“Non riuscendo a essere passiva rispetto a ciò che implicava la “manipolazione” del mio corpo, ho dovuto negoziare informazioni, strategie e terapie con medic* e infermier*. La sorpresa più grande è stata proprio ribaltare completamente l’idea che avevo della disciplina medica. La presunta certezza, che nel senso comune è una caratteristica del sapere biomedico, in realtà si è rivelata essere un “governo dell’incertezza” che, per darsi una certa solidità, si arma di protocolli, ruoli, lessico specialistico, talvolta volutamente oscuro, e presunte verità sul corpo”. Con queste parole Viviana Indino, in un articolo intitolato Nod(ul)i di senso e fiocchi rosa, raccontando del cancro al seno, delle retoriche che vi ruotano intorno e delle pratiche che lo accompagnano, ci ricorda quanto la medicina, come tutte le scienze, sia un sapere sociale, che prende corpo nella storia e nei soggetti che lo producono e che riproduce rapporti di potere.  In questo senso la medicina può essere intesa come una pratica di cura, per alcuni versi la pratica che cura per eccellenza, in cui si intrecciano aspetti diversi: dalla femminilizzazione del lavoro alla professionalizzazione neoliberista, dalle linee di potere che corrono lungo i binari dell’autorità a quelle che agiscono utilizzando amore e sacrificio, dalle politiche pubbliche alle organizzazioni dell’intimità. Un luogo e una pratica, quindi, carica di implicazioni anche perché spesso legata al tema del bisogno, della necessità e dell’urgenza.

In Cure ribelli, una pubblicazione che nasce dalle attività di ricerca
 e disseminazione svolte da WeMake nell’ambito del progetto europeo Digital Social Innovation for Europe (DSI), Serena Cangiano, Maddalena Fragnito, Valeria Graziano e Zoe Romano fanno i conti proprio con le pratiche e le organizzazioni della cura, mettendo al centro la dimensione della salute (e quindi della medicina, ma non solo), intrecciandola con quella dell’innovazione sociale e delle tecnologie che le sono necessarie. Per comprendere come si articolino questi nessi le autrici ci aiutano a fare il punto su cosa sia la Digital Social Innovation, una formula spesso ripetuta come un mantra, come un passe-partout che sembra comprendere qualsiasi processo sociale che utilizzi una qualsiasi tecnologia digitale. Ricordare, come fa Valeria Graziano, che “la parola ‘sociale’ in DSI non è una maniera educata per evitare di menzionare la politica” (p. 24) ci permette di osservare ai processi di innovazione sociale con sguardo critico, chiedendoci quanto essi rispondano a logiche di mercato, in cui i problemi sociali che si trovano ad affrontare non devono essere risolti, ma sono resi monetizzabili, e quando invece essi sappiano innescare pratiche che interrogano le condizioni di produzione di quegli stessi poteri. Come sottolinea Zoe Romano, infatti, “se non ci spostiamo esplicitamente oltre il concetto di crescita come indicatore finanziario, si cade direttamente nel paradosso che il successo delle imprese avverrebbe solo se il problema sociale che pretendono di risolvere in realtà non sia mai risolto. Si tratta di allargare la prospettiva e riflettere su quale sia la vera radice del problema, invece di promuovere una visione miope per confondere la relazione tra problema e soluzione al fine di giustificare un approccio mercificato a questioni sociali” (p. 35). Questo significa, però, anche, tenere sempre lo sguardo sulle linee di potere, e di inclusione ed esclusione, che questi processi di innovazione riproducono nel sociale, poiché “solo quando siamo in grado di rilevare una condizione in cui l’equilibrio dei poteri cambia, possiamo dire che stiamo osservando un processo di innovazione sociale. Se non dichiariamo chiaramente questa quale condizione necessaria e sufficiente, ci imbattiamo in molti equivoci e rischiamo di imbatterci in pratiche di social-washing” (p. 33).

Attraverso l’analisi di cosa sia innovazione sociale, le autrici praticano uno sguardo femminista, capace di mostrare come il sociale sia sempre già politico e quanto oscurare questa sua politicità sia un modo per naturalizzare, riprodurre e replicare le discriminazioni e le disuguaglianze. Proprio per questo il tema della cura e della salute è un osservatorio fondamentale da cui guardare l’innovazione e le tecnologie che l’accompagnano. In tutto il testo è chiaro che cura e salute sono intese in modo ampio come benessere, come possibilità, minima, di ottenere condizioni materiali tali da poter immaginare pratiche e processi di autodeterminazione. In questo senso la salute è utile per osservare i processi sociali, poiché nelle pratiche di cura sono coinvolti non solo i corpi, ma anche le soggettività e le condotte che ad esse si richiedono e i processi di naturalizzazione e riproduzione di esclusione sono molto forti. Da un lato, infatti, assistiamo a sempre maggiori professionalizzazioni della cura, che standardizzano le prestazioni, creano monopoli e applicano regole di mercato alle relazioni tra medic* e pazienti, tra insegnati e studenti e tra chiunque sia coinvolt* in una relazione di cura, dall’altro molti lavori di cura vengono costantemente riportati alla gratuità dell’affetto o alla precarietà di lavori sottopagati e in cui le condizioni di lavoro vengono negoziate individualmente (e non è un caso che nel testo si ricordi la condizione delle badanti). Alla presa del mercato, in fondo, si accompagna un vuoto di politiche pubbliche e spesso le tecnologie vengono utilizzate per creare nuove condizioni di dipendenza (dai pezzi di ricambio, dai monopoli, dalle multinazionali) e di esclusione.

Al contrario, nel testo si riportano esempi – da Act Up alle Black Panthers, da GynePunk all’asilo Soprasotto – di pratiche collettive che hanno saputo e che sanno partire da un bisogno per immaginare rapporti di cura e di salute che sappiano essere condivisi, che possano essere pensati insieme, in processi che scardinando la gerarchia tra sapere e potere, mettendo in circolo i saperi, a partire da quelli di chi vive quel bisogno. Si tratta di esempi che sanno ribaltare la logica che vuole che vi sia un soggetto autonomo, sapiente, sacrificale che cura e uno dipendente, opaco a se stesso e arrendevole che viene curato. La cura, al contrario, è una relazione in cui le soggettività si producono nelle pratiche che mettono in campo e in cui non esistono solo due posizioni, ma una molteplicità di scambi e confronti. Non possono essere, quindi, immaginate relazioni verticali, gerarchiche e dei servizi orientati in questo senso, ma vanno pensate, insieme, soluzioni e processi che sappiano partire da tutti i soggetti coinvolti. Parlare di cure ribelli, di cure pirata, significa quindi non soltanto criticare il capitalismo e le sue politiche di monopoli, sussunzione e speculazione, ma anche contrastare l’individualismo neoliberista, che continua a immaginare soggetti autonomi, attraverso il riconoscimento di rapporti complessi di interdipendenza.

Un esempio di questa complessità è segnalato da Valeria Graziano quando si interroga sul ruolo e la salute dei caregivers, mostrando come, spesso le reti di pazienti e parenti che vengono mobilitate per un migliore accesso alla salute, divengano dispositivi che riproducono forme di oppressione, infatti “non solo, i ‘cari’ invocati a fianco dei pazienti ‘empowered’ rischiano in realtà di riproporre strutture di cura familistiche, fondamentalmente organizzate secondo principi coercitivi per lo più verso le donne. Ma tralasciando il problema della remunerazione del lavoro di cura si rischia anche di tralasciare gli effetti e i costi sulla collettività dei caregivers che si ammalano a loro volta” (p. 84). Questo sguardo permette di comprendere che non si tratta soltanto di allargare o democratizzare la cura, ma di ripensare completamente il suo ruolo e l’organizzazione che la sostiene, mettendo in discussione le linee di classe, razza e genere lungo cui si articola. Per fare questo, però, come ricorda Maddalena Fragnito, bisogna tenere a mente la “necessità di includere i/ le pazienti nel design delle soluzioni che si cercano, ovvero di ascoltare coloro che ne saranno influenzati a vita: smettere quindi di prendere decisioni (sbagliate) in stanze bianche e lontane dalla realtà, e tra persone che non hanno una specifica esperienza in merito” (p. 79-80). Per ripensare la cura, in fondo, non si può che partire dalle esperienze, dal loro darsi e dai modi di raccontarle, per poter utilizzare il sapere davvero come uno strumento e non come una gabbia, una griglia dentro cui incastrare le vite.

Cure ribelli, così, ci aiuta come una cartografia delle esperienze di sovversione della cura e del loro significato, dotandoci di una mappa per orientarci in un intreccio complesso, che si nutre di resistenza e controcondotte, mentre domanda un accesso universale alle possibilità di un benessere, qualunque esso sia per il soggetto che lo richiede. Una sfida non semplice, che ci obbliga a ripensare la nozione di universalità come un insieme multiplo di necessità diverse, di fini diversi e di vite diverse, ma tutte meritevoli di una cura capace di dare spazio all’autodeterminazione.

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