Ho passato circa una settimana, che è il minimo per festeggiare un vero Halloween, vestita da sposa cadavere (il personaggio di Tim Burton). E a un certo punto ho cominciato a chiedermi davvero di che cosa fossi morta. E la risposta è di clima, anzi di cloro.

L’accordo di Parigi era stato troppo ottimista: secondo i dati IPCC, in realtà, moriremo prima.

[1] E anche questa volta ho subito pensato a Taranto. Ma non l’ho capito subito. Prima ho fatto sogni terribili, poi, anche se la letteratura se ne occupa da decenni (vd. qui), ho deciso di trovare una personale connessione tra il fatto planetario e la storia individuale.

Alla domanda seria che tutti si rivolgono alle feste di Halloween, di che cosa sei morto? rispondevo con una bugia sull’abuso di Ambien e pinot noir, ma avevo in testa un’altra fine: immagini da Armageddon in una cappella Sistina dipinta da sconcertanti pittori lombardi, come Gaudenzio Ferrari (andate alla pinacoteca di Brera e capirete). Santi Cristi e Madonne, una ressa di teste tagliate e seni turgidi durante il supplizio, ragazzi trafitti o già cadaveri con un parterre di popolino a guardare. I ricchi arcigni, invece, ritratti composti dai volti bianchissimi in cima a strati di mussola nera. Nelle flagellazioni di Simone Peterzano c’è una suprema gioia di punire che quasi si avvicina al tema profano di Gaudenzio Ferrari, dove un orrendo satiro sfila un panneggio di seta blu dalle cosce di un’ingenua ninfa botticelliana. L’unico tema veramente profano resta forse la sua natività di Maria. Maria viene partorita da Sant’Anna in un cerchio di femmine accorse all’evento, dove non resta più neanche un angioletto bambino.

Il clima sembra una cosa difficile ma può diventare un fatto sublime. Ha una misura negativa, cioè numerica, che infrange il nostro linguaggio percettivo, ma è pure una dismisura di relazioni politiche rimesse a una scala planetaria. Sul piano politico è solo distopia. Sul piano del mondo conosciuto, però, il cambiamento climatico, questa morte lenta a cui la specie umana sembra andare incontro come nella leggenda sulla naturale tendenza dei lemming al suicidio, non è per niente una notizia bizzarra.

Per esempio, quando si passa dall’Adriatico allo Jonio si attraversa quel pezzetto di Puglia tra Lecce e Taranto che significa attraversare il pianeta Marte. Alberi, caseggiati, erbaccia, silos, ponti, asfalto, la rete di strade e d’impianti, tutto il visibile è ricoperto e probabilmente costituito al suo interno di una polvere rossa e rugginosa. E Marte è un paesaggio sublime.

Le fiamme in cima alle torri sono sempre accese. L’Ilva non dorme mai. Quasi mai. Perché nell’ultimo decennio, qualche volta, è stata costretta a rallentare. Nel quartiere Tamburi, com’è noto, ci sono i tassi di mortalità per tumore più alti in Europa. Il cambiamento climatico è il sintomo di questo modello marziano. E il modello marziano prima di essere ambientale è politico. Un modello ripetuto centinaia di volte, in centinaia di luoghi.

Il modo migliore per capire il meccanismo sociale e politico che produce Marte è un libro indimenticabile: Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale (2018) di Alessandro Leogrande, che raccoglie i suoi scritti prima di morire. E morire giovane.

Scritto da uno di quegli intellettuali che se ne vanno via troppo presto, prima di fare scuola, Dalle macerie è incentrato su una domanda semplice: perché le crisi al Sud, o meglio, in alcune città del Sud, invece che riorganizzare la società in senso progressista, diventano l’occasione per rafforzare e consolidare la Reazione?

La Reazione è quel miscuglio di ultradestra, sanfredismo, eterie e logiche carcerarie, rassegnazione, legame tra malavita e industria, scempio urbanistico e segregazione della povertà. Il disastro ambientale, questo c’insegna Leogrande, prima di essere ambientale è umano e politico. Così l’ultradestra di Cito sembra il laboratorio politico di Trump e l’atteggiamento di rimozione e fiducia nel “bene” che spesso hanno i ceti più progressisti non fa che consolidarla. Anche riguardo al clima, l’unico modo possibile è partire da sé. Fare etnografia, con pazienza e costanza, come Leogrande.

Ricordo uno dei pranzi della domenica.

A Ginosa, un paesotto in collina tra Puglia e Basilicata, che insieme ad Altamura, Montescaglioso, Laterza, Matera, altri piccoli centri e Gravina, appunto, è parte di una zona geografica delle Puglie che passa per essere la terra delle gravine. Ora, il prestigio urbano di Matera, e di questa configurazione paesaggistica, cresce con l’operazione UNESCO, la costituzione di un polo turistico e la candidatura a città europea della cultura, mentre tutto il resto della zona è quasi in abbandono. La terra delle gravine, che negli anni 2000 doveva diventare parco nazionale, un progetto chissà perché naufragato, è divisa tra regioni e province diverse. E qui, se crediamo al vecchio storico Braudel, la legge della continuità geografica può essere un motore di scambi più forte dei confini politici. Ma finora non lo è stato. Quello che è stato, invece, se penso a fenomeni riconducibili al cambiamento climatico sono due eventi, a loro modo, antitetici. E uno di questi due eventi mostra che c’è un’alternativa alla nevrosi da climate change, cioè a quella ridicola oscillazione tra soluzioni etiche primitiviste e ultra-tech (in altre parola, l’oscillazione tra il “me ne vado a vivere in campagna” e il progetto ITER —mega-struttura per un esperimento internazionale in Francia, sulla termofusione nucleare, il sogno di usare l’acqua come energia. La costruzione è ancora in corso e si prevede il primo collaudo nel 2035. Cominciata più di vent’anni fa, i suoi ingegneri intanto sono diventati nonni e la costruzione, chiaramente, è finanziata con miliardi di milioni di euro. Tutto questo ha una scala non solo percettiva, temporale e politica, ma anche finanziaria, decisamente astratta. Ed è astratta perché siamo poveri). Ma torniamo al ricordo.

Nel 2006 in una serata invernale per una notte il paese di Ginosa restò al buio, così, di punto in bianco. Era colpa, dissero, di un incidente agli impianti ENEL. Era il tempo dei blackout in tutta Europa e quel blackout aveva coinvolto tra i 10 e i 15 milioni di persone. Un altro a Roma nel 2003 pare avesse avuto luogo durante la notte bianca. L’infrastruttura vacilla e si riaggiusta.

Quella sera a Ginosa nel 2006 era un momento di estasi. Niente di terribile accadde che sia stato riportato. Niente omicidi, furti, né stupri. Tutti si riversavano nelle strade, in un’intima oscurità. Un grande sciopero generale dall’elettricità dev’essere così, come il blackout del 2006.

A casa, al buio, non c’era niente da fare. Si poteva stare fuori più a lungo con il fidanzatino e la gang. Incontrare conoscenti di età variabile, al buio, per strada, e sentire storie, e anche condividere un po’ la paura che restasse sempre così. Al buio siamo tutti un po’ più uguali.

Being out of the grid was cool!

Le alluvioni del 2011 e 2013 invece non sono state per niente cool. Animali trascinati a mare dall’esondazione del fiume Galaso, alluvionati che hanno vissuto per mesi negli hotel della marina deserta, raccolti distrutti, crolli nel centro storico, soldi che non arrivano, che arrivano tardi, che non ci sono, non ci sono più, non ci saranno mai. E così, anche il centro storico del paesotto sempre di più si sfalda e riaffonda nel proprio sottosuolo carsico, mentre le conferenze dei paesi stanziano fondi di adattamento, mitigazione, resilienza e altre meraviglie, fondi che hanno la stessa reale consistenza dei miei incubi manieristi sui pittori milanesi che invadono Roma.

I festival d’estate ora si fanno nei parcheggi fuori dai palazzi grigi degli anni Settanta. I dipinti a tema religioso, che ancora s’intravedono sulle pareti delle grotte che per alcuni secoli hanno ospitato chiese protocristiane, ritornano al proprio stato naturale, segni confusi, raramente con un preciso significato. Ma restano luoghi segreti, senza pubblicità, che non tutti possono visitare.

Probabilmente questo Halloween sono morta di nostalgia, non di cloro.

 

NOTE

[1] Come scrive Emanuele Bompan nell’articolo del 9 ottobre 2018 su Linkiesta “Riscaldamento globale, indifferenza totale: i dati sono catastrofici, ma in Italia non interessa a nessuno” viene anche da chiedersi se i giornalisti non abbiano una responsabilità in questo. Se non ci sia qualcosa nella materia in sé a terrorizzarci, cioè la sua complessità, o se non si tratti invece di dover “fare più chiarezza” o educare anche le redazioni più vecchiotte.

 

Immagine in apertura: TarantIlva, fotografia di Benedetta Polignone

Print Friendly, PDF & Email