Ciò che risulta più faticoso da reggere, in questi anni, è l’anacronismo culturale e politico con il quale ci confrontiamo insieme alla mancanza di evoluzione del rapporto tra contesti locali e globali. A dispetto di ciò che dovrebbe essere, vista la crisi irreversibile dello stato-nazione, questa asfissia tende a esprimersi, ultimamente, come nostalgico ripensare al passato, con rimpianti fondati su confini, identità nazionali, antiche monete statuali. Pensieri di destra. Nel frattempo, non si assume fino in fondo, concretamente, la necessità di immaginare e praticare nuove modalità dell’autorganizzazione, coordinate a livello sovrannazionale, per provare a portarci fuori da tali secche, in una differente dimensione della storia.

Distorsioni, così come lo sono gli equivoci che si prolungano sulla vera essenza della richiesta referendaria in Grecia, che non si è mai allargata a chiedere una censura rispetto a Europa ed euro. Resta, tuttavia, che la troika ha ottenuto ciò che cercava: un risultato politico che ne confermasse l’autocrazia.

Vorrei proporvi di leggere la vicenda greca non alla luce delle menzogne economiche che l’hanno contraddistinta, né della straordinaria violenza dei dispositivi dell’Europa della finanza che disprezzano profondamente la vita umana della quale si nutrono, né del giudizio che può essere espresso sul risultato della trattativa (comunque, a mio avviso, pessimo) né, infine, da quello della valutazione morale dei leader greci che l’hanno condotta e della loro diversa strategia. Vorrei tentare di guardare a tutto questo dal punto di vista dei soggetti, ovvero quello delle evidenze che la circostanza del braccio di ferro tra istituzioni e Grecia potrebbe finalmente produrre tra gli individui che, in tutte le parti del mondo, ne hanno seguito l’evoluzione-involuzione, tra ansia, speranza ed entusiasmo, rabbia, delusione e disincanto.

Questo procedimento può non sottrarsi all’accusa di soggettivismo e di relativismo, al rimprovero di assumere toni introspettivi e individualistici. Questo rischio può diventare reale qualora si trascurino i collegamenti più ampi con un universo di relazioni sociali ed economiche, privilegiando la validità di una visione singolare, avulsa da un contesto, che pretende di farsi luogo della verità. In realtà è abbastanza chiaro, e non mi dilungherò, che i nuovi paradigmi socio-economici hanno oggi più esplicite incidenze sugli esseri umani, al punto che essi introiettano modelli tipici dell’impresa (competizione; efficienza; successo…). Interrogarsi sulle soggettività oggi significa comprendere meglio anche il paradigma di ri-produzione contemporaneo e le inedite profondità dello sfruttamento a cui è sottoposto il fattore umano, provando a capire come si può rompere l’incantesimo di cui è vittima l’uomo/donna-impresa. Intendo un soggetto sempre incarnato e ancorato ai processi storici ed economici, fluidi, nei quali è immerso. Intendo anche rivendicare una postura di pensiero che rigetta ogni dicotomia tra cultura e natura, tra il sentire del corpo e quello della ragione.

Scarse premesse doverose, alle quali aggiungo che questo è solo un breve articolo e che ognuno dei punti proposti necessiterebbe un approfondimento assai maggiore.

Distanza dalla politica

Il primo elemento che emerge è costituito da una conferma del crescente scollamento tra società e politica. Come ha notato Ida Dominijanni che, nel tempo, ha molto ragionato su questo tema, un primo prodigio sortito da Syriza, con l’indizione del referendum, è sembrato consistere nella rianimazione della relazione tra corpo sociale e rappresentanza moribonda a causa del ruolo invasivo del “fanatismo neoliberista”. Ma la conclusione negativa della trattativa – nella quale anche noi avevamo visto una possibilità e aggiungendo oggi un sincero disinteresse a personalizzare il problema, accollandolo al solo Alexis Tsipras – ci riporta da capo al via e cioè a ciò che anche Effimera osservava il giorno prima del referendum: la decadenza dell’autonomia dell’agire delle istituzioni e delle strutture del potere rappresentativo di fronte ai voleri del capitale finanziario si è fatta esplicita e ci riconsegna, piaccia o meno, a un’aporia che sembra essere costitutiva del presente. L’accettazione delle regole del mercato sembra essere precondizione all’esistenza dello spazio pubblico della rappresentanza. Per quanti sforzi in assoluta buona fede si facciano, puri di cuore e armati di coraggio, tutto ciò finisce per ridurre questa “politica” del decadente occidente a simulazione. Ciò fa introiettare al corpo sociale l’idea che la responsabilità di governo obblighi a scelte e a mediazioni separate dal mandato, “democraticamente” espresso, oppure, ancora, che l’amministrazione del governo debba essere sempre integrata nel sistema, ovvero che si tratti, in realtà, di un’apparenza che si muove lungo binari già prestabiliti, non potendo contare su una separata sfera di influenza. Si tratta di un crinale problematico anche quando Paolo Iglesias, nel difendere la scelta di Tsipras, afferma: “Le norme che regolano il sistema dimostrano che non c’è democrazia in Europa”. Questa considerazione non può che portarci a stabilire allora l’inconcludenza nevralgica di interventi che si muovano nell’orizzonte delle norme di tale “democrazia” rappresentativa, dunque la crisi drammatica dell’edificio della politica istituzionale così come storicamente lo abbiamo conosciuto e la mancanza di senso che riveste l’attraversarlo poiché esso è comunque sottoposto a un puro arbitrio, non aggirabile. Effettivamente, anche Podemos e Iglesias rischiano di doversi confrontare presto per la mancanza di “rispetto democratico” della troika e dei paesi dell’Eurogruppo e dunque di trovarsi avviluppati nello stesso dilemma.

Dal punto di vista dei soggetti si ribadisce insomma, da un lato l’irrappresentabilità, dall’altro la crisi irreversibile di un rapporto di mediazione, se mantenuto nelle stesse identiche forme che storicamente conosciamo. Questa esperienza greca può imprimere slancio alla ricerca di nuove modalità di partecipazione che si faranno vive, germinando da una sconfitta che segna, a suo modo, uno spartiacque. Il tentativo di Syriza è stato utile perché ha consentito la progressiva accumulazione di consapevolezza di tale distanza, che si fa insanabile. Rinnovando i piani del simbolico e della presa di parola, ha evocato e reso visibile lo scarto che esiste tra la realtà deprimente della politica istituzionale moderna, così ridotta, e il bisogno di stare insieme nella sfera pubblica che riemerge e – pur tarpato e bombardato, tra assenza di tempo, repressione, disillusione, meccanismi di distrazione di massa, controllo dell’informazione – riconquista invece il desiderio di esprimersi. Questa “domanda di politica” obbliga a intraprendere nuove strade. L’appello a forme di democrazia diretta, a gestioni comunitarie dal basso, a cellule autogestite e federate può risultare ancora debole e vago. “Comunità” basate sul collegamento e sulla relazione che non siano, come nota Silvia Federici in Il punto zero della rivoluzione, “realtà segregate, cioè un raggruppamento di persone unite da interessi esclusivi e separate dagli altri, come nelle comunità fondate su base religiosa o etnica”. Il riferimento alla “comunità” deve essere inteso insomma innanzitutto come “qualità dei nostri rapporti, come principio di cooperazione e di rispetto: tra noi e rispetto alla terra, le foreste, i mari, gli animali”. Si tratta solo di un primo passaggio, ma essenziale, per apprendere a governarci collettivamente e soprattutto per “rincominciare a concepire la storia come progetto collettivo, una capacità che il neoliberismo ha cercato in tutti i modi di distruggere”. Dunque, sempre seguendo Federici, “se la nozione di commoning ha un significato deve essere quello di produzione di noi stessi come soggetti comuni”. Si può pensare che la vicenda greca riesca a dare, seriamente, finalmente, avvio a questa prospettiva?

Vulnerabilità

Ed ecco un secondo punto, collegato. Nel lungo periodo saremo tutti morti ma questo genere di sistema non lo pensa mai e finisce per fare credere anche a noi il contrario, promettendoci un’immortalità, un infinito, un’assenza di limite, la rimozione di ogni fragilità, debolezza, caducità. La normatività delle istituzione finanziarie impone di non avere limiti, limiti etici, limiti alla proprietà, limiti mortali, indica, anzi, la necessità di un continuo, perenne, superamento dei limiti. La narrazione della trattativa greca è stata viceversa un controcanto, capace di rompere tale faticoso e del tutto fallace impianto superominista, è stata narrazione della vulnerabilità, della debolezza, della mancanza, aspetti che sono essenziali per un posizionamento propedeutico alla lotta, al conflitto. È infatti la riappropriazione di questo elemento di vulnerabilità che restituisce, tra le altre cose, senso alla storia e al tempo, senso alla ricerca del perché dello squilibrio e con ciò anche alla spinta verso la giustizia sociale. A bene guardare, si tratta di una narrazione estremamente più potente di quella dell’autonomia solipsistica del soggetto neoliberista immerso nel disagio della richiesta compulsiva di prestazione, la quale genera solo sofferenza psichica. Essa spinge infatti verso il rinsaldamento dei legami, la condivisione di esperienze, la creazione di un progetto collettivo. Dipendenza e vulnerabilità sono infatti concetti complementari alla vita e al senso dell’esistenza. Per spiegarmi meglio userò le parole di Federico Zappino:

“La dipendenza e la vulnerabilità, infatti, sono anch’esse dati ontologici dell’umano; a differenza dell’ambizione per l’omologazione o per l’automatismo mirano a ridurre la produzione sociale della melanconia, anziché a reiterarla, poiché è proprio dalla loro forclusione che la melanconia si genera. Ciò che questa insistenza sulla dipendenza e sulla vulnerabilità deve comunicarci è che la relazione si fonda principalmente su di una immancabile asimmetria: non già sulla diversità di tratti singolari e unici, ma sulle varie forme in cui questa asimmetria si riarticola nei nostri corpi e nei nostri sguardi

[…]. Insistere sulla relazione, mettersi all’ascolto della misura che in essa si produce dallo scarto delle nostre reciproche dipendenze, può occupare grossa parte del nostro tempo produttivo – e disporci a costruire davvero il comune, che ha bisogno di spazi e di energie desideranti, non melanconiche, né reazionarie”.

Il precario è indebitato, ma ha la sua vita e ha anche il senso della sua morte, sa bene che cosa significa mancare e farsi mancare. In questo sta la sua forza. Si può prendere atto davvero – dopo la trattativa, dopo la vittoria del referendum e dopo la “punizione” – di questa visione per trarne alcune adatte conseguenze?

Violenza e contratto sociale

È violento e mi molesta, il potere, ha scritto Luisa Muraro in un piccolo libro di qualche anno fa (Dio è violent e mi molesta). In queste pagine si ricorda che noi “abbiamo rinunciato alla prepotenza e questo lo abbiamo chiamato contratto sociale”. Dice Muraro: “Non lasciamo che il significato e il valore delle nostre vite, come acqua preziosa messa in un secchio bucato dalla ruggine, siano risucchiati nell’agonia di forme politiche senza anima. Trasformiamo in politica quelle forme di convivenza che pratichiamo giorno per giorno e danno sostentamento alla società”. Anche questa idea si lega alle prime due e le sostiene. Ma voglio in particolare ricordare un passaggio, aggiunto da Muraro, che ci ricorda come il contratto sociale, che sta alle origini della vita associativa della età moderna, si basi sull’occultamento di rapporti sessisti di subordinazione e classisti di sfruttamento – per quanto alle origini contempli anche istanze di trasformazione, sul tema dei diritti e delle diseguaglianze. Le donne per prime hanno messo in discussione il contratto sociale e lo hanno rotto, “vedendo aprirsi orizzonti e alzarsi il cielo, grazie alla nascita di una libertà che non passa dalla mediazione del potere e delle sue condizioni”. Dunque, il punto di vista femminile, in particolare, può insegnare qualcosa ai greci, alle greche, ai popoli d’Europa perché, riprendendo il testo citato, fa luce su possibilità reali che l’invadenza mentale del potere sistematicamente ci nasconde e perché “le donne sono in posizione per sapere tutta la parte di frode che c’è nel racconto moderno sul contratto sociale e nel principio del monopolio statale della violenza”. Allora, va forse nominata, a partire da questa ultima importante esperienza greca, la necessità di promuovere la nostra indipendenza pratico-simbolica dal potere? Certamente, con Muraro, pure in questi momenti bui, voglio celebrare il fatto che “la libera disponibilità delle nostre forze e l’indipendenza simbolica dai mezzi del potere vanno insieme ed è questo andare insieme che ci mostra realisticamente la possibilità che abbiamo di essere in prima persona in ciò che accade”. Forse non dovremmo più scordarcene, da qui in poi.

Fallire e allora vivere

L’ultimo punto riguarda l’arte del fallimento che, su ispirazione di Judith Halbertam, ci viene indicata dalla soggettività queer come una possibilità di lettura utile per comprendere e affrontare questo tempo di crisi, per essere meglio attrezzati a fronteggiarlo, come ha fatto molte volte il laboratorio Smaschieramenti. Privilegiare il presente, avere il senso della caducità e non quello di una proprietà da trasmettere, essere nel tempo precario che è frammentato e non pretende continuità, contare sui benefici della confusione e della deviazione, fuori da ogni costrizione-convinzione ereditaria, patriarcale, maschile. L’inserimento nel contesto del potere di ogni soggettività eccedente finisce per trasformarsi in un nuovo giogo che ne genera il depotenziamento, dunque non rappresenta mai una vera soluzione, nonostante le speranze che, almeno per una volta, si concluda diversamente. Le popolazioni dei paesi dell’Europa del sud possono pensare di avere, con la mancata adesione alla norma del pareggio di bilancio, adempiuto al compito storico di vivere al presente senza farsi condizionare da obblighi futuri eterodiretti?

Un’ultima citazione, da Olivia Fiorilli, che cita a sua volta Judith Butler e parla dell’economia politica della promessa:

“‘La relazione critica (con la norma, ndr) dipende anche dalla capacità, esclusivamente collettiva, di articolare una versione alternativa, minoritaria, di sostegni normativi o ideali che mi consentano di agire’”. Una capacità collettiva che le soggettività queer che coltivano l’arte del fallimento rispetto alle norme dominanti hanno storicamente dovuto imparare per potersi garantire la sopravvivenza. Pertanto la possibilità di disidentificarci dall’ordine vigente, di “disfare e rifare” l’ordine del possibile, dipende (anche) dalla capacità di creare collettivamente spazi e comunità politiche che consentano materialmente e simbolicamente di essere “socialmente possibili” contro le norme dominanti che allocano in modo differenziale riconoscimento e “valore””.

Concludendo, forse…

In questa genealogia composita eppure parziale, in questa corale di voci, in questi saperi da cui imparo, rintraccio i possibili antidoti alla tristezza e all’ansia, alla disillusione e all’assenza di soluzioni che sembrano assediarci dopo quanto è accaduto e pensando a ciò che ancora potrebbe accadere. Queste sono alcune possibili risposte, nell’oggi, che si richiamano alle nostre capacità autorganizzative. Dopo questo affaire Grecia quando si parla di un’altra Europa, di un’Europa alternativa, penso sia sempre più utile riferirsi a indicazioni di pratica politica che già conosciamo e che fanno parte del bagaglio conoscitivo del femminismo e del pensiero queer, oggi innervato dalle analisi sulla potenza della cooperazione sociale. Conclusioni definitive non se ne offrono, ma ricollegarci a questa storia, a queste sensibilità, può già essere un passaggio cruciale, quello che può consentirci di vedere oltre il tetro gioco dell’Europa attuale. Per continuare a costruire nel presente e mantenerci vive e vivi.

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