Pubblichiamo di seguito l’introduzione al volume L’insorto del corpo. Il tono, l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud, oggi in uscita nelle librerie per i tipi di Ombre corte. 

 

Qui suis-je?

D’où je viens?

Je suis Antonin Artaud

et que je le dise

comme je sais le dire

immédiatement

vous verrez mon corps actuel

voler en éclats

et se ramasser

sous dix mille aspects

notoires

un corps neuf

où vous ne pourrez

plus jamais

m’oublier.

Il furore Antonin Artaud è un assalto selvaggio (e, al contempo, lucidissimo) verso qualsiasi pratica espressiva, nel desiderio di ripensare in blocco i processi creativi e comunicativi. Nel tempo gli saranno necessari: il peyotl, Lewis Carroll, la catastrofe dell’io, il “bardo-poeta” che si sostituisce a dio, l’intero annichilimento dell’universo, la percezione del divenire, la lotta contro la forma più dura del giudizio, quella psichiatrica, lo sviluppo del sistema della crudeltà, scontri fra potenze, conflittualità continua. Tutto per mirare alla Nouvelle révélation de l’Être[1]. Non appagamento dell’essere, ma rivolta. Come si evince dalla lettura del saggio di Nicolas Martino, parlare di Artaud non può che essere un atto radicalmente politico, una rivolta costante. Non è un caso che fin da subito richiama e intreccia con Artaud il movimento del ‘77 e il ruolo che ha avuto Alice di Lewis Carroll in quel momento, la creazione di un linguaggio minore capace di scardinarne le identità e i confini, la lotta contro i ruoli direttivi e rappresentativi, la messa in discussione della rappresentanza e della rappresentazione, il tentativo di Hobbes di ridurre la differenza all’uno, per poterla governare, la domanda “Chi sono io?”- ripetuta più volte da Artaud – che mette in evidenza sia un certo dispositivo di controllo – i manicomi – sia la necessità di normalizzare ciò che non è normato, nominando nuove patologie: la schizofrenia. E come liberare il corpo dagli automatismi, dagli organi – i nemici del corpo – tramite i quali dio ci organizza e restituirlo alla sua vera libertà? Facendoci Corpi senza Organi.

Fondamentale diventa allora mostrare il forte legame tra Artaud e Carmelo Bene, schierati per il divenire e contro la Storia. Chiude così Nicolas: Sulla superficie dell’essere, con Antonin Artaud e Carmelo Bene, non c’è più nulla da rappresentare e nessuno più che rappresenti.  Artaud è spasmodica ricerca delirante e pienissima che ci porta in un deserto dove la sete di sangue ci brucia, tra il baratro e il nulla. La sua scrittura genesiaca è continua riflessione sugli statuti della rappresentazione, il suo linguaggio fatto di parole-soffio, poesia, teatro e peste assieme. Così André Breton ricorda il giovane Antonin nella commemorazione funebre: “Era da poco che Antonin Artaud si era unito a noi, ma nessuno più spontaneamente di lui aveva messo al servizio della causa surrealista tutti i propri mezzi, e questi mezzi erano grandi (…). Forse era in conflitto con la vita assai più di tutti noi. Molto bello, come era allora, quando si spostava, portava con sé un paesaggio da romanzo nero, tutto trafitto da lampi. Era posseduto da una specie di furore che non risparmiava, per così dire, nessuna delle istituzioni umane, ma che poteva talora risolversi in una risata in cui passava tutta la sfida della giovinezza”. Un furore che lo spingerà verso il cinema, il teatro, le arti, la radiofonia, la filosofia, il pensiero, l’ateismo, la bellezza, il dolore, la solitudine, l’allegoria, la follia… cardini che vogliamo sempre ritrovare negli slanci creativi (e teorici) del nostro tempo presente e nello straziante destino di chi ha voluto ripensare il mondo, ingaggiando una dura battaglia contro il capitalismo, i manicomi, la borghesia, il linguaggio, la famiglia.

Una sezione del libro pubblica i due fondamentali contributi di Camille Dumoulié, studioso raffinato e interprete unico dell’evento Artaud. I due saggi inediti per l’Italia – di cui uno Artaud, la peste in lingua francese e il secondo Trop longtemps… per la prima volta in traduzione italiana – hanno il merito di ricostruire in un corpo a corpo serrato con la lingua e la scrittura artaudiane le possibilità di vita: attorno a quella di Artaud – così attesa, strappata alla disperazione e alle organizzazioni della rappresentazione – si snoda la vita dei testi stessi in produzione continua di “concatenamenti collettivi d’enunciazione”. Dumoulié sottolinea con rigore i limiti mortiferi della critica intesa come interpretazione – lo stesso intento, in fondo, di Pour en finir avec le jugement de dieu, spezzare il linguaggio per raggiungere la vita” – e declina il ritornello del CsO – corpo senza organi del testo – in quanto anti-produzione nevrotica (Alliez), ripetizione di forze, dispositivo di violenza anti-identitaria. In tal senso il corpo senza organi viene replicato con il suo potenziale eversivo nei corpi all’opera artaudiani, nelle parole nuove di una lingua che si fa carne nel bel mezzo del testo e con il testo come altrettante armi contro l’avvelenamento denunciato come identico al sistema stesso. Il tema costante della sua produzione è il corpo, un corpo-senza-organi pour en finir avec le jugement de dieu, per fuggire dal corpo-organizzato.

Nel saggio di Claudio Kulesko, Artaud, la peste è l’informe del titolo, endemico rivoltarsi contro lo stesso corpo senza organi in quanto concetto limite. Le opere e la vita di Artaud sono allora in dialogo con il desiderio di esercitare la vita – il desiderio dell’inerzia come dimenticanza del corpo stesso – come estrema possibilità di pensiero. Una dimensione di corpo che ha a che fare con il teatro balinese e che nel tempo sarà dentro le pieghe composite di artisti dell’avanguardia che uniscono alle fatali pratiche della contemporaneità il pensiero carnale di Artaud come grandiosa (e sempre attuale, immanente) matrice di riferimento: a cominciare dal Living Theatre e poi le performance di Mauro dal Fior e Laura Facci, il teatro tra body art e sperimentazione video della Societas Raffaello Sanzio, i video militanti di Giacomo Verde, i video di Kazou Ohno e ancora Lydia Lunch, Psychic TV, gli Ultrash, La fura del Baus e tantissimi altri sperimentatori che gravitano nell’ambito della creatività visiva più avanzata che in diverse occasioni hanno lavorato e lavorano (attraverso opere, citazioni, riferimenti, scritture, rimandi) nel segno di un autore potente e solitario il cui nome – Antonin Artaud! – va pronunciato a voce alta.

Sul tema del teatro lavorano Vincenzo Del Gaudio, Valentina Mascia e Daniela Liguori. Mentre il cinema è il discorso di Mario Tirino.

Vocalizzare Artaud significa salvare ciò che il buon senso borghese vorrebbe, ora come allora, occultare: il suono, il grido, i segni di un rancore che esplode, contro tutto ciò che puzza di merda e di dio. […] La fonazione è, qui, un atto di sovversione e di rivolta, ed è la croce cristiana, scrive Artaud, il simbolo abietto che bisogna rovesciare.[2]

Il buon senso borghese è quello del giudizio verso cui contraiamo un debito infinito proprio perché nomina e dà senso ad ogni cosa, anche al vuoto, al nulla.. è quello della condanna che fa nascere sensi di colpa assassini (come successo a Van Gogh), contro cui dobbiamo lottare, infliggendo colpi sonori e fisici, cercando di forsennare  violentementeil soggettile fino a eliminarlo una volta per tutte. Scrive Ianus Pravo: Tagliuzzare, incidere, spellare, separare, bucare, infilzare, scanalare, spolpare, disossare, estrarre, sfilettare, trinciare, macerare, inchiodare, schiacciare, pestare, scottare, sbiancare, affogare, fiammeggiare, gelare, ungere, asciugare, ammorbidire… in tutto ciò non vi è Madre, non vi è corpo-limite, ma carne e intensità.

Ed è proprio per compiere fino in fondo quest’atto di sovversione e rivolta che riteniamo fondamentale riprendere Deleuze, Guattari, Derrida, Bene, per i quali Artaud – cioè la sua stessa opera vivisezionata – si è rivelato immensa fonte di composizioni gioiose e crudeli. Tramite loro, ma non solo, vogliamo far ballare i corpi come i Tarahumara fino a disorganizzarli, indagare il rapporto tra il CsO e il desiderio, lottare contro la cultura e il dogma, riscoprire le vibrazioni intensive e i campi di forza che esplodevano in noi quando da bambini balbettavamo suoni universali e comprensibili a tutti, chiederci che cosa sono la “follia” e la “normalità”, annientare l’ego e l’assoggettamento, abolire le périple papa-maman-enfant nel quale si ficca l’atto del generare,lanciare flussi, smetterla con il simbolico e il biologico, con quelle combinazioni di organi che formano gli organismi fascisti, sperimentare le possibili ricadute politiche, etiche, estetiche di tutto questo. Proviamo a farlo, come nella lettera di Libera Aiello, senza perdere l’anarchia del riso, travolgendo ombre e limiti.

Quello che vogliamo non è portare a termine il solito trito e ritrito lavoro di religiosa testimonianza, atta a rendere Artaud un po’ più vicino ai canoni borghesi, né tantomeno seguire le orme di chi non vede l’ora di rivelare qualche scoop esclusivo, magari smentendone altri. Non siamo portatori di verità assolute pronti a scannarci con altri fantomatici ereditieri. Non ci interessa blaterare sulla sua morte, sulla sua salute o sulla sua “artisticità”. Intendiamo invece, con tanta umiltà, tracciare una cartografia che ne attraversi gli scritti, le creazioni, le sofferenze, gli oblii, le sonorità, e che si interroghi sull’oggi per lanciare nuove urla, disarticolazioni, pesti e passioni contro il contemporaneo, contro la grande macchina occidentale, verso l’utopia radicale di un futuro diverso.

 

Note

[1] Vasta la bibliografia italiana su Artaud e la sua opera (eppure, nonostante la grande attenzione verso il poeta marsigliese, i lavori artaudiani sono tuttora parzialmente tradotti in italiano rispetto ai XXVI tomi delle sue Œuvres complètes, edite da Gallimard).

[2] A. Artaud, Per farla finita con il giudizio di dio, pag.7, a cura e trad. di Marco Dotti, Stampa Alternativa, Roma, 2000.

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