Cara Lucretia,
ecco a te una vera e propria lettera!
Un paio di pensieri che mi girano nella testa mentre inizio la mia giornata. Sto pensando a voce alta, davvero, ma il treno dei pensieri è stato messo in moto da te, quindi spero che lascerai che viaggi.
Stamattina c’è un freddo gelido sul fiume. Il giardino sta diventando bianco, e la sabbia della spiaggia, oltre il mio muro, è diventata dura e resistente sotto i passi. Non ho freddo perché dormo sotto tre piumoni che mi tengono deliziosamente al caldo. Ma so che se voglio resistere al freddo devo lavorare sul mio corpo con tutta l’energia necessaria.
Questa era, in ogni caso, la promessa che mi ero fatto da quando sono arrivato qui sul fiume, dieci mesi fa. Allenarmi con una combinazione di lavoro sia mentale che fisico. Diventare una specie di contadino-intellettuale, con l’odore di terra fresca e foglie e alghe nelle narici quando poi vado a occuparmi dei miei scritti e traduzioni.
La mia routine è semplice, come in qualsiasi altra mattina. Appena mi sveglio, mi metto i miei stivali neri di Wellington – Dunlop Argylls con la suola rossa, li adoro! – e vado in giardino. Prendo il sarchiatore, il rastrello e la vanga e mi dirigo verso il terrapieno della ferrovia, sul retro della mia baracca. Mesi fa ho deciso di scavare sul lato di questo terrapieno e di creare delle terrazze dove potrò coltivare la frutta e la verdura, in primavera. Il lavoro è faticoso, ma è proprio questo il punto. Deve essere faticoso. Mi piego nel terreno, e la terra è una massa di radici aggrovigliate di varie piante, in particolare la rosa di Sharon, che qui è cresciuta selvaggia per decenni. Faccio leva su questo e quello per liberare il terreno dalle radici e, a poco a poco, si scoprono altri, pochi, centimetri di terrazza. I treni, nel frattempo, passano regolarmente sulla linea, a una distanza di circa quindici metri da dove lavoro, ma credo che nessuno mi noti.
Sento che adesso sto sudando. Il calore si estende a ogni parte del mio corpo. E ormai il sole è alto sopra le colline verso il mare in lontananza e avverto che il suo calore mi arriva attraverso gli strati di vestiti che ho addosso. Meglio ancora, mentre sollevo e strappo le radici del rovo mi rendo conto che ora sto ansimando per lo sforzo. Presto sarà ora di colazione.
Ogni colazione è un piacere particolare sulla mia riva del fiume, proprio perché ha questo duro lavoro come premessa. A volte allargo le terrazze. A volte rastrello via centinaia di chili di grandi alghe verdi che si riversano sulla mia battigia. A volte raccolgo la vecchia ghiaia della ferrovia che è arrivata alla spiaggia e la utilizzo per perfezionare ulteriormente il mio cerchio per le ostriche. A volte spalo sabbia e cemento e preparo una serie di grossi mattoni che userò per la prossima ristrutturazione. Qualche volta remo vigorosamente attraverso il fiume per andare a prendere questo e quello. Qualche volta mi occupo dei tronchi della grande catasta di legna secca che il fiume offre ogni giorno – mille tagli di sega prima di colazione, e tengo volutamente la mia sega un po’ smussata per rendere questa occupazione ancor più faticosa.
I miei compagni italiani – i quadri rivoluzionari di un tempo – stanno avviando un progetto speciale di “inchiesta” – lo chiamano “inchiesta” – su quello che la gente fa in questi tempi di malattia e di follia. Come sopravvivono le persone, quali sono le loro speranze (o meno) per il futuro, come trovano il modo di vivere una buona vita e una vita che risponda alle esigenze del cambiamento politico e sociale? Questa è una buona idea. Per troppo tempo le persone sono state spinte a prendersi cura solo di sé stesse e verso l’isolamento. Dobbiamo guardare avanti, verso la politica che ci sosterrà nel prossimo periodo.
Ho avuto una mezza idea di suggerire ai compagni la mia routine quotidiana di esercizi fisici nella terra come parte integrante di un programma politico-personale che potrebbe servire a tutti. Ma poi ho pensato anche che non tutti hanno un tale tesoro di terra e di acqua a disposizione. Poi, pigramente, il mio pensiero si è rivolto a te, che probabilmente ti stai svegliando sulla tua barchetta a quest’ora e stai per accingerti ad affrontare la realtà di un mattino gelido che si schiude davanti a te.
Ho pensato tra me e me: la barca di Lucretia è probabilmente ormeggiata vicino a un parco, da qualche parte. O forse in qualche appezzamento di terra che appartiene allo stato. Che cosa sarebbe successo se avesse deciso di scendere dalla sua barca, ogni mattina, per lavorare quel pezzo di terra – un po’ di pirateria terrestre sottovoce – e per piantare alberi ed erbe, e far crescere ciò che doveva crescere con l’arrivo della primavera? E poi ho pensato: come sarebbe stato se molti londinesi avessero deciso di fare lo stesso? Invece di fare le loro passeggiate giornaliere nel parco, quelle autorizzate dal governo, avrebbero potuto portare sarchiatori, vanghe e rastrelli, e ognuno di loro avrebbe potuto iniziare a coltivare un piccolo appezzamento di parco comunale. Tutti “socialmente distanziati”, naturalmente, per motivi legati all’epidemia…
Immaginate – questo potrebbe diventare un nuovo movimento di giardinaggio urbano sovversivo. Tutti eccitati, dopo un buon lavoro con le mani nella terra. E alla fine avremmo anche città che fioriscono e sbocciano con ogni tipo di frutta e verdura per il bene della comunità!
Questo, per il momento, è tutto quello che avevo da dire.
Stai bene,
Ed
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ORIGINAL VERSION IN ENGLISH
7 January 2021
Dear Lucretia,
This morning there is icy frost on the river. The garden is scaled in white, and the beach sand beyond my wall is crusted hard and resistant to my tread. I am not cold because I sleep under three duvets which keep me deliciously warm. But I know that if I am to keep the cold away, I have to work my body vigorously.
That is anyway the promise that I have made to myself ever since arriving here on the river ten months ago. To exercise a combination of both mental and physical work. To become a kind of peasant-intellectual, with the smell of fresh soil and leaves and seaweed in my nostrils as I go about my business of writing and translation.
The routine is as simple as on any other morning. As soon as I wake, I pull on my black Wellington boots – Dunlop Argylls topped with red, I love them – and out into the garden. I take my iron fork, my rake and my spade and I head to the railway embankment at the back of my shack. Months ago I decided that I would dig into the side of this embankment and make terraces where I shall be able to grow my fruit and vegetables in the spring. The work is hard – but that is precisely the point. It needs to be hard. I fork down into the ground, and the earth is a mass of matted roots of various plants, notably rose of Sharon which has grown here unchecked for decades. I lever this way and that to release the soil from between the roots, and gradually another few inches of terrace are opened up. Express trains pass regularly on the down line at a distance of about fifteen feet, but I don’t think anyone notices me.
I can feel that by now I am sweating. The warmth is extending to every part of my body. And by now the sun has risen above the seaward hills in the far distance and I can feel its warmth coming through the layers of clothing on my back. Better than this, as I tug and heave at the roots of bramble I realise that I am now panting with the effort. Soon it will be time for my breakfast. Every breakfast is deep pleasure on my riverside, because it always has this hard work as its prelude. Sometimes I dig the terraces. Sometimes I rake the hundredweights of rich green seaweed that wash up on my foreshore. Sometimes I gather old railway ballast off the beach and barrow it down to further perfect my oyster circle. Sometimes I shovel sand and cement and manufacture a batch of large bricks that I shall use for the coming rebuild. Sometimes I row across the river to fetch this and that. And sometimes I saw the logs from the large pile of flotsam driftwood that is the river’s daily offering – a thousand saw cuts before breakfast, and I purposely keep my saw a little blunt so as to make the cutting all the more effortful.
My Italian comrades – the seasoned revolutionary cadres of yesteryear – are starting a special project of “inquiry” – they call it “inchiesta” – into what people are doing in these times of plague and madness. How are people surviving, what are their hopes (or otherwise) for the future, how are they finding ways to live a good life and a life that responds to the needs of political and social change? This is a good idea. For too long, people have been driven into internal cares and isolation. We need to look ahead to the politics that will sustain us in the coming period.
I had half an idea to suggest my daily routines of physical earth action to the comrades as part of a political-personal programme that could serve for all. But then I thought that not everybody has such a treasure of land and water at their immediate disposal. Then, thinking idly, my thoughts turned to you, probably waking up on your little boat at about this time and facing the realities of an icy morning ahead.
I thought to myself: Lucretia’s boat is probably moored next to a park somewhere. Or maybe some piece of land that belongs to the authorities. How would it be if she decided that every morning she would climb out of her boat and dig that piece of land – a bit of sotto voce land piracy – with a view to planting it, and making things grow as the spring comes on? And then I thought, how would it be if lots of Londoners decided that they would do the same? Instead of just taking their permitted government-sanctioned daily walks around the park, they could bring fork and spade and rake and each begin to cultivate a little patch of municipal parkland of their own. All “socially distanced”, of course, for reasons of the plague…
Imagine – this could become a whole new movement of subversive urban gardening. Everybody energised with good earthly work. And at the end we would have cities that are blooming and blossoming with every kind of fruit, vegetable and verdure for the good of the community!
That, for the moment, is all that I have to say.
Be well,
Immagine in apertura: Ed with his dog and fiddle aboard ‘Abu Jihad’ (Photo by Ed Emery)
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