Dall’inizio della crisi economica, in Spagna viviamo una situazione davvero eccezionale, un’accelerazione storica e un’apertura del possibile senza precedenti nel passato recente. Dal 2008 questo paese è un «laboratorio sperimentale» intensissimo, dove si studiano nuove forme di sottomissione ma anche di emancipazione. Parliamo ora delle prime.

Nel suo celebre libro Shock economy, Naomi Klein ha elaborato questa inquietante ipotesi: il neoliberismo non «soffre» la crisi, bensì la sfrutta per catalizzare un «gran salto in avanti» nella trasformazione delle società. Il neoliberismo funziona grazie e attraverso le sue disfunzioni. Il libro si basa sullo studio esaustivo di vari esempi storici: il Cile di Pinochet, la Polonia postsovietica, New Orleans devastata dall’uragano Katrina eccetera. In ciascuno di questi casi, una serie di shock ha messo le popolazioni fuori combattimento, ha spezzato la solidarietà sociale, ha contagiato la paralisi, la rassegnazione e la paura, ha fomentato la dipendenza dallo Stato come padre protettore e ha spianato la strada a qualsiasi tipo di riforma. Le atmosfere di panico e depressione sociale (siano esse provocate da una catastrofe di origine naturale o umana) sono occasioni ideali per radicare e generalizzare la logica della massimizzazione dei profitti. Naomi Klein lo chiama «capitalismo del disastro».

È possibile partire da quest’ottica per riflettere sulla gestione del la crisi economica dal 2008 in Europa? Credo di sì, almeno sotto due aspetti.

In primo luogo, la crisi sta dimostrando di essere veramente il momento propizio per una «distruzione creativa» di tutto ciò che, nelle istituzioni, nella coesione sociale e nelle soggettività, frena, resiste, evita o sfida in maniera diretta l’estensione del pensiero neoliberista a tutta la vita sociale: per esempio, i resti più o meno consistenti dello Stato del benessere, i meccanismi di solidarietà formali e informali, i valori non competitivi, eccetera.

In secondo luogo, la crisi si configura come «tecnica di governabilità»: la necessità di «uscirne» a qualunque costo giustifica l’adozione di qualsiasi misura, silenzia il dissenso e rafforza l’autoritarismo dei poteri, che scavalcano perfino le garanzie liberaldemocratiche fondamentali senza suscitare grande scandalo (pensiamo per esempio ai casi dei «governi tecnici» imposti per un certo periodo in Grecia e in Italia). Già negli anni Cinquanta, Maurice Blanchot parlava in maniera analoga di un «potere salvifico» che promette sicurezza e riparo dalla catastrofe, ma sempre in cambio della nostra «morte politica»: tutte le nostre capacità di espressione, pensiero o azione.

La situazione spagnola recente offre moltissimi elementi che permettono di confermare l’analisi di Naomi Klein. Ecco un paio di esempi (tra i tanti altri possibili).

Distruzione creativa.

Il regio decreto-legge 16/2012, approvato dal Partito popolare, prevede l’esclusione di centinaia di migliaia di persone dal diritto all’assistenza sanitaria e il rincaro di alcuni medicinali e di alcune prestazioni sanitarie. Non si tratta semplicemente di un cambiamento quantitativo – cioè, non significa che ci saranno meno radiografie o chirurghi – si tratta invece di un cambiamento qualitativo: l’assistenza sanitaria ormai non sarà più un diritto, ma dipenderà dal fatto che si abbia o meno un’assicurazione sanitaria. Viene meno il diritto universale alla salute e ci si avvia verso un modello pubblico-privato che apre nuove nicchie per l’attività commerciale, che frammenta la popolazione e aggrava la disuguaglianza sociale.

Governabilità.

Da quando il Partito popolare è al governo, ossia dal 2011, ripete instancabilmente il mantra: «Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità». In altre parole, siamo tutti ugualmente colpevoli della crisi (a causa di un consumo a credito smisurato) e ora ci tocca pagare, espiare le colpe tramite i tagli alle prestazioni sociali. Tutti i sacrifici (politiche di austerità eccetera) sono necessari. Il senso di colpa (molto diverso da quello di responsabilità) rende passivi e rafforza la figura del padre salvatore che deve impartire le pene e i giusti castighi per gli eccessi compiuti. «Governare, a volte, è distribuire dolore», disse a tal proposito il ministro spagnolo della Giustizia

La chiamiamo crisi ma questa parola non basta. Si tratta piuttosto di un cambiamento radicale dell’insieme delle regole del gioco.

Politica di chiunque

Ma forse l’aspetto più interessante e specifico della situazione spagnola è la risposta alla «strategia dello shock»: un’attivazione sociale senza precedenti nella storia recente del paese che inizia con il 15M

[Il 15M è il movimento che in Italia è noto come movimento degli Indignados. Prende il nome dal 15 maggio 2011, giorno di inizio delle proteste, n.d.t.], un movimento che si posiziona deliberatamente al di fuori dello spettro politico conosciuto. In che senso?

Da quando nel 2008 «scoppia» la crisi e fino al maggio 2011 quando «scoppia» la protesta in strada, la risposta sociale alla gestione neoliberista della crisi – già disastrosa per chi si trova ai gradini più bassi della società – brilla per la sua assenza. Perché? Di che cosa ci parla quel silenzio? Io lo interpreto così: c’è la forte percezione che la politica classica – inclusa la sinistra ufficiale, l’estrema sinistra e anche i «movimenti sociali» – non sia in grado di far fronte alla situazione e tanto meno di capovolgerla. La percezione diffusa è che tutto ciò che esiste in campo politico o è capace di modificare la situazione oppure collabora direttamente con essa.

La sfida arriverà dal luogo più inaspettato, prendendo in contropiede tutti i «professionisti» della politica. Un appello a manifestare a livello nazionale, lanciato da una struttura creata per l’occasione e chiamata «Democrazia reale subito!», si accende con successo in rete e nell’immaginario sociale. Il segreto del suo successo? Il suo carattere radicale, aperto e inclusivo: con slogan ampiamente condivisi e assai poco ideologici («non siamo mercanzie in mano ai politici e ai banchieri, democrazia reale subito»), l’iniziativa magnetizza una porzione consistente del malessere sociale.

Quella manifestazione, che si svolge in un clima allegro e per nulla aspro in sessanta città spagnole, scatena talmente tanta energia che c’è chi non riesce a tornarsene semplicemente a casa e un gruppo di quaranta persone decide spontaneamente di piantarsi quella stessa notte a Madrid nella piazza della Puerta del Sol. L’aspetto interessante è che la decisione non scaturisce (né sarebbe mai potuta scaturire) dal calcolo politico di un gruppo precostituito, ma da un’assemblea di sconosciuti che improvvisa. Dopo lo sgombero subìto da questo gruppo durante la seconda notte, migliaia di persone indignate dall’abuso della polizia si autoconvocano attraverso le reti sociali per riprendere la piazza e la stessa sera/notte inizia l’accampamento. Nel mezzo di un entusiasmo collettivo come non si ricordava a Madrid da anni, inizia il movimento 15M.

Il 15M è al tempo stesso politico e antipolitico. Antipolitico nel senso che esprime un rifiuto generale della «politica dei politici», che considera, a ragione, completamente subordinata alle necessità dell’economia globale. Le parole d’ordine più note del movimento sono «non ci rappresentano», «la chiamano democrazia ma non lo è» e «la vostra crisi non la paghiamo». Ma il movimento non si esaurisce nella protesta o nell’indignazione, e nemmeno nella richiesta o nella rivendicazione, bensì costruisce e pratica una ridefinizione positiva della politica: come possibilità alla portata di chiunque, come interrogativo sulla vita comune alla portata di chiunque.

Le caratteristiche distintive del 15M si ritrovano incarnate anche nella materialità delle piazze. Tre annotazioni su questo, a partire dalla mia esperienza alla Puerta del Sol di Madrid.

– Nelle migliaia di assemblee e gruppi di lavoro, si sperimentano modi di pensare e di decidere in comune. Senza leader e rappresentanti delegati si dispiega un grande sforzo da parte di tutti di parlare a titolo personale, ascoltare l’altro, elaborare un pensiero collettivo, prestando attenzione a ciò che si sta costruendo in comune, fidandosi generosamente dell’intelligenza e della capacità degli sconosciuti, rifiutando i blocchi maggioranza/minoranza, cercando con infinita pazienza verità inclusive, privilegiando spesso il dibattito e il processo rispetto all’efficacia dei risultati.

– In pochissimi giorni cresce una piccola città dentro la città, con un nido per i bambini, pannelli solari, una biblioteca, un’infermeria, squadre di pulizia, cibo in abbondanza eccetera. Si dispiega un grande sforzo collettivo per creare e prendersi cura di uno spazio abitabile dove ci sia posto per tutti. Questioni fondamentali, ma che in genere restano alla porta della politica tradizionale (l’assistenza, la riproduzione, i corpi eccetera) sono qui oggetto di massima attenzione. Cosa che per alcune pensatrici come Silvia Federici presuppone in qualche modo una «femminizzazione» della politica.

– L’«autosimbolizzazione» del movimento cerca costantemente di riprodurre un «noi» aperto, inclusivo, non identitario. Tutto ciò che separa e divide (sigle, bandiere, violenza) resta al di fuori della piazza. Per autorappresentarsi si usano etichette aperte e contrassegni collettivi: «nomi di chiunque» che non rinviano a nessuna identità precedente – sociologica, ideologica o politica – dipendendo invece da una decisione soggettiva, potenzialmente accessibile a chiunque. Questa è la potenza dell’etichetta «indignati», per esempio. Si evita attentamente di prendere posizione nello scacchiere politico (sinistra/destra), rompendo così la falsa polarizzazione che organizza da decenni la mappa delle possibilità in Spagna (PP/PSOE).

In sintesi, se dovessimo riassumere il 15M in una sola frase, potremmo dire che consiste nel desiderio e nella pratica di una «politica di chiunque», che non si lascia spezzettare o strumentalizzare da partiti politici o ideologici, e cerca di farsi carico in comune delle questioni comuni.

Il filosofo Jacques Rancière ha scritto che «la politica non è fatta di rapporti di potere, è fatta di rapporti di mondi». Ovvero, la politica non è fatta di lotte tra gruppi per il potere (intrighi di palazzo, strategie machiavelliche eccetera) ma è invece l’affermazione di un’altra esperienza di mondo. Nel caso del 15M, si trattava di un’esperienza costituita di questi elementi: abilitazione della gente qualunque, costruzione di spazi aperti e abitabili, autonomia (nel senso di autodeterminazione dei tempi, congiunture e problematiche che vanno oltre le «agende» mediatiche e politiche), eccetera. Quell’esperienza è il contenuto sostanziale della «democrazia reale» che si rivendicava nelle piazze. Non possiamo separare i fini dai mezzi del 15M: ciò che si vuole e si rivendica («democrazia reale ora») assomiglia già al mondo che si costruisce nelle piazze (attivo, egualitario, accogliente, all’altezza delle persone). Il cosa e il come vanno insieme.

L’atmosfera 15M

Nelle piazze abbiamo fatto quell’esperienza in maniera «concentrata», nello stesso spazio-tempo. Ma presto l’energia straripa dalle piazze e si sparge per l’intera superficie sociale, trasformandola.

Sorgono le assemblee di quartiere, che decentralizzano lo slancio del 15M facendolo atterrare nei luoghi della vita. Sorgono le «maree», movimenti in difesa dei settori pubblici minacciati dai tagli (marea verde dell’educazione, marea bianca della sanità, marea blu dell’acqua, marea arancio dei funzionari eccetera). La Piattaforma delle vittime dei mutui, un gruppo piccolo, fino ad allora, che lavorava su problemi relativi agli sfratti e alle abitazioni, cresce e si moltiplica dappertutto. Proliferano cooperative, banche del tempo, orti urbani, reti di economia solidale, mercati sociali, nuovi centri sociali, librerie associative eccetera. Non sono movimenti sociali, bensì la società in movimento.

Si tratta di un effetto sorprendente di estensione di uno spirito di politicizzazione a tutta la società: funzionari, pompieri, personale sanitario, giudici, professori, perfino i corpi di polizia! Ogni iniziativa, ogni marea replica e ricrea a modo proprio lo spirito del 15M: l’autorganizzazione dalla base, a distanza o facendo direttamente a meno dei partiti e dei sindacati; la volontà d’inclusione, grazie alla quale si riuniscono persone molto diverse (dal punto di vista ideologico e politico) attorno a obiettivi comuni; la presa della strada, sempre in un clima di allegria e non violenza, senza chiedere permesso alle autorità (com’è d’obbligo in Spagna) eccetera.

Un «nuovo clima sociale», come lo chiamiamo per distinguerlo da un movimento o da un’organizzazione, libera da tutte le parti possibilità di azione attraversando l’intera società come una corrente discontinua nel tempo e nello spazio. A volte più visibile, che si esprime con moltitudini e maree che prendono massicciamente la strada. A volte sotterraneo, incarnato da mille iniziative formali e informali (famiglie, reti d’amicizia, relazioni di vicinato) radicate nella vita quotidiana.

Il «clima 15M» oppone resistenza o attenua gli effetti della «strategia dello shock» analizzata da Naomi Klein. Invece della guerra di tutti contro tutti e del «si salvi chi può», si rafforza la dimensione comune dell’esistenza: la solidarietà, il sostegno reciproco, la coesione sociale, l’empatia. Invece della docilità, della rassegnazione e delle narrazioni colpevolizzanti si attivano la voglia di fare, protestare, organizzarsi.

Quest’ultimo aspetto può essere meglio osservato a partire da tre «risultati concreti» del 15M. In primo luogo, viene messa in crisi la legittimità dell’architettura politica e culturale che ha retto in Spagna fin dalla transizione postfranchista (monarchia, Costituzione, parlamento, sistema di partiti, stampa, banche…). Si percepisce che il sistema politico non funziona come protezione di fronte ai pericoli contemporanei, che invece occulta o di cui è addirittura all’origine.

In secondo luogo, c’è una trasformazione della percezione e della sensibilità a livello sociale. Il caso più evidente è il dramma degli sfratti: decine di migliaia di persone che non possono far fronte al pagamento dei mutui stipulati a suo tempo e che vengono espulse dalle proprie case. Prima del 2011 gli sfratti non si vedono, non si sentono, non provocano reazioni di rifiuto; ma dopo il 15M diventano visibili, sono ritenuti intollerabili e si agisce contro di essi (l’azione non è soltanto da parte di attivisti e militanti, ma anche di giudici, giornalisti e pompieri, fabbri e poliziotti che si rifiutano di parteciparvi).

In ultimo, il clima 15M neutralizza l’emergere di fascismi e micro- fascismi. Non soltanto l’auge elettorale dei populismi di destra come Alba dorata e Fronte nazionale che crescono in tutta Europa (in Spagna non esiste un’opzione elettorale di questo tipo), ma anche i microfascismi di strada che accompagnano sempre le crisi (delinquenza, esplosione sociale, ricerca di capri espiatori eccetera). La narrazione del 99% contro l’1% fa sì che non si cerchi il nemico negli immigrati o nei più poveri («improduttivi», «fannulloni» eccetera) bensì nelle oligarchie politiche ed economiche.

Come si sono potuti ottenere questi risultati? Il 15M non ha nessun potere (fisico, quantitativo, istituzionale o economico), ma ha forza. Una forza sensibile, capace di modificare le correnti sotterranee del desiderio sociale e di ridefinire la realtà: ciò che è possibile e ciò che è impossibile, ciò che è degno e ciò che è indegno, ciò che è importante e ciò che è superfluo.

Impasse

Verso la fine del 2013 si comincia a percepire molto chiaramente un «raffreddamento» dell’atmosfera 15M. L’energia si impantana. Gli spazi organizzati diventano inabitabili salvo che per gli attivisti full time. Le azioni perdono eco, le parole risonanza. Linguaggi e gesti si ripetono, diventando identità. L’imprevedibile diventa prevedibile. Il movimento frena, diventa rivendicativo e nostalgico.

Che cosa succede? Si tratta di un movimento complesso e ancora da pensare, anche se le domande taglienti che ci pone ci lasciano senza fiato: quali ostacoli abbiamo incontrato, dentro e fuori noi stessi, che non abbiamo saputo elaborare?

È una pluralità di fattori a spiegare l’impasse, ma qui ne indicheremo solamente due. Dall’esterno, il «tetto di cristallo»: le maree si scontrano contro un muro (la chiusura del sistema di partiti rispetto a qualsiasi cambiamento), ma il muro non cede. Non c’è un cambiamento tangibile dell’orientamento generale delle politiche macro: continuano gli sfratti, i tagli, le privatizzazioni, gli aggiustamenti… Dall’interno, nei movimenti delle piazze ci sono elementi di una nuova politicizzazione, ma sono praticamente privi di linguaggi, mappe o bussole adeguate e sono zavorrati dal peso di eredità ideologiche del passato (forme di organizzazione, schemi mentali di riferimento eccetera).

Abbiamo vinto ma abbiamo perso

Nella crisi d’immaginazione dei movimenti post-15M, la via elettorale sembra porsi come l’unica via possibile per uscire dall’impasse e per rompere il «tetto di cristallo». Approfittando del cambiamento nel sentire comune generato dal clima del 15M, si tratta di riconquistare i voti del malcontento e di raggiungere il potere politico. Podemos prima, le candidature municipaliste poi, catalizzano in questa direzione (con modi e stili diversi) l’insoddisfazione e il desiderio di cambiamento. (In Catalogna è stato il processo indipendentista ad aver sviato e instradato il malessere, ma l’analisi di quella situazione eccede le possibilità di questo articolo).

Il successo folgorante dei nuovi dispositivi elettorali ha avuto grande impatto: mentre Podemos minaccia di rompere il bipartitismo radicato in Spagna da trent’anni, le candidature municipaliste hanno già raggiunto il potere politico in importanti città spagnole come Madrid, Barcellona, Santiago di Compostela, La Coruña o Saragozza. Ciò dimostra che la fessura aperta dal 15M è molto più profonda di quanto si pensasse all’inizio.

Come leggere questo processo, questo passaggio? La mia lettura e la mia percezione sono ambivalenti: abbiamo vinto ma abbiamo perso.

Abbiamo vinto, perché è stata scombinata una cartina geografica elettorale che pareva immutabile, ampliando così lo spettro del possibile. Con pochissime risorse o strutture, le nuove formazioni hanno potuto competere con successo con le grandi macchine dei partiti classici. Nonostante le campagne della paura lanciate contro queste formazioni, la popolazione non ha avuto paura di votare opzioni estranee al consenso ideologico imperante in Spagna da decenni. Ora ci sono speranze ragionevoli che i nuovi governi locali cristallizzino rivendicazioni fondamentali dei movimenti (riguardo agli sfratti, ai tagli, alla corruzione, alla repressione, alla segregazione sanitaria eccetera) e che modifichino alcuni quadri normativi che riproducono la logica neoliberista della competizione in diversi ambiti della vita.

Abbiamo perso, nel senso che si sono radicate nuovamente nell’immaginario sociale le logiche della centralizzazione, della delega e della rappresentazione che erano state messe in discussione grazie alla spinta del 15M.

L’evento 15M ha steso sulla società, come spiegavamo prima, una specie di «seconda pelle»: una superficie molto sensibile, affermativa, sempre in movimento e in corso di metamorfosi; uno spazio ad alta conduttività, dove le iniziative proliferano e risuonano senza rimandare a un centro unificante; un nuovo clima sociale dove circolavano correnti imprevedibili di affetto ed energia. Ebbene, la forza centripeta della dimensione elettorale ha piegato quella «seconda pelle» in un «volume teatrale», organizzato intorno alle divisioni dentro/fuori, platea/scenario, attori e spettatori.

Detto in maniera molto schematica: un tipo di politica molto retorica, incentrata su leader, intellettuali ed esperti, polarizzata attorno a spazi e tempi privilegiati (i partiti, le elezioni) e molto attenta alla conquista dell’opinione pubblica sul piano mediatico, ha sostituito un tipo di politica molto più basata sull’azione, alla portata di chiunque, sviluppata in spazi e tempi molto eterogenei (autodeterminati e attaccati alla materialità della vita) e che si rivolge all’altro non come a un elettore-spettatore, bensì come a un complice, un eguale.

In nome dell’«efficacia», della «finestra di opportunità», dell’«urgenza storica», della «presa di potere» eccetera siamo passati dall’essere attori della politica quotidiana (nelle piazze o nelle maree) a essere di nuovo spettatori del teatro della rappresentazione. Un teatro con nuove opere e nuovi attori, nuovi scenari e copioni, indubbiamente migliore di quello precedente, ma pur sempre teatro.

Ciò che resta fuori dal teatro è ridotto all’invisibilità o è sottovalutato: i movimenti vengono interpretati nel migliore dei casi come semplici «portatori di richieste» che devono essere ascoltate, articolate o sintetizzate da parte di un’istanza superiore (partito o Stato), mentre si perde di vista la loro capacità di creazione del mondo qui ed ora. Se si prolungheranno, gli effetti di questa riproposizione della verticalità politica saranno certamente desolanti: passività e delega generalizzate, desertificazione e svuotamento, perdita di vitalità eccetera. Ma il fatto che il 15M al momento si sia eclissato non significa che sia sparito

In conclusione, non c’è, a mio avviso, una «continuità» o un «trasferimento» tra il 15M e le nuove macchine elettorali. Il 15M non è un oggetto elettorale. Si tratta piuttosto di due forme di pensiero diverse che è fondamentale distinguere per liberarsi il più possibile dal rischio che si saturino (si catturino, si opacizzino, si esproprino) a vicenda.

Politica espansa e ristretta

Alcuni autori ci hanno insegnato a vedere e a pensare il neoliberismo non soltanto come un corpus di dottrine o come una politica economica imposta dall’alto, bensì come una concezione materiale del mondo: l’io come impresa, la ricerca del profitto come motore di tutti i comportamenti, la competizione come principio di relazione con l’altro, la proprietà e il consumo come metri della ricchezza, la vita come un insieme di opportunità da rendere reditizie. Questa definizione della realtà non deriva e non emana da un centro maligno, si radica invece in maniera piuttosto dinamica e multiforme, sia «dall’alto» che «dal basso».

Radicalizzare l’egemonia di questa concezione del mondo è stato ed è l’obiettivo della gestione della crisi e della «dottrina dello shock»: la distruzione o la privatizzazione dei sistemi pubblici di protezione sociale incentivano l’indebitamento e la concorrenza generalizzata, il risultato è un tipo di individuo per il quale l’esistenza si trasforma in un processo continuo di autovalorizzazione. «L’economia è il metodo. Lo scopo è trasformare il cuore e l’anima», disse con assoluta franchezza Margaret Thatcher.

Che tipo d’azione può colpire, rovesciare, sviare questo tipo di processi che colpiscono la configurazione stessa dell’umano? Non bisogna farsi troppe illusioni sulla capacità della politica classica e delle sue versioni progressiste. I cambiamenti delle forme di vita, dei desideri e dei valori che polarizzano quotidianamente i nostri comportamenti non possono essere «decretati» dai luoghi centrali della rappresentazione e del potere. Il potere non è la forza. Per questo motivo, costruire il potere destituendo la forza (l’effetto del «volume teatrale») è disastroso: sono sempre «nuovi climi sociali» (nuovi processi di soggettivazione) ad aprire e ampliare la cornice del possibile, anche per i governi.

Una politica all’altezza della sfida neoliberista, allora, sarebbe piuttosto una «politica espansa»: non ridotta o ristretta a determinati spazi (quello pubblico-statale), a determinati tempi (la congiuntura elettorale) e a determinati attori (partiti, esperti) bensì una politica alla portata di chiunque, legata alla molteplicità delle situazioni della vita, creatrice di valori capaci di rivaleggiare con i valori neoliberisti della concorrenza e del successo. La stessa parola «politica» forse non ci è ormai più sufficiente per nominare qualcosa del genere, sembra tradirci sempre…

Nei recenti movimenti delle piazze (primavera araba, 15M, Syntagma, Occupy, Gezi…) ci sono semi e germi di quella «politica espansa». Dobbiamo averne cura e proteggere la loro crescita. Questo è il compito principale. Ma si tratta per l’appunto di semi e germi, non di una risposta o di una soluzione globale. Non è quindi possibile escludere completamente l’opzione statale. Si tratterebbe piuttosto di darle una nuova impostazione: toglierla dal centro, de-centrarla, ricollocarla all’interno di un processo più ampio. «Cambiamento multistrato e multicanale» è l’immagine che propone la mia amica hacker Margarita Padilla per pensare e immaginare un cambiamento sociale complesso (ovvero non Stato- centrico). Con una pluralità di soggetti come protagonisti, scorre in una molteplicità di tempi e attraversa gli spazi più diversi. Le istituzioni sono un tempo e uno spazio in più, né l’unico, né il più importante.

Un altro mio amico dice sempre: il potere politico non è il potere che cambia la società, ma può accompagnare e appoggiare il potere che lo fa. Questo significa che la forza che trasforma la società viene dai movimenti (autonomi rispetto ai tempi, ai luoghi e all’agenda statale) che sfidano l’establishment, creano nuova realtà, ridistribuiscono il desiderabile e l’indesiderabile, rendono possibile (e ragionevole) ciò che sembrava impossibile. Le nuove forme di gestione e rappresentazione possono in ogni caso farsi porose rispetto a quello spazio esterno, necessariamente autonomo e conflittuale, senza cercare di egemonizzarlo, cooptarlo o distruggerlo. Ecco un’ipotesi provvisoria per i tempi a venire.

 

Riferimenti bibliografici:

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Traduzione di Francesca Mometti

 © Amador Fernández-Savater. Questo testo può essere copiato o distribuito liberamente, con o senza finalità commerciali, con o senza opere derivate, purché sia mantenuta questa nota. Contatti: amador@sindominio.net

 

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