Ragionando di crisi ecologica, soprattutto di crisi climatica, sia le analisi che le proposte per il cambiamento si muovono spesso nell’ambito delle scienze naturali, della tecnoscienza, della politica e delle politiche. L’interrogazione sulle culture, sulle rappresentazioni e sulle pratiche situate è però altrettanto preziosa. Se, sicuramente, il cambiamento climatico si articola come fenomeno globale e complesso, è altrettanto vero che esso si incarna in materialità e processi variabili, di piccola e media scala. Nel fare ciò, interseca discorsi e pratiche sedimentati le cui temporalità sono attuali e al tempo stesso hanno radici nel passato, si tendono verso il futuro. L’antropologia culturale aiuta a interrogare tale spazio materico, sensuale e al tempo stesso semiotico, e apre al pensiero di una praticabilità, sia della crisi che dell’alternativa. Proponiamo allora oggi un estratto dal libro Campati per aria, di Mauro Van Aken, di recente pubblicazione per Eleuthera Editrice, che ringraziamo: un’incursione sfaccettata su clima, aria, tempo e senso contemporaneo del cambiamento.

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La natura nelle sue manifestazioni quotidiane è sempre meno un concetto stabile e di fiducia; all’opposto, nella nozione di clima in cui abbiamo relegato idee e speranze di armonia, equilibrio, stabilità e anche stagionalità, ritroviamo inquietudine, incertezza e instabilità. Il detto più ovvio e comune, ovvero «che tempo fa?», incontra oggi piogge estreme o bombe d’acqua che alimentano la paura collettiva nelle tante zone a dissesto idrogeologico; siccità molto prolungate con grandi difficoltà per i piccoli agricoltori; l’espandersi di incendi che mostrano potenzialità inconsuete; o ancora «emergenze neve» e «emergenze maltempo». La natura «riemerge» come minaccia e degrado inediti per i tempi: era stata rimossa come oggetto a disposizione e si ripresenta come invasiva e dinamica. «Caos climatico» e «clima impazzito» sono definizioni dei media veicolate pubblicamente: qualcosa di irrazionale si presenta proprio dove socialmente abbiamo relegato dei significati fondativi di regolarità, di stabilità, del riconoscerci nelle fluttuazioni del tempo.

Da decenni la natura ci «cade dall’alto sulla testa» (Serres), vecchie abitudini e riconoscimenti della memoria sociale non aiutano ad ambientarsi nel nuovo tempo atmosferico. Pensiamo solo a una definizione identitaria, e assieme climatica, della nazione italiana come «Bel paese», dove il «mal tempo» sembrava interrompere, nella mia generazione, l’aria temperata e assolata del mite clima mediterraneo. Questo ormai assume significati ribaltati: nuove bombe d’acqua con intensità di piogge inusitate, o assenza dell’auspicata pioggia in città per abbassare le micropolveri e permettere la riapertura del traffico automobilistico.

Ciò che abbiamo costruito come equilibrio del clima, si ripresenta nel suo opposto: dimensioni tropicalizzanti e sahariane diventano sempre più usuali in Italia, bombe d’acqua cambiano la fisionomia e la percezione, oltre che i rischi, delle turbolenze estive e invernali, nuove tipologie di nuvole si stagliano all’orizzonte (desk clouds), tornado mediterranei diventano sempre più diffusi. Le stagioni faticano a indicarci dei passaggi nel cambiamento del tempo sociale, ma anche il resto dell’ambiente assume un aspetto disorientante: i boschi si presentano facilmente disseccati, il Po scompare facilmente nei mesi estivi, le aree urbane affrontano bolle di calore, le migrazioni degli uccelli in arrivo dall’Africa subsahariana subiscono alterazioni, nuove varietà di volatili colonizzano i nostri ambienti surriscaldati, le farfalle cambiano areali, gli anfibi sono influenzati dalla perdita di umidità, nuovi insetti attaccano gli orti, il mare erode le coste. Non solo le sentinelle che annunciavano il «passare del tempo» sono disarticolate, ma sentiamo nei nostri luoghi un ambiente che si trasforma ma senza padronanza umana; l’ambiente si presenta come Altro, fuori-categoria, emergenza continua, e la paura prevale, anche senza disastro ambientale.

Non che, ad esempio, l’aria fosse percepita come natura edenica e armoniosa: l’inquinamento urbano da polveri sottili o le piogge acide degli anni Ottanta hanno già alterato le dimensioni del bello e brutto tempo metropolitano, si stagliavano già come un ibrido moderno, invisibile ma impattante sulla salute sociale. I connotati ambientali che orientavano il sociale si sono ribaltati. La pioggia e il sole hanno certamente modificato i propri significati nel passaggio dalla memoria e pratica contadine (la buona pioggia nel periodo sperato) alla realtà urbana contemporanea (la buona pioggia in caso di micropolveri oltre i limiti di legge), ma i nuovi eventi atmosferici in termini di scala e intensità sollecitano forme di spaesamento, di crisi, di perdita, anche in relazione alle istituzioni politiche e amministrative preposte: non sentirsi curati e protetti come cittadini da questa «invasione» atmosferica, da un tempo poco familiare, riemerge come crisi fondamentale.

Umberto Eco, in un articolo del 1971 firmato con lo pseudonimo Dedalus, ironizzava sui titoli dei media a proposito del meteo estivo come «Afa a Milano», «Caldo insopportabile a Roma», mostrando come parlare e scrivere del tempo avesse un ruolo stabilizzante proprio perché confermava ciò che lettori e cittadini già sapevano:

La prima ragione di questo procedimento dipende da quello che ormai è un teorema delle comunicazioni di massa: esse trionfano quando dicono ai propri utenti quello che sapevano già. Non vi è nulla di più confortante che sentirsi ripetere notizie già possedute. L’utente non viene messo in crisi (Eco, 1971).

Parlare del meteo come di stagioni che segnano il passare del tempo cronologico e generazionale, ma anche del tempo sociale ed economico (la produttività agricola, ad esempio), indicava quanto il «cittadino tranquillo non dovesse mai uscire dall’utero». Era diventato ormai troppo scontato che il ritmo atmosferico scandisse fasi più o meno uguali e ritmate a orientare il tempo sociale: era un medium di riconoscimento stabile. Ciò a conferma dell’intimità che abbiamo, fondativa ed emotiva, oltre che produttiva e sociale, con il tempo atmosferico e il suo fluttuare, ovvero la sfera fondante di cui si cibano le identità sociali nel costruirsi e riconoscersi in relazione ai territori. Ma il meteo come modalità di leggere il tempo era già una naturalizzazione e una stabilizzazione che nascondeva interdipendenze dimenticate, il legame culturale con l’ambiente atmosferico e le dimensioni emotive che ne sono connesse. Quel cielo di supposte regolarità e passaggi ordinati, di aspettative e clima mediterraneo del Belpaese, del sole e del mare, è proprio ciò che oggi definisce la crisi, l’emergenza, l’imprevedibilità. Il meteo, segno misurato di supposte regolarità nelle nebulose invisibili dell’atmosfera, non segna più passaggi, bensì trascrive continui estremi non riconoscibili e disorientanti, o immette un grande passaggio di tempi nuovi, senza precedenti, e soprattutto senza saperi e strutture simboliche annessi. Il tempo cambia, ma non abbiamo ancora le parole per significarlo, per orientarci nei suoi flussi, e tanto meno, per elaborare socialmente il nostro ruolo climalterante e quello dei nostri sistemi di produzione.

Le parole con cui denotiamo il tempo meteorologico sono da sempre modelli per definire l’esperienza del nostro tempo sociale, del «clima culturale», delle dimensioni emotive e intime delle comunità, dell’«aria che tira», e ciò vale per tutte le culture. Anzi, il linguaggio stesso è profondamente atmosferico, utilizza storicamente metafore che hanno le loro radici nei rapporti con l’aria, a mimarne e rimarcarne un aspetto fondativo, un ambientamento etereo dei significati esistenziali e morali di tutte le culture, aspetti però dimenticati nel contemporaneo. Il tempo atmosferico e il tempo sociale sono profondamente interrelati nelle culture e lo spaesamento dell’uno è sempre un tremore per l’altro.

Lo stesso termine di perturbante con cui abbiamo analizzato la nozione di natura deriva non a caso da «perturbazioni» e dalle «turbe» del cielo: è l’inquietudine che da sempre connota le dipendenze dai potenti flussi atmosferici, così poco dominabili che per analogia utilizziamo per parlare di rapporti meramente umani e sociali, escludendo le relazioni non-umane. Nelle parole si è sedimentata anche l’intima relazione culturale che definisce il nostro coinvolgimento atmosferico, la dimensione prevalente in cui siamo avviluppati e che tutte le culture hanno cercato di rendere familiare, di leggerne i segni e gli umori: proprio ciò che oggi riemerge come impensabile e scandaloso, come crisi che arriva dal cielo.

La turba è confusione, scompiglio, agitazione, e prende questi significati dal greco týrbē, come «alterazione di regolarità»1. Ciò perché l’atmosfera ha sempre rappresentato l’emblema della processualità, della variabilità e dell’irregolarità, molto più instabile e fluida rispetto alle definizioni di stabilità terrestre metaforizzate nel nostro meteo, o con le idee di stabilità materiale con cui metaforizziamo i territori. La turba è appunto l’emblema di una dinamica che è a fondamento di tutte le culture, movimento che arriva dall’atmosfera, una relazione che abbiamo tradotto dal cielo per definire le dinamiche dis-turbanti sociali o soggettive. Da sempre il tempo turba, pone e impone cambiamenti da cui dipende la vita sociale ed economica (a partire dal ciclo dell’acqua), mette in tensione il tentativo culturale di familiarizzare le regolarità sempre dinamiche e inquiete, pone limiti e scadenze alla vita sociale.

In realtà, l’idea di irregolarità, di ripetizione e di dinamiche di alterazione nei fenomeni aerei, da cui dipendiamo per le piogge, le temperature, l’acqua, i venti, è il carattere che da sempre ha più connotato i significati di ciò che sta «sopra», da cui ci siamo però dissociati: un mondo di nuvole, correnti, venti, invisibili, ma immediati e multisensoriali, in cui siamo immersi. Non a caso, le metafore atmosferiche sono l’icona per definire le dimensioni di incertezza, precarietà, vulnerabilità del sociale, tanto da tornare anche come metafore centrali nei linguaggi scientifici. La diversità dell’aria turba per la sua invisibilità, icona della dinamica e della forza o energia, e per il fatto che ci avvolge completamente e ne siamo dipendenti, ci fa casa, rischio e risorsa. Le «meteore», come si definivano un tempo, sono quindi un’antica icona della forza di attori ambientali, segno da leggere per i rischi, i limiti, le dipendenze e l’intimità nel dare senso all’ambiente e nel riconoscersi anche emotivamente con i propri luoghi. L’atmosfera è da sempre esistenziale e morale da un punto di vista culturale.

Le parole del tempo sono metafore centrali per parlare delle nostre dinamiche sociali e mostrano quanto le culture siano profondamente relazionate all’atmosfera e alle sue dinamiche di flusso instabile e complesso. L’ambiente non è solo terrestre ma è soprattutto atmosferico, e questo aspetto dimenticato oggi si ripresenta come potenzialmente catastrofico per le inusitate emissioni climalteranti, tutte terrene e materiali, dell’economia del carbonio. Perciò il tempo atmosferico, da base di stabilità sociale, produttiva, emotiva nell’abitare i luoghi, si sta trasformando in emblema di incertezza e di spaesamento; e le scale inedite e accelerate ne fanno più un «fuori luogo» che una base di identificazione.

Molte nostre parole emotive nascono da relazioni atmosferiche. «Sereno» nasce nell’accezione italiana da un cielo limpido, senza nuvole, ma che esprime non solo il carattere di un agente atmosferico, ma soprattutto di un soggetto umano o di una società «tranquilli». Esso deriva dal latino serenus, ritradotto poi nelle biblioteche dei monasteri come propriamente «secco», come assenza di acqua, nuvole o nebbia e presenza di sole, e in quanto «non perturbato» ha preso i significati di «limpido» e «tranquillo», dove il carattere del tempo in cui si è immersi diventa analogia per definire il carattere sociale e territoriale. La nozione di «calma», che nasce per definire «bonaccia, assenza di vento, stato di quiete del mare» (dal greco kaûma, vampa, calore ardente), è stato traslato per denotare la calma interiore, sociale ed emotiva. Niente sembra turbare nella calma. Dipendiamo materialmente dall’atmosfera anche per i significati che costruiamo: le temperie in cui viviamo sono, e ancor più si amplificano con i cc, flussi, interazioni e mescolanze che non sono esterne, o gestite da noi, ma sono l’ambiente dinamico che le culture da sempre navigano, coltivano, mangiano e pregano.

La stessa origine dei termini con cui definiamo i cambiamenti sociali è sedimentata nel linguaggio di origine atmosferica. Le temperie si rifanno al temperare, «il complesso delle condizioni climatiche e atmosferiche in un determinato luogo», in contrapposizione a intemperie, come stato mite dell’atmosfera: nel passato il significato normativo era la processualità del tempo, il suo «temperare» la società con i suoi movimenti, anziché l’opposto come avviene oggi, dove la norma si è adagiata sull’assenza di temperie. Le temperie denotano anche «il particolare carattere di un determinato ambiente o momento culturale e storico, considerato in relazione ad avvenimenti che ne sono il frutto o l’espressione», come proporzionata mescolanza di elementi umani e ambientali. Le «in-temperie» denotavano invece l’alterazione delle temperie, e quindi non la stabilità, ma piuttosto un senso di familiarità culturale con ciò che è più potente: cioè l’abitudine a condizioni locali percepibili, che risultano riconoscibili, sensate, che definiscono stagioni agricole ma anche stagioni di vita.

È chiaro che un monsone con un certo carattere nel nord dell’India è normale, ma è anormale nella forma di bombe d’acqua per come le viviamo oggi in Italia: per normalità intendiamo perciò l’abitudine sviluppata nelle generazioni a ciò a cui si è esposti. È l’eccessivo, l’estremo, l’uscita da abitudini, tempi e spazi riconoscibili e familiari che definiscono quindi una perturbazione, che è diventata oggi perturbante proprio perché danneggia cicli agrari, provoca rischi a cui non si sa rispondere, immobilizza piuttosto che attivare forme di risposta sociale. Ma le temperie a cui si è abituati, e che si riconoscono come proprie in una data cultura e ambiente, non hanno mai composto una condizione stabile e sotto controllo, come è avvenuto con la costruzione del meteo, bensì costituiscono da sempre un tentativo di familiarizzare una continua processualità sui territori e sulla fragilità della condizione umana. Di fatto, il tempo è venuto a definire una notazione ideale, molto morale e oggi normativa. Queste forme di riconoscibilità del tempo «normale», o sperato, sono ben evidenti nella nozione di temperato – «mescolato in giusta proporzione», moderato, cioè non eccessivo – per definire in climatologia le due zone della superficie terrestre comprese tra i tropici e i circoli polari, con temperature annue ed escursioni moderate, stagioni ben definite e piogge ben distribuite. Questo acclimatamento a un contesto temperato è idealizzato attraverso le virtù morali conferite storicamente alla temperanza come controllo ed equilibrio emotivo o sociale, un’idealizzazione di un’appartenenza.

Ma le metafore con cui capiamo il mondo, così evidentemente derivate dalle relazioni storiche con l’atmosfera, sono appunto ambientate e contestuali all’aria e ai suoi effetti terra terra. In Olanda la percezione culturale del tempo non è connotata da un’idea normativa di bel sole e clima mediterraneo ma dal vento come principale medium dell’abitare quelle terre basse. In nederlandese weer (tempo) deriva da weder, a significare «tempo, vento, luce, tempesta» come connotati fondanti; lo stesso weer deriva in effetti dall’antico prussiano wetro, vento, in una prossimità, tanto da farsi coincidenza, con il vento nell’esperienza culturale olandese. La normalità del tempo è la variabilità di buien (temporali) e storm (tempesta), una variabilità di luci e ombre continue trascinate dal vento sempre presente, un’idea di processualità come norma, dove quindi il bel tempo solare assume una dimensione idealizzata ma straniera2. Gli aggettivi meteorologici, ad esempio, sono inversi rispetto a un canone mediterraneo: i caratteri del vento sono quelli principali, il più frequente è il ventilare e piovere con varie gradazioni: donkere lucht (luce scura), zwaar weer (tempo pesante), bedekte lucht (luce coperta) o «sole temporaneo»; raro (ma sempre più frequente nelle nuove estati in cambiamento) è Zon maar (solo sole), definito anche zeer zacht weer (tempo molto dolce, molle) e coincidente non a caso con Windstilte (silenzio di vento). Weer inoltre significa, in una coincidenza di parola, anche «ancora», «nuovamente», che ben definisce il connotato del tempo come processualità e movimento di correnti. Evidente quindi come il vento sia un attore principale, con molteplici caratteri, rischi e risorse, della storia olandese (il vento è stato il motore della pesca delle aringhe o della flotta militare e commerciale nell’impero delle Indie), e con una forte presenza sociale: il vento forte (hevige wind) definisce non solo un temporale ma anche le emozioni sociali, tanto che le perturbazioni sono facilmente definite come «sberle di vento» (wind slaan), attacchi (wind anvaal), schiacciamenti (neerslag), temporali arrabbiati (boze bui). Da qui anche le espressioni correnti afferenti al sociale come bewind (letteralmente «avventato») con cui si esprime il controllo o il comando della gestione di un’attività o impresa. In questa atmosfera di parole, si può allora capire un’espressione così identitaria e ambientata assieme come Mooi weer spelen (letteralmente «giocare il bel tempo»), che connota uno stato di felicità e sorpresa per il temporaneo stato di permanenza di sole rispetto alla normalità di eventi atmosferici cangianti. Un «piccolo sole» (zonnetje), seppur tra nuvole, in questo contesto è già espressione di piacere, di bel tempo.<

Come mostra Serres (1995), il sapere di ciò che sta in alto, nelle Meteore abitate un tempo soprattutto dalle divinità, è diventato, con l’illuminismo e la nascita della meteorologia, tanto il tempo atmosferico con lo studio delle sue forze, quanto lo studio del tempo cronologico, misurabile e standardizzabile. Ma ciò che ha sempre caratterizzato il rapporto con l’atmosfera è la relazione con alcuni aspetti fondamentali: i fenomeni caotici al di sopra dell’umano, l’aleatorio, l’erratico per la complessità dei suoi flussi nei quali siamo immersi, l’idea di circolazione piuttosto che di fissità, il vorticoso rispetto al separato e al confinabile. Ci sono quindi molteplici caratteri connessi a una profonda incertezza, a dinamiche di flusso e del molle rispetto alle scienze dure, di interazione tra forze che disegnano il mondo. Alle metafore del fluido – aereo o liquido – per capire il mondo, si sono sostituite nella nostra cultura metafore del solido, come la stabilità della «roccia dura» del cogito cartesiano, e alle metafore circolari e caotiche, quelle lineari: «Abbiamo espulso lo sguardo sulle meteore» e allo stesso tempo abbiamo divaricato la distinzione tra tempo atmosferico e tempo meteorologico dove il tempo-time si è dissociato dal tempo-weather. Così scrive Serres:

Temperare, temperanza, temperamento, tempesta, intemperie, temperatura, tutti termini della stessa famiglia del tempo, elementare, che li compone, designano, insieme, infatti, una miscela, il cui funzionamento o figura precedono, associano e federano i due sensi, cronologico e meteorologico, del termine tempo, unico nelle lingue latine, e corrispondente a due vocaboli separati nelle lingue germaniche: time o Zeit e weather o Wetter, linguaggi che hanno dimenticato o lasciato volentieri questa comunanza forte (1995, p. 385).

Oggi misuriamo una previsione del tempo, ma socialmente non sappiamo più spiegarci il tempo, non solo perché cambia, ma anche perché lo abbiamo delegato a un ambiente-natura a parte, distante e dissociato là sopra, composto da un vuoto piuttosto che un pieno di mescolanze e flussi: abbiamo perso le nostre relazioni culturali con l’atmosfera. Ma oggi il cielo torna a essere l’attore principale della crisi climatica, è diventato un contenzioso geopolitico nel definire i privilegi connessi al rilascio di co2 o gli impegni a decarbonizzare le economie nazionali. I gas climalteranti oggi sono il rifiuto più perturbante della nostra realtà, a cui manca un sistema di simbolizzazione (è immateriale nel cielo staccato da noi), di riconoscimento (non si vede, non ne sappiamo molto se non dati numerici lontani dall’esperienza), di comprensione del legame con le cose terrene, dal momento che non ne capiamo direttamente le concause terra terra e globali assieme. La co2 è il grande rifiuto contemporaneo nel doppio senso: è uno scarico aereo dell’economia basata su combustibili fossili, questi sì molto tangibili nella nostra vita quotidiana, che allo stesso tempo ci rifiutiamo di ammettere, seppur consapevoli delle conseguenze disastrose che stiamo provocando e nonostante che già dalla fine degli anni Sessanta si conosca l’effetto dei gas serra: chi inquina può continuare a farlo, anzi è sussidiato come leva per la crescita e la modernità.

Gli studi di Alliegro su rifiuti, roghi tossici e proteste sociali in Campania mostrano molto bene come ciò che «rifiutiamo», alla base materiale di ciò che produciamo per essere smaltito immediatamente, è anche ciò che rimuoviamo, nascondiamo e non capiamo nella nostra interazione ambientale, e che però riemerge nel degrado, nel rischio, nella malattia e nel conflitto locale. Come Douglas ha mostrato, il rifiuto sporco è innanzitutto disordine all’interno di un sistema simbolico, perché «dove esiste un rifiuto esiste un sistema». I rifiuti, attorno a cui sono nate mobilitazioni e conflitti sociali in Campania, sono «generatori simbolici» (Alliegro, 2017), molto dinamici e slittanti, di pratiche e rappresentazioni pubbliche, come nelle proteste e nei comitati spontanei organizzati per mobilitare le comunità locali di fronte alle minacce dei roghi e dei loro rilasci pericolosi, in «processi di identizzazione che l’arrivo dei rifiuti sollecita» (ibid., p. 146). La minaccia di termovalorizzatori o di roghi tossici riattiva una risocializzazione del territorio e del senso di comunità come agente. Ma ciò che emerge al contempo è quanto i rifiuti stessi agiscano come nuove forme metaboliche, diventando degli «attanti pubblici», quindi socialmente agenti: «Considerati detriti del consumismo, reliquie del benessere, anonimi frammenti di storie individuali, i rifiuti indubbiamente sono oggetti perturbanti, esito di dinamiche di classificazione socio-culturale indissolubilmente connessi alle pratiche di vita» (ibid., p. 158).

Oggi la co2 è il nuovo attante planetario, il nuovo attore così vicino a noi e invisibile assieme, tanto più che sta per aria con conseguenze meno immediate di altri inquinanti contro i quali le popolazioni locali si sono mobilitate. L’ipcc (2018) richiede «cambiamenti rapidi, di ampia portata e senza precedenti in ogni aspetto della società»; i media lanciano emergenze quotidiane sui cambiamenti del clima, proprio dove avevamo riposto gran parte del nostro senso di stabilità e di sicurezza. E siamo rimasti senza parole per capire il tempo, tanto più che dipende da un sistema planetario del clima, e non da sfere locali, proprio come i gas climalteranti non si trattengono nei confini nazionali. Per lo più visualizziamo la gravità dei cc nel sud del mondo o comunque lontano da noi, non riuscendo a trovare azioni sociali e politiche a una crisi che si pone come esistenziale. Alcune icone ben mostrano questo immaginario di messa a distanza: orsi polari o pinguini su ghiacci in scioglimento, inaridimento dei suoli e rifugiati ambientali nel sud del mondo, incendi devastanti anche negli Stati Uniti o in Australia, e tuttavia il carbon as usual persiste e la politica si focalizza su altre crisi e paure più identificabili.

Un’altra risposta al «che tempo fa» è sempre più quella scientifica, misurabile con quantificazioni statistiche. L’anno appena passato, al momento in cui scrivo, è stato il quarto anno più caldo a livello globale, e il più caldo in assoluto degli ultimi 219 anni, quando sono iniziate le rilevazioni, con un aumento di temperatura media in Italia pari a 1,58 gradi in meno di cinquant’anni. Il tempo cronologico che ho vissuto è stato denotato da un incremento di temperatura e di tendenza alla variabilità del clima del Belpaese che non è mai stato registrato dalle generazioni che mi hanno preceduto, e dunque dai loro saperi e proverbi sul tempo, dalle abitudini culinarie o di costume (vestirsi) a esso connesse. Inoltre, «l’aumento rispetto al periodo 1880-1909 è pari a circa 2,5 gradi, quindi più del doppio del valore medio globale» (Cassardo, 2019), con degli impatti perciò più forti rispetto alla sola media europea. In sintesi, il cambiamento climatico nelle misurazioni e nei dati raccolti e comparati è ben presente non in lidi lontani ma qui a casa nostra. Ma nonostante questi record, «nella percezione della gente comune il 2018 non viene considerato un anno particolarmente caldo» (ibid., 2019) perché febbraio ha segnato un freddo sopra la media, e da aprile a giugno si sono avute piogge sopra la media, che hanno fatto dimenticare la mancanza di piogge che si è protratta per sei mesi fino all’inverno. Le percezioni del tempo e il senso che ne viene conferito sono molto diverse dai dati e dalle misure del tempo. I dati del clima non collimano con le percezioni locali proprio perché rappresentano due costruzioni culturali differenti, lontane e vicine all’esperienza, e i rapporti culturali con l’atmosfera sono innanzitutto esperienze e strutture di significati.

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