco a chiudere le banche e a limitare il prelievo di contante (60 euro al giorno, cifra non proprio esigua, visto che si tratta comunque di 1.800 euro in un mese), di fatto impedendo lo spostamento di moneta dai conti nazionali a quelli esteri. Una misura che va a colpire i ceti più ricchi della società greca, ovvero quelli che più sono ancillari alle politiche di austerity della Troika. La chiusura della banche, tuttavia, ha funzionato anche come volano di questa paura.

Una seconda forma di ricatto consiste nel presentare questo referendum come una scelta tra Euro e Dracma o, peggio ancora, tra Europa e fuori Europa. Presentare il referendum greco in questo modo è funzionale ad alzare la posta in gioco, ad aumentare a confusione e lo sbilanciamento tra una scelta che, per quanto dolorosa, sembra garantire maggior stabilità (rimanere nell’Eurozona e in Europa, votando SI) oppure buttarsi su una strada ignota e isolata (votando NO).

Non sappiamo come finirà e ciò che ci auguriamo lo abbiamo già scritto. Troviamo piuttosto suggestivo – e probabilmente è già stato detto – che sia proprio la Grecia, questo piccolo paese, a cercare di innescare tale storico tentativo di ribellione democratica. Alexis Tsipras lo ha detto, nel suo discorso ai greci e alle greche: “Vi chiedo di accettare la strada di una soluzione sostenibile, di aprire una brillante pagina di democrazia nella speranza di un accordo migliore”.

Questa strada è in grado di rovesciare i termini della paura. Infatti, è proprio vero che una vittoria del NO costringerebbe la Grecia a uscire dall’Euro e quindi a perdere la sua battaglia (con lo strascico di annichilire altri tentativi di lotta all’austerity, vedi Spagna)? È proprio vero che una vittoria del NO porterebbe all’esclusione della Grecia dall’Europa favorendone il ritorno verso un corporativismo nazionalistico di stampo novecentesco?

O non è forse vero il contrario?

Partiamo da alcuni dati di fatto. Nessun organismo tecnocratico dell’Eurozona può chiedere (e ottenere) l’espulsione di un altro paese, senza il suo consenso. Questo la Grecia lo sa e per ciò ribadisce continuamente la sua volontà di restare all’interno dell’Europa. Ma lo sa anche la Troika che teme, nel caso della vittoria del No, che la Grecia possa aumentare il proprio potere contrattuale: “Non ti posso eliminare e quindi, ob torto collo, devo fare i conti con la tua esistenza, pena il rischio di una situazione di forte instabilità”.

In secondo luogo: la Grecia non ha pagato la rata di interessi sul debito al Fmi di 1,6 miliardi di euro. Che è successo? Nulla. Neanche le oligarchie finanziarie che manovrano gli indici di borsa hanno reagito scompostamente. Dopo il primo momento di calo (del tutto atteso e favorito da una facile speculazione al ribasso pronti contro temine), i mercati finanziari sono risaliti. Lo spauracchio di uno tsunami di fronte all’esercizio del diritto all’insolvenza della Grecia nei confronti del Fmi non si è avverato. Occorre prenderne atto.

In terzo luogo, anche nel caso di una forte crisi di liquidità, è possibile ricorrere a fonti alternative, che ne possono compensare gli effetti. Non facciamo riferimento solo allo sviluppo di nuove fonti interne di liquidità basate su forme alternative di monete (già in fase di sperimentazione) ma anche alla possibilità di ricorrere a fonti esterne di liquidità. Nel luglio scorso è stata fondata l’alter ego della Banca Mondiale gestito dai paesi Brics, una sorta di nuova Banca Internazionali degli investimenti, finanziata con il surplus delle bilance commerciali. È vero che oggi la situazione dei Brics non è delle migliori, tra la Russia – strangolata dal calo del prezzo dei prodotti energetici, dalle sanzioni Europee, che hanno portato alla forte svalutazione del rublo e al calo del Pil – e la Cina, che si trova alle prese con difficoltà finanziarie (la borsa di Shangai ha perso più del 30% negli ultimi mesi) e a una crescita inferiore alle attese. Ma la forte preoccupazione Usa (impegnati nella firma del Ttip) sta lì, a dimostrarlo.

In questo contesto, la vittoria del NO in Grecia potrebbe diventare un potente antidoto alla crisi europea prodotta dalle politiche di austerity e dalla dittatura criminale della plutocrazia europea. Per un semplice motivo: che se vince il NO sono loro che cominceranno ad aver paura.

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