La giungla del sistema degli ammortizzatori sociali in Italia sta raggiungendo livelli parossistici. Durante la pandemia, a seguito delle conseguenze dei lockdown, il tema del reddito pareva essere diventato dirimente per poter far fronte alle esigenze di sopravvivenza quotidiana.
Infatti, dopo un breve periodo di assestamento, le grandi corporation del capitalismo di piattaforma ne hanno approfittato per velocizzare il processo di ristrutturazione favorendo la diffusione dell’e-commerce, dei social network, dell’intrattenimento online, delle forme di controllo, di profiling e di estrazione dati, a esclusivo vantaggio dei profitti. Nel frattempo, il governo è intervenuto con una politica di ristori e di sostegno diretto al reddito, fondati su logiche sporadiche e confuse e così creando spesso distorsioni e iniquità.
In tutto questo, sul fronte dell’azione politica critica si è persa probabilmente una occasione, perché ci si è trovati schiacciati tra l’ideologia della “responsabilità” di fronte al problema inedito del Covid-19 e la mancata convergenza delle proposte di contrasto all’impoverimento sociale ed economico in atto.
Il risultato è stato che vizi e difetti del sistema degli ammortizzatori sociali sono ulteriormente peggiorati. La ragione sta nel semplice fatto che la “ratio” delle politiche di sicurezza sociale non viene messa in discussione di fronte a una realtà del “lavoro” e della società del tutto diversa da quella esistente quando i primi provvedimenti sono stati varati.
Ma quale è il senso della politica italiana di protezione sociale? Quella di intervenire ogni volta con un diverso strumento quando si aprono nuove falle nel sistema a causa dell’emergere di qualche nuova figura precaria e non protetta, sulla base delle trasformazioni del mercato del lavoro. Così, se negli anni del boom economico era in funzione il sussidio di disoccupazione, con riferimento alla figura del lavoratore dipendente e stabile, con l’inizio della crisi fordista, comincia a prendere piede il dispositivo della cassa integrazione (che oggi ha assunto tre diverse forme: ordinaria, straordinaria, in deroga), a tutela di lavoratori e lavoratrici che smettono di lavorare ma formalmente non perdono il posto di lavoro, in presenza di ristrutturazioni aziendali. Negli anni Novanta, a seguito della prima fase della liberalizzazione dei licenziamenti collettivi, viene istituita l’indennità di mobilità, a cui seguono con l’esplosione della precarietà, l’Aspi, la Naspi, la Discoll e oggi il RdC per i cosiddetti “poveri”.
Si tratta di un inseguimento (in eterno ritardo) delle nuove forme del lavoro, partendo sempre dal principio che è la condizione lavorativa che deve essere tutelata, non la persona. Con l’emergenza sanitaria, si è continuato, pervicacemente, su questa strada, sino ad arrivare a inventarsi il Reddito di Emergenza e vari interventi “una tantum” per le diverse attività professionali. Il risultato è una giungla di provvedimenti, dove è inevitabile che qualche categoria finisca per essere esclusa.
Occorre rovesciare questa logica perversa: garantire un reddito minimo a prescindere dall’appartenenza a qualche segmento di lavoro, in modo strutturale e non temporaneo. In questa trappola hanno corso il rischio di cadere anche movimenti, perorando ora una soluzione, ora l’altra e mai facendo davvero fronte comune.
L’accanimento fallimentare di tale politica si è accentuato negli ultimi mesi. Il Decreto “Aiuti” (Decreto Legge 17 maggio 2022, n. 50) stabilisce l’erogazione di un bonus familiare di 200 euro per fronteggiare la perdita di potere d’acquisto del reddito a seguito del crescente aumento dei prezzi. Ancora una volta, tale misura (al di là delle valutazioni sulla sua efficacia, vista la cifra miserevole) viene erogata in modo selettivo e non universale. Compaiono infatti le diverse figure dei possibili percettori: lavorator* a partita Iva, lavorator* dipendenti (con la clausola di non accesso se un membro della famiglia già lo percepisce), lavorator* autonomi (ma manca a tutt’oggi il decreto attuativo, quindi l’erogazione è ancora incerta), colf, lavorator* domestici, lavorator* stagionali e anche coloro che sono al di fuori del mercato del lavoro, come i pensionati, i disoccupati e i percettori di reddito di cittadinanza. Le condizionalità principali sono due: non avere un reddito imponibile sopra i 35.000 euro l’anno e percepire una remunerazione nel mese di luglio, la mensilità prevista per il versamento. La seconda condizione è particolare e colpisce una parte consistente del lavoro precario.
Coloro che, nel pubblico o nel privato, vedono terminare il proprio contratto il 30 giugno non potranno godere del bonus. Infatti, anche se nel mese di luglio risultano disoccupati, la circolare INPS 73 – 2022 stabilisce che si ha diritto al bonus 200 euro se disoccupati, a condizione che la prestazione sia in corso di validità da giugno 2022. Teniamo presente che molti contratti a termine scadono il 30 giugno. Ciò vale, ad esempio, per le migliaia di lavorator* precari della scuola (docenti e Ata). Costoro non potranno godere del bonus. Una assurda ed evidente discriminazione.
Inoltre, proprio in questi giorni il Consiglio dei Ministri ha approvato un emendamento (sempre all’interno del decreto Aiuti) che introduce nuovi vincoli al reddito di cittadinanza, ammettendo anche, nel computo delle offerte “congrue”, la chiamata diretta dai privati. Secondo le nuove disposizioni, avanzate dai partiti del centrodestra come Lega, Fratelli d’Italia, Noi con l’Italia, e Forza Italia, ma votate anche dal PD e da alcuni ex 5S, adesso passati a Di Maio, coloro che rifiuteranno un’offerta lavorativa ritenuta “congrua” da un datore di lavoro privato saranno estromessi dall’erogazione.
Secondo la restrizione, il beneficiario è obbligato ad accettare almeno una delle tre proposte ricevute, come è previsto dal Patto per il Lavoro, ossia il Patto di inclusione sociale. Al momento del rifiuto, il datore di lavoro potrà comunicarlo al Centro per l’impiego che potrà provvedere alla decadenza del sussidio. Cosicché i datori di lavoro privati svolgeranno pure attività di sorveglianza.
I beceri media – sul tema generalmente allineati – arringano che in tal modo si porrà fine allo “scandalo” della difficoltà a reperire lavorator* stagionali per ristoranti, alberghi, stabilimenti balneari, problema che deriva dal fatto che i giovani sono sfaticati e preferiscono a godersi il reddito di cittadinanza (decreto “spazza divani” è stato anche chiamato). Paradossalmente, tale emendamento conferma invece ciò che già sapevamo.
Nella stragrande maggioranza dei casi, i datori di lavoro quando hanno bisogno di manodopera non si rivolgono ai Centri dell’Impiego, che hanno la funzione di verificare la congruità dell’offerta di lavoro nel rispetto delle norme in materia di tutela e garanzie per i lavorator*, ma preferiscono cercarla in modo individuale, senza intermediazione, a fini di risparmio economico e di selezione.
Lo “scandalo” italiano non sta in chi prende per 18 mesi un aiuto economico dallo Stato, ma in questi “datori di lavoro” che non passano dai Centri per l’impiego, con conseguente mancanza di controllo sulle condizioni offerte.
Si registra infatti un interessante aumento della rigidità dell’offerta di lavoro nei confronti delle attività sottopagate e precarie, con lo spostamento del lavoro stagionale verso altre forme di attività. I dati Istat ci dicono che, nel corso del 2021, è aumentata dell’1,5% la fetta degli “stagionali” che ricompaiono nelle comunicazioni dei centri per l’impiego come “non stagionali”. In sostanza: hanno cambiato lavoro, magari scegliendone uno più sicuro o pagato meglio. Seguendo, infatti, i percorsi degli ex stagionali, si scopre che, in molti casi, sono andati a fare i commessi nei negozi e i cassieri nei supermercati. E soprattutto, attraverso i concorsi pubblici banditi per il personale Ata della scuola, si osserva un aumento dei ricollocati come bidelli negli istituti scolastici.
Si noti, per inciso, che tale processo di “riconversione” ha interessato prevalentemente la componente maschile, in settori di arrivo prevalentemente femminili, favorendo così un’ulteriore espulsione delle donne dal mercato del lavoro.
L’emendamento in discussione intende ostacolare questa dinamica, cioè evitare che la difficoltà di reperimento di manodopera costringa i datori di lavoro ad aumentare i salari e a migliorare le condizioni di offerta del lavoro. Consentendo la “chiamata privata” senza passare dal Centro per l’Impiego, di fatto si dà mano libera a un’ulteriore deregulation della prestazione lavorativa, obbligando ad accettare condizioni scarsamente attraenti, pena la perdita del sussidio. Forme di coazione al lavoro invece che di difesa e di tutela del lavoro precario, dunque del lavoro più fragile.
Di fronte a questa desolante situazione, in previsione di un ulteriore peggioramento della dinamica dei redditi (che sconta anche la mancanza di un salario minimo per chi non gode realmente dell’ombrello del CCNL), rimane solo una cosa da fare: cominciare una battaglia politica e sindacale, unita, compatta, determinata, condivisa, per una riforma strutturale del sistema di protezione sociale verso un’unica misura di reddito di base libero da obblighi comportamentali (quindi incondizionato) in grado di sostituire progressivamente la maggior parte dei variegati e inefficienti strumenti oggi esistenti.
Un programma minimo, in difesa del lavoro ma anche della libertà di scelta, dei diritti della persona, del valore del tempo, del valore della vita.
Articolo pubblicato anche sul sito di BIN Italia
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