Il primo ottobre, il presidente costituzionale dell’Ecuador, Lenin Moreno, ha dichiarato le misure economiche che saranno implementate dal governo per ripagare il debito contratto con il Fondo Monetario Internazionale, e, per mostrare la fermezza delle sue azioni, ha aggiunto che “non ci sono alternative” a tali misure. Un’affermazione che ricorda immediatamente lo slogan della rivoluzione conservatrice angloamericana di Thatcher e Reagan, a cavallo tra i 70 e gli 80: “there is no alternative”. Da quella dichiarazione vintage del “no hay alternativa”, l’Ecuador ha vissuto due settimane di terrore, dittatura, morte. Ma anche due settimane di lotta letteralmente moltitudinaria e interpopolare, nel senso che tutte le rappresentanze delle nazionalità indigene (sono 14 in tutto il piccolo territorio nazionale) hanno raggiunto Quito, la capitale, per allearsi con lavoratori e studenti, e provare a far retrocedere il governo. La risposta popolare è stata enorme, la più grande da più di vent’anni a questa parte, anche perché quello che stava avvenendo, in termini di militarizzazione e di violenza, ricorda perfettamente le ultime dittature vissute dal paese, quelle di Lucio Gutiérrez e di León Febres Cordero.

I poveri e i ricchi

Uno delle migliaia di cartelli della protesta indigena recitava: “Non siamo né di sinistra, né di destra. Veniamo dal basso per lottare contro chi sta in alto”. In questa espressione vi è tutto il senso della lotta – e tutto il senso che le lotte, oggi, dovrebbero avere a livello mondiale quando l’economia e la finanza decidono di portare un paese alla fame: i poveri contro i ricchi, innanzitutto, perché i ricchi e le politiche neoliberali che li rappresentano sono sfacciatamente contro i poveri. Ora, se la prima frase del cartello significa una risposta alle subdole affermazioni del governo, che spalma su tutti i canali di comunicazione il ritornello che le proteste sono manovrate dall’ex presidente Correa e dal presidente venezuelano Maduro (?!?), la seconda frase è emblematica della lotta: gli indigeni, settore povero della popolazione, sono sempre stati sottomessi con la forza, umiliati, ingannati, repressi, sterminati. Sanno di rappresentare metonimicamente lo strato basso del paese, lo stesso strato destinato a subire maggiormente l’effetto delle misure economiche. E sanno che queste misure, elaborate per depauperare ancor più i poveri, sono causate, volute e – saranno – applicate col piombo, col gas lacrimogeno e col sangue dai ricchi. Quegli stessi ricchi che, come Guillermo Lasso (ex banchiere e politico proprietario del Banco de Guayaquil), avevano già causato, nel 1999, la più grande crisi economica del Paese (attraverso la dollarizzazione fatta ad hoc per cancellarsi i debiti e la chiusura forzata dei conti correnti di tutti i cittadini, che ha condotto all’emigrazione massiccia degli ecuadoriani in tutto il mondo).

L’ermeneutica di quel cartello, però, ha bisogno di un elemento in più, attraverso il quale si può apprezzare la precisione del messaggio. L’elemento appartiene alla genealogia della protesta: un anno fa Moreno ha chiesto un prestito al FMI di circa 4,2 miliardi di dollari, che gli aguzzini daranno in tre anni (hanno da poco sganciato la prima tranche da 600 milioni). Questo prestito gli serviva per riparare il buco di 4,5 miliardi lasciato dal regalo che lo stesso presidente ha fatto ad alcuni grandi imprenditori e banchieri, scontandogli vertiginosamente le tasse (imprenditori) e lasciandogli fare qualche mastruzzo nei conti (banchieri). Chiaramente Moreno ha detto che i soldi servivano per riparare il buco lasciato da Correa – ma è palesemente falso, circolano documenti che mostrano in tutta evidenza il mega condono fatto alle grandi famiglie oligarche del paese. Chiariamoci: Correa ha certamente lasciato debiti e problemi, ma ciò non toglie che l’economia ecuadoriana è stata prosciugata dai soliti noti e poi consegnata nelle mani del FMI.E così, in sostanza, Moreno ha trasformato un debito privato, contratto da pochissimi ricchi, in debito pubblico da far pagare a tutti, a tutti i poveri.

L’FMI infatti, come contropartita per il prestito, ha fornito e imposto la ricetta neoliberale che ben conosciamo: taglio del sussidio ai carburanti con conseguente raddoppio dei prezzi, smantellamento parziale del servizio pubblico (scuole, sanità, servizi), riduzione del 20% dei salari statali e dimezzamento delle ferie, taglio di 20 mila posti, chiusura di alcune grandi imprese pubbliche, tra cui quelle legate ai trasporti, all’edilizia, alle comunicazioni, e svendita delle infrastrutture. Tutto ciò provocherà un innalzamento stratosferico dei prezzi di ogni merce, accoppiato dall’abbassamento dei salari e dall’alzarsi della disoccupazione – ed è chiaramente solo l’inizio di una manovra volta a eliminare tutto ciò che è pubblico nel paese. Di fronte all’inumanità del paquetazo, il popolo si è mobilitato con grande energia, ma dopo un giorno di manifestazioni, Moreno ha proclamato lo stato d’eccezione, con tutto quello che ne consegue, tra cui anche il coprifuoco parziale. Coprifuoco che, iniziato il 3 ottobre, da sabato 12 è diventato di 24h/24 su tutto il territorio nazionale con riferimento ai siti strategici e istituzionali.

Dopo alcuni giorni di scontri e di violenze inenarrabili da parte della polizia e dell’esercito, autorizzati a usare armi letali, dopo almeno tre morti, un migliaio di feriti e altrettanti arresti, gli indigeni delle Ande sono scesi in strada e hanno mostrato cosa può un popolo, con una determinazione incredibile. Così, Moreno ha inasprito ancora di più la repressione, chiaramente ci sono scappati altri morti (al momento sicuri 7, ma destinati ad aumentare), in maggioranza indigeni. Come risposta, gli indigeni hanno sequestrato una decina di poliziotti e gli hanno fatto portare le bare – di quelli che i loro colleghi hanno ucciso – nella celebrazione pubblica. La punizione inflitta dagli indigeni ai rappresentanti dei loro assassini è stata quindi questa, oltre a… farli piangere pubblicamente.

Nel frattempo, nessun canale televisivo ha raccontato cosa stava succedendo, perché tutte le reti nazionali, pubbliche e private, sono al soldo dello Stato. Sui social alcuni gruppi (come Indymedia Ecuador) hanno provato a fare vera informazione, ma da venerdì 11 i poliziotti in borghese dell’intelligence hanno utilizzato dispositivi di inibizione dei segnali che impediscono le trasmissioni in diretta. Oltre a questo, le pagine fb di questi gruppi vengono spesso hackerate dall’intelligence governativa. E gli stessi media main stream diffondevano sulle reti sociali tonnellate di fake news. Risultato: una vera e propria dittatura. Anche se la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegalità delle operazioni di sgombero della polizia e condannato gli spari di lacrimogeni e di flash ball per disperdere manifestazioni pacifiche, i militari e gli agenti hanno continuato a incrementarne l’uso ad altezza uomo, anche su donne e bambini, come si può vedere in decine di video pubblicati sui social.

Risultato: non solo dittatura, ma anche sintomida guerra civile, per lo meno a Quito, dove la polizia e l’esercito hanno totale impunità, persino quando invadono con lacrimogeni i punti di soccorso. Nel frattempo, a causa non solo degli scioperi ma anche e soprattutto della chiusura della maggior parte delle arterie stradali del paese, i beni di prima necessità hanno cominciato a scarseggiare ovunque.

I ricchi e i poveri 

Guayaquil merita invece un capitolo a parte, anche se la repressione è stata, in scala, altrettanto brutale: centinaia di feriti e di arresti, nonché una donna indigena uccisa a manganellate dalla polizia. Seconda città dell’Ecuador, dove però si concentrano gli hub del potere economico e finanziario, da vent’anni governata dal partito socialcristiano (la cui bussola politica è paragonabile a un mix tra Lega e Fratelli d’Italia), Guayaquil può essere vista come il simbolo di questo governo, ma anche come il crocevia delle sue idiosincrasie.Innanzitutto, a Guayaquil vivono e operano – tanto in politica quanto nel business – gli artefici delle ultime crisi economiche e umanitarie del paese: Guillermo Lasso, Jaime Nebot, Cynthia Viteri, Abdalá Bucaram, tra gli altri. È poi a questi signori, e ai loro amici, che il governo di Moreno ha scontato migliaia di milioni di dollari di tasse. È a Guayaquil che Moreno si è rifugiato quando ha capito che decine di migliaia di indigeni stavano dirigendosi a Quito per assediarlo. Ed è a Guayaquil che quegli stessi amici del presidente hanno organizzato la marcia della borghesia e dei guayaquilegni contro gli indigeni. Si è trattato fondamentalmente di una marcia di imprenditori e simpatizzanti del partito socialcristiano, contro tutte le minoranze del paese, e contro il supposto vandalismo degli indigeni. Quel che si può vedere dai filmati sarebbe quasi da non credere, se non fosse tristemente abituale: i ricchi hanno pagato bande di ragazzini dei quartieri più poveri perché cercassero in giro i manifestanti contro il governo e li picchiassero; gli stessi ragazzini che nei giorni precedenti erano stati pagati dagli stessi mandanti per vandalizzare il centro durante le manifestazioni di protesta (e poter così criminalizzare un movimento nato pacifico); non solo, ma erano questi stessi ricchi a dettare le condizioni della loro marcia all’esercito, il quale non era lì per reprimerli, ma per difenderli (!!!) dagli altri manifestanti (che non c’erano!!!). In pratica, l’alta borghesia guayaquilegna ha organizzato una manifestazione in difesa del Presidente e contro gli indigeni, dove i “controllori” erano al soldo dei “controllati”. E come ciliegina (avvelenata) sulla torta, hanno costretto con minacce gli ambulanti dei mercati e i dipendenti dei loro uffici a partecipare.

Quello che è emerso può essere sintetizzato in un razzismo diffuso e profondo che attraversa la società ecuadoriana, del quale si approfitta l’alta borghesia finanziaria, tanto nel breve termine di questo frangente di lotte e crisi umanitaria, tanto nel medio-lungo termine rappresentato dalle prossime elezioni del 2022.

Poscritto dopo il “dialogo per la pace”

Domenica 14 ottobre, con il patrocinio e la supervisione dell’ONU e della Conferenza Episcopale Ecuadoriana, si è svolta la riunione tra governo e rappresentanti indigeni per giungere ad un accordo in merito al pacchetto di misure economiche, allo stato d’eccezione e alle proteste. Riunione trasmessa in tutto il paese, alla luce del sole. Gli indigeni si sono mostrati determinati nel non cedere a nessuna negoziazione, chiedendo espressamente e unicamente la deroga del decreto 883 sull’eliminazione del sussidio statale ai carburanti e le teste del ministro dell’interno Paula Romo e di quello della difesa Oswaldo Jarrín, responsabili dei sette morti e della feroce repressione. Di fronte alla lucidità e determinazione degli indigeni, il governo ha dovuto cedere sul sussidio, e si può dunque parlare di una grande vittoria indigena e del popolo. Una vittoria, però, soltanto simbolica, perché in realtà, attraverso un cavillo, il governo continuerà a far valere tale decreto fino alla sua sostituzione, i cui tempi di realizzazione al momento si ignorano. In tutto ciò, nessuna parola sull’uso della violenza, nessuna presa di responsabilità rispetto a morti, feriti, dispersi e arresti aleatori. Nessuna testa caduta, e soprattutto, nessuna marcia indietro sull’accordo firmato con il FMI. Un paquetazo nel paquetazo, dunque: dopo la repressione, i morti, gli arresti, i sacrifici, si profila l’ombra della beffa… Da oggi stesso i movimenti stanno cercando di reagire, tanto costruttivamente, ossia formulando un decreto alternativo, quanto criticamente, organizzando cioè un nuovo ciclo di lotte. Tuttavia, quello che è emerso, in questi giorni di proteste, è soprattutto un formidabile processo di soggettivazione politica in grado di attraversare tutta una società, un processo che deve ancora maturare e potenziarsi, ma che ha già mostrato le sue qualità: tenacia smisurata, coraggio oltreumano, trasversalità nell’unità, intelligenza nella lotta, rispetto per le differenze e amore per il proprio popolo, ovvero tutto ciò di cui deve – e dovrà – avere paura non solo il governo di Moreno, ma anche e soprattutto il FMI.

 

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