Effimera ha recentemente dedicato alle vicende di Carola Rakete e Francesca Peirotti un contributo da parte di alcun* compagn* di quest’ultima, nelle lotte sulla frontiera tra Ventimiglia e Calais. Cristina Morini continua e apre la riflessione sulle migrazioni, la capacità di accogliere, il sentimento della resistenza e della lotta.

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Carola Rackete si è trasformata in una testimone particolarmente suggestiva del rapporto tra la soggettività contemporanea e la dimensione pubblica, collettiva. Questo tema rappresenta senza dubbio uno dei principali snodi da affrontare nel presente. Che giorni ricorderemo di queste nostre precarie vite? Che forma e che significato provare a dare loro? Come affrontare le tensioni esistenti tra le solitudini tecnologiche, rancorose ed egoiste, dell’individuo contemporaneo, trasformato dalle fatiche dell’imprenditoria personale, e la materia viva del pianeta che, altrettanto ferita dall’uso capitalista, urla e ci scatena addosso tutta la sua violenza?

Sempre più precisamente, mentre il soggetto viene scavato fin nelle profonde intimità dell’essere dai meccanismi addirittura predittivi del desiderio alienato e tradotto in merce, mentre la vita e il vivente diventano baricentro della produttività e dei processi di creazione del valore, si avverte il bisogno di farsi interpreti, con parole e gesti, di una rottura rispetto alla libertà coatta, spacciata per benessere, dai regimi contemporanei. Il disagio (la malattia che ci costringe a inghiottire ansiolitici per reggere performance e solitudini) percepito dal soggetto è il disagio di chi fortemente sente di essere implicato per intero in processi di espropriazione che fanno dei corpi-mente “una strategia di accumulazione”[1].

Carola Rackete, tra le altre, ha saputo mostrare che da tale silenziosa (e in fondo odiata) complicità ci si discosta con atti di coraggio che rispondano a una spinta alternativa al cattivo sociale che pretende di ottundere la capacità di vedere e di combattere l’ingiustizia e la violenza, laddove il più povero è indicato, dalle stesse politiche, come colpevole della generazione delle nostre fragilità. Si tratta perciò di sottolineare, con ogni mezzo possibile, pratiche di resistenza e di condivisione che consentano di essere “meno concentrati sul sé come mondo e più concentrati sul mondo come sé”[2].

A partire da qui, nel testo prezioso “Carola e Francesca nel mare in tempesta, recentemente pubblicato su Effimera e firmato collettivamente da alcun* compagn* di Francesca che hanno partecipato alle lotte sulla frontiera tra Ventimiglia e Calais, si sottolinea giustamente la necessità, per i migranti, di essere direttamente protagonisti del proprio destino e della propria lotta. Nel raccontare la storia di Francesca, condannata dalla Corte di appello di Aix en Provence, in Francia, a sei mesi di carcere e cinque anni di interdizione dal dipartimento delle Alpi Marittime, per essere stata fermata alla guida di un furgone con a bordo otto persone senza documenti, si rimarca il rischio che i gesti di queste donne bianche siano funzionali solo alla loro “mediatizzazione”, tra l’altro con effetti paradossalmente opposti.

In tale ricostruzione, molto opportuna per le ragioni cui accennavo sopra, scorgo tuttavia un problema: che l’occidente e le sue genti finiscano per non assumersi fino in fondo responsabilità che li riguardano, operando in prima persona per contrastare politiche che affondano fino nelle radici coloniali della storia bianca. I disastri generati dalla rapina del vivente operata da bianchi, hanno reso molti paesi africani luoghi invivibili, tra guerre, saccheggio economico di ricchezze naturali, carenza d’acqua, fame, nera povertà. La scrittrice somala Kaha Mohamed Aden ha sempre dichiarato di non amare la parola migranti: essa è metafora di un moto perpetuo, condanna al continuo spostarsi, senza sosta: come tutte e tutti, chi si mette in viaggio per fuggire a tali e tanti orrori vuole fermarsi per poter dar corso a un progetto esistenziale stabile[3]. Inoltre, i confini dietro i quali la cattiva coscienza dell’occidente si barrica, si contrappongono al passaggio di chi fugge dalle tante tragedie generate proprio dall’uomo bianco, ma ha diritto di rispondere al richiamo del semplice desiderio di andare dove si preferisce andare. Diritto reso unilateralmente illegittimo.

Ho scritto uomo bianco e allora è necessario un secondo passaggio. Se da un lato sono, a mio avviso, imprescindibili forme di testimonianza nel presente, che siano concrete e visibili – ebbene sì, anche mediatizzabili se ciò consente di creare risonanza – da parte delle e degli abitanti dei paesi (cosiddetti) ricchi, dall’altro credo che le donne (mi si perdonerà la generalizzazione), come già è stato notato, siano più facilmente capaci di farsi oggi interpreti di gesti significativi poiché hanno diretta esperienza del dominio. Sono consapevoli che il “razzismo di stato” ha effetti precisi sulle strategie procreative e sessuali, per stare a Foucault. I movimenti contemporanei delle donne, avvertono, con l’anima-carne di Tiziana Villani[4], l’urgenza di riprendersi la vita, con un pensiero alla comunità, intesa come concretezza affettiva e primaria, “da contrapporre ai meccanismi economici ormai disciolti nell’individuale”[5]. Penso a Carola, Francesca a tutte le altre come a incarnazioninecessarie, dunque, “vicine al corpo e non all’incorporamento”[6].

Nel Manifesto delle Redstoking, redatto nel 1967 a New York, si legge: “La supremazia maschile è la più antica e basilare forma di dominazione. Tutte le altre forme di sfruttamento e oppressione (razzismo, capitalismo, ecc.) sono estensioni della supremazia maschile: gli uomini dominano le donne, pochi uomini dominano il resto”. Mi pare dunque che, a partire da queste suggestioni, scelte tra le tante possibili che il femminismo ci ha regalato nel corso dei decenni, il corpo politico del migrante e il corpo politico della donna e del soggetto queer possano liberare un’alleanza strategica: questi corpi sono davvero i nuovi campi di battaglia. Sono soggetti determinanti nella costruzione di un universo simbolico alternativoche può nascere dalla prospettiva minoritaria, proprio da un effetto “straniamento”, da un “uscire fuori da campo visivo consono”, consapevoli come siamo, con Monique Wittig (nella recente bella traduzione di Federico Zappino), che “purtroppo per noi, l’ordine simbolico partecipa della stessa realtà dell’ordine politico ed economico. Tra di loro c’è un continuum – un continuum in grado di imporre l’astrazione sulla materialità e di modellare il corpo e la mente di coloro che opprime”[7].

Per queste stesse ragioni ho ritenuto e continuo a ritenere che Antigone sia un archetipo particolarmente suggestivo cui fare riferimento, bene incarnato da Carola Rackete e dalle altre. In questi tempi di svuotamento di relazioni ed emozioni per trarne profitti, quale sapere-potere ha Carola-Antigone? Con le parole di Angela Putino, che richiama il coro delle donne della tragedia, essa ha “ciò che è invincibile in battaglia”, vale a dire eros: “Antigone incalza perché non si cancellino tracce, non si disperdano corpi e storie anche dove sono schiacciati da sventure e sconfitte, e arroganza dei vincitori. Ancora una volta pretende di amare ciò che è eliminato, che deve essere cancellato e assimilato e che già non esiste”[8].

È una positività quella che afferma Antigone, la stessa positività, la stessa spinta alla riconquista della vita e dell’eros e del riconoscersi parte della comunità vivente con compassione, che viene affermata dalle nostre capitane, guidando furgoni, dirigendo navi nei porti, aiutando chi ne ha bisogno a valicare le montagne attraverso i sentieri, come fanno le attiviste e gli attivisti piemontesi dellarete Briser les frontières.

Questi esempi vanno ricordati, diffusi, esaltati. Approfittando anche degli onnivori media, certo, qualora possibile. Ma soprattutto traendone un insegnamento alla responsabilità sociale, ad agire nel proprio nome, contro gli orrori del presente. Queste donne, dall’antichità al presente, ci indicano che va affrontato il rovesciamento delle norme, “pensandosi nella concretezza del singolo” che è meno riconducibile “alla astrattezza del logos”, ma tuttavia combattendo per riaffermare un “pensare e sentire collettivo, non per affogare in esso, ma per respirare in esso” che, come spiega in un passaggio illuminante Rossana Rossanda, “non è assenza della dimensione della persona, ma suo estremo affermarsi”[9].

Questa partecipazione non addomesticata alla codificazione della legge che, dentro il corpo della società, punta a fare retrocedere il potere sul vivente, può preservarci dal disamore cui sembra volerci condannare lo scontro singolare implicito nelle vite precarie. Dal vuoto triste conseguente alla diserotizzazione dello spazio pubblico si esce spingendo la vita verso un impensato[10], tutto da inventare. Si esce con la consapevolezza che “non c’è lotta senza amore”[11]: “Altre Antigoni affioreranno, nel tempo, in immagini di fanciulle sottili”[12]. Così è stato, infatti, così ancora sarà.

 

Note

[1]David Harvey, Il corpo come strategia dell’accumulazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 1997

[2]Stefano Dal Bianco, Distratti dal silenzio. Diario di poesia contemporanea, Quodlibet, Macerata 2019

[3]Kaha Mohamed Aden, Fra-intendimenti, Nottetempo, Milano 2010

[4]Tiziana Villani, Corpi mutanti. Tecnologie della selezione umana e del vivente, Manifestolibri, Roma 2019

[5]Angela Putino, Corpi di mezzo. Biopolitica, differenza sessuale e governo della specie, Ombre Corte, Verona 2011, pag. 127

[6]Ivi, pag. 131

[7]Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, Ombre Corte, Verona 2019, pagg. 78-79

[8]Angela Putino, Corpi di mezzo, cit., pag. 147

[9]Rossana Rossanda, Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987, pag. 10

[10]Michel Foucault,Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967

[11]Cristina Morini, “Se non c’è lotta non c’è amore. Utopia del corpo, elogio del conflitto”, in Ilaria Bussoni e Nicolas Martino (a cura di), Èsolo l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68, Ombre Corte, Verona 2018

[12]Angela Putino, Corpi di mezzo, cit., pag. 148

 

Immagine di copertina: Giorgio de Chirico, “Antigone Consolatrice”, 1973

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