In questi anni di aggressiva mutazione delle strategie di potere neoliberale, forme decisamente pervasive di riorganizzazione delle soggettività sono avvenute e continuano ad accadere, con particolare riferimento al problema sempre irrisolto delle appartenenze di genere.
Le scritture identitarie e comunicative si sono dimostrate capaci di operare un profondo lavoro di catalogazione dei comportamenti, che, a partire dalla codificazione della sessualità, hanno costruito una griglia in cui ogni possibile variazione potesse trovare collocazione, scrittura, codice.
Il genere è divenuto un vero “mot d’ordre” atto a veicolare la misoginia imperante e trasversale delle attuali forme di dominio.
Nel percorso variamente praticato dai movimenti femministi alcuni passaggi risultano insoddisfacenti quando non del tutto inadeguati al profilarsi attuale di società sempre più ingiuste e discriminanti. Le donne pagano un prezzo altissimo, tuttavia una lettura che parta soprattutto dalle appartenenze di genere, per spiegare “ciò che ci accade”, non permette di cogliere la portata dei mutamenti in corso, sia per quanto riguarda la condizione delle donne, sia delle soggettività, soprattutto quelle segnate e sfruttate del nostro tempo.
La centralità delle discriminazioni economiche, sociali, culturali e di provenienza disegna una geografia in cui l’emancipazione femminile si è spesso tradotta in ripiegamento e fuga dalla dimensione politica.
Una certa rincorsa istituzionale alle garanzie, come anche la richiesta di disegni di legge chiamati a sopperire le lacerazioni culturali che ci raccontano di una sempre più violenta “caccia” non solo alle donne, ma a chiunque si trovi in condizione di debolezza, ci spingono a fare altre riflessioni.
La trasformazione delle strutture relazionali chiamate a sopperire allo sgretolamento del welfare è indice di una pressione delle tecnologie di potere sempre più volte a “selezionare” i diritti alla vita. Questo sconvolgimento è tanto più grave quanto più si esercita in condizioni di esistenza fragili, precarie ed esposte alla deregolamentazione di ogni garanzia non solo del lavoro, ma dell’istruzione, dell’accesso ai bisogni più immediati ecc.
Nessun ritorno a modelli precedenti (welfare, fordismo, assistenzialismo) è pensabile. Riguardo alle mutazioni attuali, nel testo di Nancy Fraser “Ripensare il riconoscimento”, si sottolinea il modo connivente secondo il quale il femminismo, pensiamo anche noi a quello soprattutto nord-americano, avrebbe agevolato le aspettative del modello liberista. È evidente che nelle sue derive più di “tendenza” questo sia accaduto, soprattutto in ragione di élite che hanno operato nel senso di una casta autoreferenziale che smetteva di interrogarsi sui sommovimenti del sociale. Tuttavia un nodo pare riguardare l’eredità del femminismo storico ed è quello dell’irrisolta questione e confusione della dicotomia di poteri e potenza. Laddove i poteri disciplinano (Foucault), la potenza (Spinoza) permette alle singolarità e al sociale di trovare forme di nuova espressione. La potenza concerne dunque tanto la fantasia quanto l’ “atto di creazione” (Deleuze).
Come scrive Cristina Morini, sempre ragionando sul sopracitato testo della Fraser: “E la malinconia di fronte alla quale il soggetto troppo spesso si trova, si spiega proprio con il cedere dei legami sociali, perché non possiamo sopravvivere senza forme sociali di vita. L’individualismo capitalista – questo lo hanno capito tutte, ormai – non riempie, non basta”.
Per troppo tempo alcuni settori del movimento delle donne si sono attardati nella considerazione dell’autorevolezza come modalità “altra” rispetto alle tradizionali forme di potere, senza forse rendersi conto del portato “consolatorio” di questa scelta, che spesso finiva per gerarchizzare persino i rapporti tra donne. Se “i rapporti di potere passano attraverso i corpi” come indicava Foucault o disegnano ambienti di prescrizione e adeguamento sempre più intensi, come oggi accade, a queste considerazioni non è dato sfuggire, pena il ritrovarsi a praticare quegli stessi meccanismi sbrigativamente posti in discussione.
I soggetti hanno bisogno per valorizzarsi di potenza, come si è detto. In questi “anni d’inverno”, come li chiamava Guattari, che non sono ancora finiti, i rapporti di potere si sono molto modificati definendo modalità di agire il cui cinismo non è nemmeno più mascherato. Un cinismo trasversale che opera attraverso la polverizzazione dei legami, degli affetti e dunque della potenza, della potenza di agire. Nessun ambito è rimasto indenne da questo accadere, tantomeno quello delle donne la cui “sorellanza” spesso si è tradotta in un esercizio rituale svuotato di contenuto.
La potenza necessaria rimanda al piano della politica, un piano che deve tornare a elaborare una visione complessiva, di svolta sociale in cui i generi, le condizioni sociali, le forme e le istituzioni trovino nuova e diversa soddisfazione nelle pratiche e nell’immaginazione.
Gli ultimi venti anni ci raccontano una vicenda aspra e fenomenale ad un tempo, quella di una mutazione antropologica che ha molto a che fare con la fine della modernità e l’impatto di una tarda modernità a-teleologica e forte di un’identità tecnica pervasiva sulle forme di vita. Questa mutazione declinata in vario modo coincide con l’esaurimento del lavoro salariato (senza che il rapporto di subordinazione sia però cessato) e il governo delle vite in un circuito di valorizzazione che si attua in una microfisica dei poteri e nel concreto “giuoco” dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti.
Si tratta davvero della crisi di una soggettività identitaria, nel momento in cui le discriminazioni di genere, di sesso, di razza e di condizione sociale sono divenute stato d’eccezione permanente del nostro tempo.
Le figure che emergono e si delineano via via nell’accidentata e stratificata scena della modernità, portano inscritto nei corpi e nelle anime le stigma del tramonto, celebrato da Walter Benjamin come occasione rivoluzionaria, e in esso si scorgono le spoglie delle identità matri e patriarcali, fondate sulle tradizioni e l’eredità della cura e del rispetto della legge nel calcolo del desiderio. Ma le figure di questo presente sono latrici di un senso sospeso, di una negatività senza impiego, intuìta da Bataille quale strumento di esodo dalle forme normate di soggettività, disdetta in un’irriducibilità senza fine, nella crisi del principio del riconoscimento, nell’alternanza di malinconia e orgoglio, proficuamente descritti da Judith Butler.
I corpi che contano e le vite precarie in cui abitano figure di una contemporaneità del non contemporaneo, sono nate dopo le guerre di decolonizzazione e i conflitti sociali organizzati, e hanno acquisito il colore tenue della dismissione della produzione, produzione materiale e produzione di forme di vita.
Questo è il profilo del rifiuto, nominato in una sequenza significante, in uno spazio della differenza in cui è pronunciata una diversità radicale: gay, lesbo, trans, intersex, che nella molteplicità delle pratiche queer riduce a zero i principi di appartenenza, le rivendicazioni di uguaglianza, le politiche di inclusione nello stato sociale, con le sue procedure parlamentari, le sue indagini amministrative, l’insieme dei privilegi aristocratici che residuano dall’applicazione della ragion di stato. Questi profili segnano un confine ad un tempo invalicabile e irreversibile.
Invalicabile nell’oltrepassare la linea del genere. Irreversibile nel non volgere indietro lo sguardo ad un’autocoscienza idealista che disloca il piacere nella zona del desiderio e questo nel patto con la legge.
Tali configurazioni di soggettività portano la corporeità a un punto di astrazione che consente la mutazione della sintassi di vita, un desiderio non negoziabile, la sua dislocazione nello spazio del piacere, fino ad allora rimosso, o forcluso nelle “buone pratiche” dell’emancipazionismo, della liberazione sessuale, nell’espansione della coscienza individuale, fino alle richieste egualitarie nella sfera domestica, in quella lavorativa, in quella affettiva.
Come nella sua opera ha in più momenti segnalato Teresa De Lauretiis, crisi della soggettività e crisi del genere e delle sue politiche sono facce della stessa moneta di scambio che, utile per comprare tempo di vita delle donne, campeggia oggi quale unità di misura e regola dello sfruttamento di una molteplicità di singolarità che niente hanno in comune, tranne la condizione esistenziale di precarietà.
Essendo saltata la connessione “naturale” che lega le generazioni, i “nuovi soggetti nomadi”, inaugurano quella inedita e controversa scena della disappartenenza che inizia con il “Manifesto cyberpunk” di Donna Haraway e termina nella crisi delle comunità gay dopo la criminalizzazione per AIDS e l’adesione a pratiche leather, sadomaso e pornorock che celebrano l’immediatezza del piacere senza i penosi, colposi e luttuosi fardelli del “fare politica” di automi militanti.
Da questa dimensione e da questo momento critico, che ha diviso fino a qualche anno fa la teoria GBLTQI tra volontà di soggettivazione politica e “ricerca del piacere”, per sé già da sempre politica, conviene estendere lo sguardo verso nuove configurazioni di civiltà mutagene, presso cui la digitalità del corpo organico si intreccia alla corporeità tecnologica, il tattoo e il dispositivo sono naturali parti di corporeità attrezzate al piacere e alla perdita, all’occasionalità affettiva e alla contingenza della prassi lavorativa.
Indagare questo campo della soggettività, nel suo bisogno di libertà e nella volontaria disdetta di pratiche di liberazione, confrontare questo spazio tra esigenza di libertà e immediatezza della sua conquista alle restituzioni che una storia dei soggetti ci offre, rimane il compito cruciale, e forse inarrivabile di un intelletto vòlto a conservare ciò che si può cambiare ed a rimanere dignitosamente impassibile di fronte a ciò che rimane immutato.
Punti cruciali aperti di discussione:
– il genere non consente di liberare le potenze trasformative, plastiche e in divenire delle esistenze, piuttosto si rivela come ennesima categorizzazione
– le grandi narrazioni novecentesche hanno disegnato ambienti patologizzati all’interno dei quali occorreva che le identità, prima descritte, aderissero in ragione della loro collocazione di classe, di sesso, di sapere.
– La costruzione di strategie discorsive e comunicative riferite alle soggettività ha avuto il compito di normare, attraverso forme sempre più sofisticate di catalogazione, ogni articolazione delle esistenze che ovviamente in fasi di accelerata trasformazione andava complicandosi
– La trasformazione della sessualità in pornografia e voyeurismo di massa ha teso a disincentivare la forza degli affetti e del desiderio nel momento in cui queste forze non potevano essere utilmente canalizzate nel cortocircuito infinito della mercificazione.
– La disintegrazione del desiderio ha come corollario l’umiliazione della “potenza” di vita in favore di un addomesticamento “religioso” dei rituali di cura, abnegazione e sacrificio, che sono ovviamente ben altra cosa dalla “felicità” di potersi collettivamente e individualmente esprimere in ambienti di relazione piuttosto che di prescrizione.
– Occorre analizzare i nuovi dispositivi che mappano le espressioni del dover essere e dunque ogni storiografia che abbia assimilato logiche autoritarie piuttosto che conventuali dei meccanismi di inclusione ed esclusione.
– Occorre forse interrogarsi su l’onda d’urto in corso che si accanisce in primis contro le donne, ma anche contro qualunque istanza che indichi alterità rispetto alla chiusura sociale, politica ed economica che il momento tende a imporre.
Da qui nascono indicazioni di linee scartate che a nostro avviso tornano ad attraversare le soggettività ibridate che siamo.
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