Il 2 marzo se n’è andato Marcello De Cecco, economista e commentatore economico (era columnist de La Repubblica). Autore di molti saggi e libri, caratterizzati da un’estrema lucidità e chiarezza, studioso assolutamente non dogmatico, è sempre rimasto fedele a un altissimo senso dell’eguaglianza, sebbene non declinata in termini marxiani. Era anche geniale e diffidente nei confronti dei ragionamenti economici ingabbiati nella logica matematica. Sapeva coniugare in modo unico storia, teoria economica e sensibilità politica. In questo modo forniva (crediamo consapevolmente) strumenti preziosi a tutti e tutte coloro che volevano provare a cambiare le cose, in questo mondo.

Effimera vuole ricordarlo ripubblicando la recensione scritta da Christian Marazzi sul suo ultimo libro, Ma cos’è questa crisi. L’Italia, l’Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013), Donzelli, Roma 2013. La recensione è tratta da Il Manifesto, 7 novembre 2013.

Effetto comune per la ricchezza – di Christian Marazzi

Lo spessore non solo scientifico di un economista si svela nella sua interpretazione dello stato di cose presenti, nella sua attività giornalistica confrontata con eventi politici, economici e finanziari in continuo divenire. In questo esercizio da columnist Marcello De Cecco è il più bravo, superiore addirittura a Paul Krugman che, settimanalmente, dice la sua sul New York Times con lucidità e non poco coraggio. Ma la competenza storica, geopolitica e finanziaria di De Cecco è davvero unica, ed è condensata nel suo Ma cos’è questa crisi (Roma, Donzelli, 2013, pp. 284), dove sono ripubblicati i suoi interventi apparsi su La Repubblica tra il 2007 e il 2013.
“La crisi attuale è squisitamente finanziaria”, ed è una crisi che ha negli Stati Uniti la sua vera variabile indipendente, il motore che determina il comportamento di tutti gli altri. De Cecco è fra i pochi, se non l’unico, ad aver richiamato, nell’analizzare gli inizi della crisi attuale (2007), quel che accadde nel 1907, la “conclusione di un ciclo di sviluppo mondiale altrettanto vorticoso di quello che l’economia mondiale sperimenta da più di un quindicennio (…) Anche un secolo fa, l’epicentro della crisi fu il sistema finanziario americano e l’economia reale degli Stati Uniti fu coinvolta quanto sembra esserlo già ora (col settore immobiliare) e minaccia di diventarlo ancor più nei prossimi mesi”. Questo scrive De Cecco nel suo articolo del 17 settembre 2007 (le date sono importanti), forte del suo lavoro Moneta e impero. Il sistema finanziario dal 1890 al 1914 (Einaudi, 1979), a tutt’oggi l’unico studio esistente di un periodo che vide lo sviluppo di alcuni grandi paesi, come gli Stati Uniti e la Germania, che vennero a sfidare l’egemonia dell’Inghilterra e della Francia, parallelamente all’industrializzazione di un insieme di paesi (che oggi chiameremmo Bric) come il Giappone, l’Italia e la Russia, con lo sfruttamento delle materie prime e lo sviluppo dell’agricoltura d’esportazione. Un periodo, come nel corso dei nostri ultimi vent’anni, in cui il mercato finanziario internazionale conobbe uno sviluppo “vorticoso e disordinato” ma potentissimo, che portò dritti alla crisi del 1907, seguita da una tregua di “keynesismo volgare” (il riarmo come misura anticiclica per contrastare la caduta delle importazioni), l’istituzione della Federal reserve statunitense, e la crescita del populismo e del nazionalismo. E che sfociò nella Prima Guerra mondiale.
Il 21 gennaio 2013 (L’ultima guerra delle monete), De Cecco si esprime sulla attualità della crisi del modello di capitalismo finanziario affermatosi negli ultimi due decenni. Una crisi che vede la Fed e le banche centrali inglese e giapponese impegnate a garantire molto generosamente liquidità ai mercati, ma con la Bce stretta tra le maglie dei suoi stessi Trattati, veri e propri “mostri giuridici”, un Euro il cui valore è completamente lasciato nelle mani dei mercati finanziari, le “bizze di neurotici governatori della Bundesbank”, il cretinismo dell’ordoliberismo tedesco che pone l’austerità come prius della crescita, e Mario Draghi che, da buon americano, cerca in tutti modi e con perseveranza di fare della Bce una banca centrale a tutti gli effetti, cioè di completare la costruzione dell’Euro come moneta unica, ciò che ancora non è, essendo l’Euro una moneta senza Stato.
“Se si affermano ora voci da destra e sinistra insieme, che in importanti paesi europei vogliono ridiscutere tale assetto, corriamo seri rischi per la governance europea, lasciata in balia di populismi di sinistra ma specie di destra”. Di fronte a due posizioni, quella di destra, che auspica la fine dell’Euro e il ritorno alla sovranità monetaria nazionale, e quella di sinistra che, nelle sue migliori (tecnicamente) formulazioni (vedi ad esempio Frédéric Lordon e Jacques Sapir), auspica una riforma monetaria tipo SME con la creazione di un eurobancor, anch’essa nel nome di una riconquistata sovranità democratica nazionale, De Cecco spiazza tutti, indicando nella indipendenza della Bce la chiave di volta per affrontare i prossimi anni e gli enormi rischi che stiamo correndo. “Quanto ho appena affermato sarà letto con incredulità da mi conosce, che mi sa antichissimo nemico dell’indipendenza delle banche centrali dai propri poteri politici”. Nel vuoto costituzionale europeo, nella latitanza politica che, dal Parlamento alla Commissione europea lascia ampi spazi alla Germania della Merkel di perseguire i suoi esclusivi interessi, “Occorre sbrigarsi a vestire tale assetto di un’efficace modalità istituzionale di governance, prima che gli anni di Draghi governatore finiscano e ci ritroviamo in balia di un nulla politico, dal quale potrebbe benissimo non emergere un altro Draghi, per la determinazione di una nuova dirigenza tedesca”.
Il rischio è serissimo, ben presto, già a partire dalle elezioni europee del 2014, la supremazia tedesca nell’Europa monetaria potrebbe essere assai superiore a quella che è stata in questi ultimi anni. È, quella di De Cecco, una scelta “tattica”, certamente benevole nei confronti di Draghi, che pone come prioritaria la questione della costituente sull’unico piano oggi realmente possibile, ossia quello della costruzione concreta della democrazia su scala europea. Una costituente, quella di De Cecco, per così dire monetaria, cioè il passaggio dall’attuale moneta unica a un Euro come moneta comune, una moneta dotata di poteri in ultima istanza (ma già siamo su questa strada, dato che la Bce monetizza alla grande i debiti pubblici dei paesi deboli, in contraddizione con i suoi stessi principi costituzionali), una moneta, soprattutto, comune perché dotata di poteri federalistici volti a garantire, perlomeno con l’unione bancaria e quella fiscale, la costruzione di un’Europa più unita. Cosa che oggi non è, tanto che l’Euro sta deflagrando in tanti euro quanti sono i paesi membri della zona (per tassi d’interesse, d’inflazione, addirittura per la libertà di movimento di capitali), con il populismo di destra e di sinistra che, nel nome di un’idea di democrazia (parlamentare?) tragicamente risibile, non fa che aggravare.
L’invito di De Cecco è da prendere molto sul serio. Così come oggi è, l’Euro è un disastro, vero dispositivo di deriva economica e di sofferenza umana e sociale. La sua spaccatura, in qualsiasi forma la si voglia, sarebbe altrettanto un disastro, perché ci porterebbe diritti al nazionalismo, specie se si tien conto della tendenza in atto su scala mondiale alla deglobalizzazione indotta dal netto calo del commercio mondiale e dalla tentazione protezionistica presente un po’ ovunque. L’opzione Draghi, l’americanizazzione della politica monetaria europea, non può d’altra parte ignorare i suoi forti limiti, che sono quelli di una politica monetaria di fatto a sostegno di un sistema bancario legato a doppio filo al debito sovrano. Una poltica che non induce affatto crescita reale, in cui la disoccupazione e le disuguaglianze aumentano a dismisura, mentre la liquidità iniettata in grandi quantità rimane nei circuiti finanziari, non sgocciola laddove dovrebbe, alimentando inevitabilmente rischi di bolla. I soli, timidi segnali di ripresa, come in Spagna, si spiegano infatti sulla sola base della riduzione drammatica del costo del lavoro e di una povertà dilagante.
Il problema è che il tempo stringe, le forze politiche in gioco a tutti i livelli non sembrano permettere di uscire da questa impasse storica. Una nuova tattica per una nuova strategia è dunque necessaria. Né con la destra sfascista, né con la sinistra sovranista. Questa è la provocazione, non proprio implicita, di De Cecco che va colta pensando non tanto a Draghi, ma alla costruzione di un ciclo di lotte sul terreno della moneta del comune, un sistema monetario che sappia garantire una ridistribuzione del reddito sulla base di diritti assoluti di cittadinanza.
Riusciranno i movimenti sociali, che si sforzano di portare sul piano europeo le istanze della moltitudine europea, a definire una costituente dell’Europa postliberista e nuovi esperimenti istituzionali per la riappropriazione della ricchezza sociale? Come diceva Benjamin, privi di illusione sull’epoca, ma ciononostante un totale pronunciarsi per essa.