Presentiamo in queste pagine alcune testimonianze, analisi, scritti, fatti e accadimenti che hanno visto l’azione di San Precario a 20 anni dalla sua apparizione il 29 febbraio 2004 a Milano.

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Il 29 febbraio del 2004, data precaria per antonomasia, visto l’anno bisestile, a Milano in un supermercato Coop della periferia Nord di Milano appare San Precario. Sarà la prima volta di una serie di apparizioni che continueranno per una decina d’anni sino a Expo 2015, prima a Milano, poi in Italia sino all’Europa.

Gli antefatti

San Precario comincia a farsi strada da quando nel lontano 1997, all’indomani dell’approvazione del Pacc(hett)o Treu (che introduce per la prima volta il lavoro interinale in Italia e i Co.Co,Co e favorisce l’ulteriore privatizzazione dell’accesso al lavoro, smantellando così i centri di collocamento pubblici), nasce a Milano il primo collettivo politico in Italia di analisi e di lotta sulla condizione di precarietà, denominato “di Via dei Transiti”, dal luogo (una nota casa occupata di Milano) dove si riunisce.

In questo ambito vengono organizzate le prime azioni di denuncia contro il lavoro precario, davanti alle sedi delle prime agenzie interinali che trovano collocazione soprattutto in centro a Milano (via Larga). Ma comincia soprattutto un lavoro di contro-informazione e di svelamento del concetto di  , che alla fine degli anni ’90 trova molta eco all’interno della sinistra riformista e del sindacato concertativo: il termine flexicurity è l’unione di “flessibilità” e “sicurezza” (sociale) e rappresenta la linea maestra della deregulation del mercato del lavoro all’interno dell’ideologia neoliberista della compatibilità economica. Si dovrebbe declinare in due tempi: il primo è quello della flessibilizzazione del mercato del lavoro che apre a nuovi contratti di ingresso nel mercato del lavoro che rompono con la figura omogenea del contratto di subordinazione a tempo indeterminato, creando in tal modo una nuova figura molteplice di lavoratore/trice. Tali nuove figure dovrebbero favorire una maggior produttività e una maggiore crescita economica, incrementando l’ingresso nel mercato del lavoro in forme più convenienti. Tale crescita avrebbe dovuto consentire il reperimento delle risorse per creare, in un secondo tempo, la creazione di un adeguato sistema di sicurezza sociale per il lavoro atipico. Il condizionale è d’obbligo. Come si denunciava all’epoca e come puntualmente si è verificato successivamente, tale secondo tempo non è mai cominciato. Così la flessibilità è tracimata in precarietà.

All’epoca la narrativa era molto diversa. Anche a sinistra si sosteneva che la precarietà era lo scotto da pagare per entrare poi stabilmente nel mondo del lavoro. Anche qui due tempi. A tale scopo, nel 1998 nasce la struttura sindacale della CGIL NIdiL (Nuove Identità di Lavoro) per rappresentare e tutelare le lavoratrici e i lavoratori somministrati e atipici. Si sancisce così, anche nell’ambito dell’azione sindacale, una separazione anche formale tra precari e non precari, quasi a confermare una distinzione lavorativa tra “insider” e “outsider”, come si diceva all’epoca, secondo la quale per aumentare i diritti e le garanzie degli “outsider” (i precari) bisogna ridurre quelli degli “insider” (i lavoratori stabili). Inoltre il lavoro flessibile veniva ritenuto più rispondente ad una generazione più istruita, maggiormente inserita nelle attività creative e non materiali. Era anche la condizione necessaria per far valere le proprie competenze e mostrare il proprio valore in un’ottica meritocratica e selettiva. Cominciava a delinearsi quell’economia della promessa che sino a poco tempo fa (almeno sino alla sindemia del Covid19) ha definito spesso le soggettività precarie più accomodanti e meno conflittuali.

Contemporaneamente era necessario sviluppare informazione e coscienza sull’evoluzione del contratto di lavoro, la sua natura giuridica e i diritti che, pur essendo ancora vigenti, spesso nella nuova condizione precaria non venivano garantiti, anche perché spesso ignoti. È con questo scopo che nel marzo 2001 viene pubblicato, all’interno della collana MAP di DeriveApprodi, il volume “Mi fletto ma non mi piego. Come orientarsi nella giungla della flessibilità” a cura di Tommaso Spazzali e Gino Tedesco (con prefazione di Andrea Fumagalli), tutti attivisti del Collettivo contro la precarizzazione di Via dei Transiti: il primo manuale di informazione per raccapezzarsi tra i crescenti contratti precari.

Le modalità di azione e di comunicazione del Collettivo di Via dei Transiti, tuttavia, riflettono alcune dinamiche tipiche dei movimenti degli anni precedenti (stesura di volantini classici, un linguaggio che richiamava il conflitto di classe del ‘900, forme di mobilitazione statiche poco appealing, ecc.) che risultano inadeguate a intercettare le nuove generazione post movimento pantera, in un contesto culturale e underground che si muove lungo direttrici meno massimaliste e più aperte ai nuovi fenomeni di aggregazione giovanile, come i rave, i “reclaim the street” e nuove forme di sperimentazione creativa del linguaggio. Il risultato è una difficoltà di aggregazione, che colpisce non solo il Collettivo di Via dei Transiti ma anche altre soggettività del movimento antagonista milanese.

Contemporaneamente, ma anche paradossalmente, con l’avvicinarsi del nuovo millennio, il tema della precarietà del lavoro comincia a interessare alcuni centri sociali e gruppi di ricercatori e intellettuali che aveva dato vita nel decennio degli anni ’90 alla cd. stagione delle riviste autoprodotte, da Riff Raff, DeriveApprodi, Luogo Comune, Infoxoa, Altreragioni, ecc., al cui interno venivano sviluppate analisi sulla trasformazione del lavoro e del paradigma di accumulazione capitalista.

E’ da questa ricerca di nuove modalità di sperimentazione dell’agire politico e comunicativo, unitamente allo sviluppo di analisi teoriche e sociali più rispondenti ai mutamenti in corso nell’organizzazione del lavoro, della produzione e del consumo che prende avvio, sempre a Milano, l’esperienza dei Chainworkers presso il Centro Sociale Bulk. Decisamente una ventata di aria fresca! Il nome fa riferimento alla catena del lavoro non più della fabbrica taylorista, oramai esternalizzata e ridimensionata (ma non scomparsa) ma della grande distribuzione organizzata, il settore, insieme alla logistica, in cui la componente precaria è più rilevante e tendenzialmente in crescita. Oltre al tema della precarietà, il collettivo affronta anche la tematica della critica al consumismo come strumento di captazione della vita degli individui e primo passo di quella mercificazione della vita che oggi sempre più appare essere il vero perno del processo di accumulazione e di sfruttamento capitalista.

Noi siamo la generazione post-socialista, la generazione del dopo guerra fredda, della fine delle burocrazie verticali e del controllo sull’informazione. Siamo un movimento globale  neuropeo che porta avanti la rivoluzione democratica scaturita dal Sessantotto mondiale e lotta contro la distopia neoliberista oggi al culmine. Siamo ecoattivisti e mediattivisti, siamo i libertari della Rete e i metroradicali dello spazio urbano, siamo le mutazioni transgender del femminismo globale, siamo gli hacker del terribile reale. Siamo gli agitatori del precariato e gli insorti del cognitariato. Siamo anarcosindacalisti e postsocialisti. Siamo tutti migranti alla ricerca di una vita migliore. E non ci riconosciamo in voi, stratificazioni tetre e tetragone di ceti politici sconfitti già nel XX secolo. Non ci riconosciamo nella sinistra italiana” (M. Tarì, I. Vanni: “On the Life and Deeds of San Precario, Patron Saint of Precarious Workers and Lives

Si comincia a intervenire sul concetto di flexicurity in modo diverso dalla versione “ufficiale” cara al governo di centro-sinistra e si comincia a declinare anche il tema di un reddito di base incondizionato, pur con tutte le contraddizioni del caso. Il tema del reddito incondizionato era altamente dibattuto. Non si era tutt* d’accordo e infatti i cinque assi della precarietà, dichiarati nel santino di San Precario, reclamano: casa, giusto compenso, accesso alla conoscenza, trasporti gratuiti, benessere (ossia sanità e relazioni).  Il dubbio principale è il rischio che si possa creare uno scambio tra reddito garantito e servizi sociali, anche se tale baratto non era certamente auspicato da chi sosteneva l’introduzione ad un reddito minimo incondizionato, pari alla soglia di povertà relativa. In ogni caso, si afferma un netto rifiuto del lavoro salariato stabile in nome di una richiesta di autodeterminazione della propria vita e dei propri desideri.

Sul tema si rimanda al libro collettivo “ChainWorkers, lavorare nelle cattedrali del consumo”, sempre edito da DeriveApprodi, 2001, nella collana MAP. Al Bulk, Chainworkers incontra altre anime: quella dei rave, quella delle parate antiproibizioniste e delle street parade. E nasce così l’idea di festeggiare il 1 maggio in un modo diverso, “non necessariamente contro i sindacati confederali, che facevano la loro manifestazione al mattino. Ma portando un punto di vista diverso, con un linguaggio più vicino al nostro”, come afferma un’attivista di quell’epoca.

Il 1 maggio 2001 a Milano nasce, così, la Mayday Parade. Cinquemila persone, quell’anno, sfilano nel centro della città. Un numero che sarebbe cresciuto di anno in anno, fino ad arrivare ai 50mila del 2004 e ai 100.000 del 2007. Per poi coinvolgere altre città europee. Nel 2004 per la prima volta si tiene sia a Milano che a Barcellona e da Mayday Parade diventa Euromayday. Nel 2005 si diffonde in oltre 10 diverse città europee e successivamente aggregando anche alcune città del Giappone.

San Precario

L’idea di San Precario nasce durante un’assemblea di costruzione della Mayday e di dibattito sui temi ad essa collegati nel gennaio 2004. Non si sapeva più a che santo votarsi. L’immagine di San Precario è presa in prestito da un artista canadese, Chris Woods che aveva realizzato alcuni dipinti ambientati in un fast food, uno dei luoghi tipici della precarietà e che erano stati pubblicati sulla rivista canadese Adbusters. L’immagine di San Precario nasce come nuova forma di comunicazione e di immaginario. Nell’era del pieno sviluppo delle comunicazioni e in pieno successo del libro di Naomi Klein “No logo” (pubblicato nel 2000), il brand diventava la nuova religione e quale migliore subvertising di questa religione poteva essere creato se non San Precario?

Nel sito di San Precario  si può scaricare il santino e le preghiere da rivolgere al santo: “San Precario è il nostro santo protettore. Insieme a lui chiediamo continuità di reddito, una casa, l’accesso ai servizi, ai saperi e ai trasporti, i diritti che sono riassunti nei cinque assi della precarietà”.

LA PREGHIERA DI SAN PRECARIO

Oh San Precario,

Protettore di noi, precari della terra

Dacci oggi la maternità pagata

Proteggi i dipendenti delle catene commerciali,

gli angeli dei call center,

le partite iva e i collaboratori appesi a un filo

Dona a loro ferie e contributi pensionistici,

reddito e servizi gratuiti

e salvali dai lugubri licenziamenti

San Precario, che ci proteggi dal basso nella rete,

prega per noi interinali e cognitari

Porgi presso Pietro, Giacomo, Paolo e i Santi Tutti

la nostra umile supplica

Ricordati delle anime in scadenza di contratto

torturati dalle divinità pagane,

libero mercato e flessibilità

Che si aggirano incerte senza futuro nè casa

Senza pensioni né dignità

Illumina di speranza i lavoratori in nero

Dona loro gioia e gloria

Per tutti i secoli dei secoli.

Amen

Dopo l’apparizione alla Coop del 29 febbraio 2004, San Precario inizia ad apparire frequentemente. In occasione del momento consumistico di Halloween, il 30 ottobre 2004, nell’ambito della campagna “tutti santi (i precari), tutti stronzi (i padroni)”, viene compiuta un’azione di sensibilizzazione di denuncia delle condizioni di precarietà nella grande distribuzione all’Esselunga di Via Ripamonti a Milano, che finisce con una collettiva bevuta con i clienti e gli addetti- Ma finisce anche con la denuncia di 21 attivisti da parte della Digos, il primo di altri tentativi di rispondere con la repressione.

Sarebbe lungo ripercorrere le azioni dirette, le campagne (prima fra tutte “Cash&Crash”) e le vertenze sindacali agite dal collettivo di San Precario (Sea Aeroporti, Wind-Omnia, Feltrinelli librerie, Teatro alla Scala, Fiera di Milano Rho, Esselunga, Atm, Metalli Preziosi, ecc., ecc.). Sul sito  ci sono ben 150 pagine di documentazione.

Ci limitiamo a una cronologia sui generis di San Precario dal 2005 al 2015

Prima apparizione del Santo – 2004

Video

Primo compleanno del santo – azione

Pillole precarie video

Serpica Naro: 2005

https://www.serpicanaro.com/serpica-story/serpica-naro-il-media-sociale

City of God: 2007-2010

https://www.precaria.org/free-and-free-press.html

https://city.precaria.org/

https://www.precaria.org/city-of-gods-vuole-te.html#more-121

https://www.precaria.org/rassegna-stampa-city-of-gods-1.html

95 tesi sulla precarietà. Occupazione della borsa a Milano 29 ottobre 2008

Video dell’azione

https://www.precaria.org/incursione-alla-borsa.html#more-222

https://www.precaria.org/amarcord-1-le-95-tesi-contro-la-precarieta-ovvero-come-combattere-la-bestia.html#more-27834

N.1  LA PRECARIETÀ UCCIDE

N.2  LA PRECARIETÀ È ESISTENZIALE OLTRE CHE LAVORATIVA

N.3  LA PRECARIETÀ È STRUTTURALE

N.4  LA PRECARIETÀ È GENERALIZZATA

N.5  LA PRECARIETÀ È PRIVAZIONE DI SPAZIO, DI TEMPO

N.6  ANCHE CHI HA UN CONTRATTO STABILE È PRECARIO

N.7  LA PRECARIETÀ È DI CASA, QUANDO SI DEVONO PAGARE AFFITTI STELLARI

N.8  OGNI FLESSIBILITÀ SENZA GARANZIE E REDDITO SI  TRASFORMA IN PRECARIETÀ

N.9  LA PRECARIETÀ È TUTTO INTORNO A TE, OVUNQUE

N.10  LA PRECARIETÀ È CONDIZIONE INTIMA ALLA METROPOLI

N.11  LA PRECARIETÀ È L’EUROPA DEL PROFITTO

N.12  LA PRECARIETÀ È NELLA SOCIETÀ, DOVE C’È IL DOMINIO

            DELL’ESSERE UMANO SULL’ESSERE UMANO

N.13  LA PRECARIETÀ È NEL CORPO, E SPEGNE IL CERVELLO

N.14  LA PRECARIETÀ È DONNA

N.15  LA PRECARIETÀ È GIOVANE MA NON SOLO

N.16  COMBATTERE LA PRECARIETÀ SIGNIFICA CONOSCERE LE DINAMICHE DEL POTERE E COME SI PRODUCE RICCHEZZA

N.17  COMBATTERE LA PRECARIETÀ SIGNIFICA SUPERARE LE PAURE INDIVIDUALI PER COSTRUIRE FIDUCIA COLLETTIVA

N.18 LA CRISI FINANZIARIA È ALIMENTATA DALLA PRECARIETÀ

N.19 STOLTO È CHI CREDE CHE SIANO I PRECARI A CAUSARE LA CRISI FINANZIARIA

N.20 LA CRISI FINANZIARIA È MADRE E SORELLA DELLE CRISI AMBIENTALI

N.21 DOVE CI SONO SOLDI PER SALVARE LE BANCHE CI SARANNO ANCHE PER DARE UN’ESISTENZA DEGNA AI PRECARI

N.22 I PRECARI AMANO, SOFFRONO, CREANO, VIVONO; LE BANCHE SPECULANO

N.23 I BROKER NON FANNO I BABY SITTER NEGLI ASILO NIDO

N.24 ANCHE I BROKER PIANGONO: CIÒ NON CI INTRISTISCE

N.25 GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI NON DEVONO SERVIRE AD AMMORTIZZARE LE PERDITE DEGLI SPECULATORI

N.26 LA CRISI FINANZIARIA VE LA PAGATE

N.27 FRA LA BORSA E LA VITA SCEGLIAMO LA VITA

N.28 LA PRECARIETÀ È POTENZIALMENTE SOVVERSIVA

N.29 LA PRECARIETÀ È NELLE NOSTRE VITE

N.30 LA PRECARIETÀ È UNA BRUTTA VITA

N.31 LA PRECARIETÀ È IL SENTIMENTO D’ IMPOTENZA

N.32 LA PRECARIETÀ SI ALIMENTA CON IL CONSENSO E IL RICATTO.

N.33 LA LOTTA CONTRO LA PRECARIETA’ E’ GIOIA

N.34 SE LA PRECARIETÀ È PENITENZA, LA COSPIRAZIONE FRA PRECARI È IL RISCATTO

N.35 COSPIRARE È RESPIRARE INSIEME

N.36 IL LAVORO È MIGRANTE È TRANSNAZIONALE

N.37 NELLA CONDIZIONE MIGRANTE VI È L’APOTEOSI DELLA PRECARIETÀ

N.38 IL LEGAME TRA PERMESSO DI SOGGIORNO E CONTRATTO DI LAVORO PRECARIZZA E RICATTA I LAVORATORI E LE LAVORATRICI MIGRANTI

N.39 SE I MIGRANTI SONO RICATTABILI, TUTTO IL LAVORO SI PRECARIZZA

N.40 LA BOSSI-FINI È UNA LEGGE SUL LAVORO E PRODUCE PRECARIETÀ

N.41 LA BOSSI-FINI PRODUCE CLANDESTINITÀ

N.42 ANCHE SE NON TUTTI POSSIAMO ESSERE ESPULSI SEPERDIAMO IL LAVORO, SIAMO TUTTI CLANDESTINI

N.43 NESSUNA PERSONA NASCE CLANDESTINA

N.44 IL RAZZISMO NON È SOLO CULTURA, MA UNA SCELTA POLITICA VOLUTA

N.45 IN ITALIA E IN EUROPA, OVUNQUE, IL RAZZISMO C’È: LO PRATICANO GOVERNI E ISTITUZIONI.

N.46 IL RAZZISMO ISTITUZIONALE RENDE POSSIBILE LO  SFRUTTAMENTO DEL LAVORO MIGRANTE.

N.47 LA COSCIENZA DELLA PRECARIETÀ DISTRUGGE IL CONSENSO

N.48  LA GARANZIA DI REDDITO INTACCA IL RICATTO

N.49  I SOLDI PUBBLICI DEVONO CREARE SERVIZI PER LA COLLETTIVITÀ

N.50  LA PRECARIETÀ SI RIBALTA IN LIBERTÀ, SOLO SE C’È  GARANZIA DI REDDITO, CASA, SAPERE, MOVIMENTO, SALUTE, SOCIALITÀ, AMORE

N.51 IL REDDITO NON È CONSUMO

N.52 REDDITO SIGNIFICA SCELTA

N.53 POTER SCEGLIERE EQUIVALE A POTER RIFIUTARE

N.54 VOGLIAMO POTER RIFIUTARE UN BRUTTO LAVORO

N.55 VOGLIAMO RIFIUTARE UN BRUTTO AMBIENTE DI LAVORO

N.56 VOGLIAMO POTER RIFIUTARE SFAVOREVOLI CONDIZIONI DI LAVORO

N.57 VOGLIAMO RIFIUTARE IL LAVORO PERCHÈ È BRUTTO IN SÈ

N.58 NON VOGLIAMO CHE NESSUNO LAVORI AL NOSTRO POSTO

N.59 NON VOGLIAMO CHE QUALCUN ALTRO VIVA SFRUTTANDO IL NOSTRO LAVORO

N.60 LAVORIAMO PER VIVERE

N.61 NON VIVIAMO PER LAVORARE

N.62 POTER RIFIUTARE SIGNIFICA POTER PRETENDERE

N.63 PRETENDERE È RIVENDICARE

N.64 RIVENDICARE VUOL DIRE MIGLIORARE

N.65 MIGLIORARE SIGNIFICA VIVERE MEGLIO

N.66 UNA VITA MIGLIORE È UNA VITA PIÙ DEGNA

N.67 UNA SOVVENZIONE PUBBLICA PER PAGARE UN SALARIO DA FAME IN CAMBIO DEL LAVORO DI CURA DI UNA DONNA MIGRANTE NON E’ WELFARE.

N.68 I DIRITTI SONO PER TUTTI/E, NEL LAVORO, OLTRE IL LAVORO

N.69 I SALARI DEVONO GARANTIRE UNA VITA VERA E NON DI  SACRIFICI

N.70 I CONTRATTI DEVONO ESSERE POCHI E CHIARI

N.71 IL PROFITTO DELLE IMPRESE È PRECARIETÀ

N.72 DIMINUIRE IL PROFITTO DELLE AZIENDE È DIMINUIRE LA PRECARIETÀ

N.73 LA RENDITA È PRECARIETÀ

N.74 LA PRECARIETÀ È SCHIAVITÙ AI BRAND

N.75 SAN PRECARIO È IL SANTO LAICO DEI PRECARI

N.76 SAN PRECARIO È UN BENE COMUNE

N.77 SAN PRECARIO È UNA ‘ISTITUZIONE DELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO

N.78 LA PROPRIETÀ DEI SAPERI È PRECARIETÀ

N.79 LA CONDIVISIONE DEI SAPERI È LIBERTÀ

N.80 IL PEER TO PEER È LIBERAZIONE

N.81 OPEN NON È FREE

N.82 LA CONDIVISIONE DEI PENSIERI/SAPERI È POTENZA

N.83 LA CONDIVISIONE È RICCHEZZA

N.84 LA SCUOLA È IL LABORATORIO DELLA CONDIVISIONE

N.85 LA SCUOLA È UN BENE COMUNE

N.86 LA SCUOLA PUBBLICA È UN BALUARDO CONTRO LA  BARBARIE

N.87 LA SCUOLA È CONTAMINAZIONE DI CULTURE, MESCOLANZA DI ESPERIENZA,

N.88 LA SCUOLA È LA PROFEZIA DEL FUTURO

N.89 SE SFREGI LA SCUOLA, TI GIOCHI IL DOMANI

N.90 GELMINI NON FA RIMA CON SCUOLA

N.91 PRECARIETÀ NON FA RIMA CON SICUREZZA

N.92 ESERCITO NON FA RIMA CON SICUREZZA

N.93 I CENTRI DI PERMANENZA PER MIGRANTI SONO DEI LAGER

N.94 L’ EUROMAYDAY È CONFORME ALLE 95 TESI E SI BATTE PER ESSE

N.95 OGNI APPARENTE CONTRADDIZIONE È A CARICO DELLA PRECARIETÀ

 

Carta dei diritti dei lavorator/trici della conoscenza: 12 marzo 2009

https://www.precaria.org/carta-dei-diritti-dei-lavoratori-della-conoscenza.html#more-261

Stati Generali della Precarietà

Stati Generali della Precarietà 1.0, Milano 15-16 ottobre 2010

https://www.precaria.org/stati-generali-della-precarietaun-primo-bilancio.html#more-31829

Stati Generali della Precarietà 2.0, Rho 15-16 gennaio 2011

https://www.precaria.org/stati-generali-2.html

Stati Generali della Precarietà 3.0, Roma 15-17 aprile 2011

https://www.precaria.org/stati-generali-della-precarieta-3-0-manifesto.html

Anatema di San Precario contro i negozi aperti il 1 maggio, 30 aprile 2011

https://www.precaria.org/anatema-di-san-precario-contro-lapertura-dei-negozi-il-primo-maggio.html

Fiera del libro di Torino: Re,re.pre – maggio 2011

https://www.precaria.org/la-potenza-di-unapparizione-verso-lo-sciopero-precario.html#more-33961

https://www.precaria.org/nariocapress-alias-san-precario-ovvero-il-santo-dei-precari-vi-ha-fregato-ancora-una-volta.html#more-33939

https://www.precaria.org/san-precario-16-personaggio.html#more-33840

Manifestazione della Grande Alleanza Precaria a Roma: 6 novembre 2011.

la Grande Alleanza Precaria (GAP) indice una giornata di sconti del 70% sul ‘paniere precario’ in tutte le catene commerciali della metropoli contro il carovita e il vertiginoso aumento dei prezzi, per sperimentare forme di riappropriazione di reddito.

http://sanprecario.info/6nov/comunicato.html

Apertura Infopoint San Precario a Milano presso Piano Terra: https://www.precaria.org/apre-a-milano-linfopoint-di-san-precario.html aprile 2012

 Campagna riduzione biglietti Atm – Milano: inverno-primavera 2012

https://www.precaria.org/si-puo-dare-di-piu-2-0.html#more-35824

https://www.precaria.org/si-puo-dare-di-piu-trasporti-accessibili-per-precarie-e-disoccupati.html

https://www.precaria.org/si-puo-dare-di-piu-trasporti-accessibili-per-precarie-e-disoccupati.html#more-35087

https://www.precaria.org/atm-gratis-per-disoccupati-e-precari.html#more-34793

I Quaderni di San Precario

Nel novembre 2010, iniziano le pubblicazioni dei Quaderni di San Precario (“Critica del diritto, dell’economia, della società). Si legge nella presentazione: “Welcome to the Jungle”, benvenuti nella giungla della precarietà. Una selva oscura fata di contorti trucchi e fiorenti artifizi, scadenze prossime ed eterni rinnovi, popolata da belve feroci, faccendieri, manager del saccheggio e dell’inciucio, maestri dell’oblio, stregoni del compromesso e sindacalisti della svendita e dei favori. In luogo da brivido, caldo e afoso, dove al minimo errore, alla prima distrazione, si soccombe. Un luogo assurdo nel quale basta una pacca sulla spalla per segnare il destino di una persona”. I Quaderni di San Precario vogliono rappresentare il punto di vista precario, nei call center (numero 1, qui l’indice), nelle telecomunicazioni (Omnia e Wind) nel numero 2 del maggio 2011 () e vogliono soprattutto creare un lessico precario, A partire dal numero 3 vede la luce a questo fine la “nuova enciclopedia precaria”, una cui prima sintesi viene pubblicata nel libro “Piccola enciclopedia precaria”, a cura di Cristina Morini e Paolo Vignola, pubblicato a Agenzia X, nel 2015. Altri temi trattati riguardano il lato delle proposte, dalla proposta di welfare metropolitano e del reddito di base incondizionato (numero 4), alla denuncia dei lavori inutile, al tema della espropriazione del territorio e alla sua gentrification, a partire da Expo 2015 (numero 5).

Durante l’azione al Salone del libro di Torino nel maggio 2011 viene accettata dall’organizzazione la presentazione di un libro edito da Narioca Press (anagramma di San Precario), scritto da Thomas Murphy, “Perché la precarietà ci salvera”, ma in realtà nasconde il n. 2 dei Quaderni di San Precario, scimmiottando più in piccolo l’esperienza di Serpica Naro del 2005.

Ma chi è realmente San Precario? Lui stesso ci risponde.

1. Introduzione sulla nascita della precarietà

Fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso era precario colui che era escluso dal sistema fordista, tutto fabbrica e ammortizzatori sociali. Era una condizione tipicamente meridionale, intercambiabile con la disoccupazione. La precarietà di cui si parla e che si vive oggi è invece interna al tessuto produttivo ed è un prodotto tipico del Nord dell’Italia. Attenzione: non vogliamo sostenere che la prima non esista più, ma che la nuova precarietà è profondamente radicata nel sistema produttivo, ne costituisce corpo e mente e quindi è potenzialmente esplosiva. Una precarietà altrettanto nuova ma che si manifesta anche nei settori tradizionali, come fabbrica e servizi, è quella dei migranti. Infine, nel nord del paese e in buona parte delle aree metropolitane la precarietà è “a tempo indeterminato”, cioè perenne. Si passa da un contratto all’altro senza avere alcun altro orizzonte. Il contratto stabile non è più nemmeno un miraggio, ma un vago ricordo di un’era passata per sempre. Si lavora sempre per prendere due lire precarie e si vaga alla ricerca di un contratto più precario di quello precedente.

Quanti sono i precari? Milioni, non è facile quantificarli. Ma intanto, quello che è certo è che la precarietà del nuovo millennio agisce così profondamente e diffusamente da tenere in scacco il mondo del lavoro e dominare una società che culturalmente ha introiettato i valori fondanti dell’impresa: individualizzazione, profitto, competizione. Lo diciamo da tempo: la precarietà è insieme ricatto e consenso, bastone e carota. Dei due termini del problema, tuttavia, la novità è il consenso. Da sempre il capitale esercita ricatto sui lavoratori e sul resto della società in modo cangiante, questa non è una novità. Al limite, oggi possiamo dire che i precari e le precarie sono più ricattabili. Ma lo scarto oggi è proprio rappresentato dal consenso. Trent’anni di arretramento nei diritti e nel potere di acquisto di lavoratori e famiglie sono passati senza che si creasse il finimondo. Ciò non si giustifica con la sola retorica del sindacato venduto, dei politici corrotti e del popolo bue. Il problema è più ampio, il problema è il consenso: le imprese oltre a ricattare, tagliare e sfruttare sono capaci di illudere, affascinare e creare aspettative. Questo punto è essenziale. Se vogliamo darci un nuovo ritmo, se vogliamo rinnovare i modi e gli obiettivi con cui agire nella precarietà e contro la precarietà, dobbiamo capire la società che ci circonda. Ragionare sul “consenso” significa – in settori come moda, comunicazione, telefonia, servizi, informazione, ma anche trasporti e logistica, settori determinanti nelle aree metropolitane e strategici per le imprese – pensare alla mentalità che lega l’impresa al lavoratore, alle sue aspettative, alle regole d’ingaggio che possono tramutare questo rapporto in conflitto. Nei rapporti di lavoro è cambiato tutto. Tra padrone (quando c’è o lo si riconosce come tale) e dipendente, tra capo e sottoposto ci si da del tu, la gestione dell’azienda è orizzontale, sembra di stare in una grande famiglia, quasi quasi sulla stessa barca… Questo è frutto di politiche di marketing che mettono in gioco meccanismi di fidelizzazione del lavoratore nei confronti dell’impresa. “Fidelizzazione” è una parola usata nel marketing per descrivere il rapporto tra l’impresa e i suoi consumatori: obiettivo delle imprese è storicamente avere molti consumatori fedeli, che amano il suo marchio e i suoi prodotti anche al di là della loro qualità. Il consumatore fidelizzato che ama i biscotti del Mulino Bianco non li cambierebbe mai con quelli Galbusera. Non importa quali siano più buoni o più economici. L’identificazione con il brand, con il mulino e con il suo prato di fiori di plastica è più importante ed è quella che spinge il consumatore a comprare i Pan di stelle invece dei Bucaneve. Non si compra un biscotto, ma un’idea, un simbolo, uno stile di vita (nota: il Mulino Bianco, quello dove girarono gli spot, è oggi un agriturismo nonché meta di pellegrinaggio di decine di persone che vi portano i bambini a fare foto ricordo). Potenza del marketing.

Il fatto è che negli ultimi decenni le stesse strategie di fidelizzazione sono state applicate al rapporto tra impresa e lavoratore. Pensateci un attimo: aumentano profitti e produttività, svaniscono i diritti, evaporano gli stipendi, eppure il conflitto diminuisce. Il rapporto tra padrone e lavoratore diventa meno ideologico ma più viscerale, e la sua rottura genera risentimento e smarrimento. Insomma, tra i lavoratori fidelizzati c’è la sensazione diffusa che impegnandosi e insistendo si riuscirà a migliorare le proprie condizioni individuali – quasi mai quelle collettive. La fedeltà nei confronti dell’azienda si esprime trasformando la lavoratrice e il lavoratore in un consumatore che si affida all’idea, ai simboli, allo stile di vita predicati dall’azienda. Non si tratta di porzioni marginali del corpo sociale e, attenzione, non si tratta neanche di arrendevolezza. È una mentalità diversa, che ci piaccia o no, da cui si deve partire. Ma è anche una leva su cui appoggiarsi: la rottura del rapporto di fidelizzazione con l’impresa – quando non paga, non rinnova il contratto, sostituisce i precari con stagisti, delocalizza ed esternalizza – può essere traumatica e generare rabbia. Il confine tra amore e odio può dimostrarsi molto labile. Nell’esperienza dei Punti San Precario, sportelli di nuova generazione, poco attenti alla causa legale ma più attratti dall’agitazione dentro e fuori i luoghi di lavoro, tutto questo si è delineato con chiarezza. Nel momento in cui un lavoratore si sente tradito dall’azienda viene pervaso da una rabbia che lo porta a chiedere più soldi possibile e a cercare di abbattere l’immagine dell’impresa. L’abbiamo chiamato “Cash & Crash”: per organizzare le lotte nel mondo della precarietà bisogna penetrare nei luoghi di lavoro per intaccare i profitti dell’azienda ottenendo soldi per i precari (il cash) e comprometterne l’immagine attaccando il suo brand e il suo sistema di marketing e comunicazione (il crash). L’esperienza che ne è seguita, modellata dalla collaborazione a molti conflitti e vertenze di cui parleremo nella seconda parte del libro, è servita a diffondere il conflitto, allargarlo e renderlo adatto a insinuarsi nei luoghi del lavoro precario, a comunicare con i lavoratori precarizzati e quindi ricattabili e a cercare di tutelarli. Ovviamente ciò non funziona ovunque. Il sindacato ha difficoltà a rapportarsi con questa versione fluida del conflitto, che esplode solo quando si inventano nuovi strumenti di azione che tengono conto di questi nuovi meccanismi. Non basta più mettere insieme una sommatoria di rivendicazioni e poi cercare di mobilitare i precari e le precarie con le forme classiche del sindacalismo del secolo scorso: volantino, assemblea, picchetto e alla fine sciopero. Per opporsi alla precarizzazione bisogna inventare un’offensiva dentro e fuori i luoghi di lavoro, con l’uso intelligente e sovversivo della comunicazione, con l’agitazione culturale, che prenda di mira i brand, che parli il linguaggio dei precari – e quindi che parli il linguaggio del marketing, della pubblicità e del consumo. Nella precarietà il conflitto non si costruisce, ma si crea ex novo. Ma di questo parleremo nei prossimi capitoli.

2. Un piccolo esempio di risposta ai meccanismi di fidelizzazione dei lavoratori

Come abbiamo scritto, la fidelizzazione è una politica di gestione della forza lavoro che consente di risparmiare tanto. Più le aziende sanno manipolare i simboli e usare gli strumenti del marketing e della pubblicità nei confronti dei lavoratori, più saranno capaci di affascinarli e aumentare il loro consenso. Cioè a far accettare le condizioni di lavoro peggiori, che solo pochi anni fa sarebbero state motivo di sollevazione popolare. Naturalmente, alla carota che crea consenso e fidelizzazione si aggiunge sempre un po’ di bastone tramite i ricatti cui sono soggetti i precari: il rinnovo, il licenziamento facile, gli straordinari non pagati e chi più ne ha più ne metta. Ma torniamo alla fidelizzazione: non sempre le imprese si dimostrano all’altezza del compito. In questo caso le figuracce in cui incorrono sono drammatiche.

Infojobs è un’agenzia di recruitment, ovvero raccoglie curriculum che inserisce in una banca dati a cui le aziende accedono per verificare eventuali corrispondenze anagrafiche, caratteriali e professionali con le figure lavorative di cui hanno bisogno. Non crediamo serva spiegare quali tipi di lavori si trovano tramite questa specie di caporalato online: il regno della precarietà. In Italia si parla di circa due milioni di precarie e precari che hanno inserito i propri dati nel loro sito (in Spagna sono ancora di più). Un bel giorno, qualche anno fa, un loro collaboratore non troppo fidelizzato scopre che Infojobs ha speso due milioni e mezzo di euro per una campagna di marketing virale. Il contenuto della campagna era oltraggioso. I lavoratori, anzi i precari iscritti ad Infojobs avrebbero dovuto mettere in scena un flash mob a uso e consumo dei media, in cui sollevare cartelli con su scritto “non ho uno zio barone,” “non ho uno zio parlamentare,” o “non ho uno zio vescovo.” Il messaggio è chiaro: Infojobs si presenta come la parte sana del mercato di lavoro, una specie di amico o di rappresentante dei precari che non si basa su raccomandazioni e nepotismo, ben note malattie italiche. E lo fa con il chiaro intento di farsi pubblicità. Lo spot di presentazione travestito da flash mob si terrà a Milano, alle 18, in località sconosciuta (ma naturalmente noi abbiamo informazioni precise, raccolte dal lavoratore non abbastanza fidelizzato). Si sa invece cosa accadrà: gli infojobbers vestiti di arancio e blu alzeranno i cartelli con le scrittte sullo zio barone, vescovo e parlamentare, per dire W Infojobs e poi diffondere le immagini sui social network e sulla stampa. Inaccettabile: un’azienda che vende lavoro precario vuole farsi paladina dei precari. Quando è troppo è troppo.

Il giorno prefissato ci presentiamo anche noi all’appuntamento, in una ventina. Diluvia che Dio la manda e gli infojobbers sono solo trenta. Il puntello è in piazza della Scala e a far fallire l’iniziativa basterebbe già da solo l’intervento in tackle del santo che ha mandato il diluvio a colpire Infojobs. Ce ne disinteressiamo. È presente anche la Digos, che ha intercettato qualcosa, ma non capisce cosa stia succedendo. Vorrebbe chiedercelo, ma noi non abbiamo intenzione di rispondere e si vede. A un certo punto scatta l’imprevisto. L’ignaro capo degli infojobbers si avvicina a noi e ci invita: “visto che siete tanti, non vi va di farvi una foto con noi?” Non ci pare vero, sembra un agnello che si rivolge al lupo dicendo “certo che faccio l’igienista dentale, in cosa posso servirla?” L’improbabile corteo si sposta verso piazza Affari, la polizia segue chiedendoci a voce alta “che sta succedendo, che succede?” e a loro con un tono più basso “ma sapete chi sono loro? Li avete chiamati voi? Lo sapete o no chi sono?” C’è da farsela addosso dal ridere. Qualcuno di loro cerca di attaccare bottone: quanti anni abbiamo? Conosciamo Infojobs? Siamo turisti? E ci ringraziano continuamente. È la Digos a far scoppiare la bolla, imponendo un chiarimento. Prendiamo il megafono e diciamo “non abbiamo uno zio vescovo né uno zio barone, ma neanche uno zio pappone come Infojobs” e via di questo passo. Qualcuno di loro inizia a piangere, la Digos assicura qualcuno via radio “sì, stanno finendo.” Non infieriamo sul morale degli infojobbers: sono evidentemente essi stessi precari. Il pensiero va piuttosto a Infojobs: due milioni e mezzo di euro non sono soldi buttati via se in cambio si riceve una lezione di vita adeguata. In questo crediamo che occorra essere tradizionalisti: capitale di qua e lavoratori di là, senza promiscuità.

3. Anatema sulla sinistra italiana: il pacc(hett)o Treu. E per carità di patria non parliamo del Jobs Act.

Nel 1997 Treu ci ha tirato un gran pacco, detto per l’appunto “pacchetto Treu”. La precarizzazione strisciava silenziosa nei territori, nei luoghi di lavoro, nel welfare state già da molto tempo. Uno spot pubblicitario, un presentatore, una rivista ci parlavano del villaggio globale, delle infinite possibilità, di un mondo nuovo. La società dello spettacolo lavorava con attenzione, ma senza una vera direzione. Messaggi precisi e invitanti raccoglievano le suggestioni degli anni settanta contro il lavoro per trasformarle in un humus pernicioso e virale. Il posto fisso è da sfigati. Il lavoro la tomba della libertà. Produci consuma crepa. Si insegnava ai giovani che un lavoro lungo una vita, preceduto dalla scuola e seguito dalla pensione, la routine della fabbrica, la sfiga degli uffici (do you remember Fantozzi?), la pochezza dell’italiano medio erano di per sé buoni motivi per sperare in un futuro diverso. “Io non voglio diventare come i miei genitori.” In poco tempo è diventato un pensiero collettivo. “Voglio un lavoro che mi permetta di gestirmi il mio tempo, che sia adatto alle mie aspettative.” E poi c’era stato il boom, l’Italia superava in ricchezza l’Inghilterra e dalle ceneri del decennio di lotte sociali degli anni settanta era sorta una nazione barocca e frivola, ignorante ma tronfia. Insomma il lavoro ai fianchi è stato fatto, la new economy si traduce in un ottimismo spensierato, la globalizzazione preoccupa, da un lato, ma affascina dall’altro. D’altronde anche gli antagonisti sono contro il lavoro salariato, madre di ogni sfruttamento, matrice da abolire. E quindi quel clima di fuga dal lavoro stabile in una ricerca continua di lavoretti, tra l’altro al tempo ben retribuiti, faceva parte del gioco.

Il pacchetto Treu ha una genesi densa e carica di significati. Un inizio tipico, che spiega molto: l’Italia, la sinistra, il carattere cialtrone di tutti gli italiani, governanti e governati. La legge è del centrosinistra. Il centrodestra non avrebbe mai avuto la forza di fare una roba del genere. Il “la” lo da alla fiera del levante D’alema: “scordatevi il posto fisso”. Lo dice con nonchalance, con leggerezza. Vien da ridere a pensarci. La legge è incompleta, mancano i contrappesi, i nuovi ammortizzatori sociali capaci di limitare i danni (la politica dei ue tempi, di cui parlavamo nell’introduzione). Per quelli c’è tempo, verranno fatti in un secondo momento. Nelle interviste il ministro Treu risponde ancora oggi senza vergogna alle domande, e lo ritroveremo tra i relatori della riforma Fornero. Non è stato sbagliato votare la riforma senza un’adeguata copertura sociale?  “Certo – ammette candido – ma gli ammortizzatori si sarebbero dovuti aggiungere in un secondo momento, poi non ce ne fu più occasione”.  La cosa più pazzesca è che Treu probabilmente è sincero. Probabilmente è stato fregato. Dal PDS-DS-PD? Dal governo? Dalla CIA? Da un complotto demoplutomassonico? Non ce n’è bisogno. Siamo in Italia. L’Italia, probabilmente la nazione con più alta produzione di killer al mondo. Qui, per assassinare la civiltà dei diritti dei lavoratori, il neoliberismo ha scelto un sicario del calibro di Tiziano Treu che in quel momento,compiendo la sua missione, era distratto, ma ha centrato in pieno il bersaglio. DI che stiamo parlando? Dell’introduzione di nuovi istituti lavorativi  (apprendistato, lavoro interinale), di  disposizioni di rinvio della contrattazione sociale, regolamentando anche in modo più completo la figura dei lavori socialmente utili, di introduzione del contratto di collaborazione coordinata e continuativa e del contratto a progetto. Vi basta?

Cosa c’è di tragicomico in ciò? La leggerezza con cui è stato affrontato un passaggio chiave, epocale, che pagheremo ancora per anni. E questo ci fa capire com’era l’alternativa a Berlusconi, o meglio, il fatto che la sequenza degli eventi che seguirono al 1997 sia stata preparata, ma non prevista ci fa capire quanto il ceto politico italiano fosse inadeguato. Innanzitutto il sindacato era scomparso dai settori produttivi del terziario, avanzato o meno. Anzi per essere più precisi durante la nascita e la crescita di questo settore il sindacato non si è mai curato di andare a dare un’occhiata. Una scelta voluta, certamente, ponderata su alcuni fattori. Le difficoltà di tesseramento, le piccole dimensioni di impresa, e anche un gap generazionale e culturale profondo. Settori importanti, giovani, spina dorsale dell’economia di alcune regioni: la precarietà vi si è diffusa all’istante. E di ciò non si è interessato nessuno.  Poi piano piano i precari si sono introdotti in aziende più grosse. E qui sono stati trattati come paria. Nei primi anni del 2000 alcuni effetti indesiderati si cominciavano a notare. Nella telefonia fino all’anno prima gli assunti facevano formazione, erano trattati come risorse e come tali valorizzati. Poi qualcuno scopre che con le nuove leggi per competere sul mercato si fa prima ad abbattere i costi piuttosto che a innovare o a migliorare il servizio. È stata una valanga che ha travolto tutti. Persone che fino a due anni prima viaggiavano in tutta Italia, ospitate in albergo per far formazione ai nuovi assunti, venivano esternalizzate verso nuovi outsourcer il cui unico scopo era abbattere i costi. La Cgil non ha neanche un sindacato per il settore che poi si inventa, ma che non morde mai. Esternalizzazioni, trasferimenti di ramo d’azienda (Lgs. 276/2003), demansionamenti. Mai e poi mai un’opposizione decisa. Ma oramai è così dappertutto. In un aeroporto a Milano decine di ragazze hanno lavorato per 4 anni di fila firmando undici contratti stagionali (vedi la vicenda delle SEA girls. Si sono ribellate quando hanno detto loro che dalla volta successiva avrebbero svolto lo stesso lavoro però assunti con l’intermediazione di un’agenzia interinale. Per far profitti basta abbassare il costo del lavoro e tutti gli imprenditori recepiscono il messaggio. Che senso ha sbattersi per innovare un prodotto o un servizio? Che senso ha migliorare una prestazione? La produzione creativa, di informazione, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello di ogni economia si svilisce e gli stessi lavoratori della conoscenza si trovano a svolgere mansioni semplici, intercambiabili, e ciò che guadagnano diventa ridicolo. Ovviamente difficilmente fruiscono del sussidio di disoccupazione e quasi mai della cassa integrazione. Et voilà. La frattura è creata. I precari non credono più a niente. Non credono che la retorica dei diritti li riguardi, non credono di poter essere difesi, non credono di potersi appoggiare ad altri, cercano di arrabattarsi il meglio possibile. Ma allora siamo stati vittima di un complotto? Di un piano preordinato e puntigliosamente preparato? Qualcuno potrebbe vedere in questa Itala l’Italia della P2? No, no, non è così. Potrebbe essere liberatorio pensare che una mente superiore, forze superiori ci hanno messo al tappeto, ma non è così.

Durante l’anniversario del ventesimo anno di vita di Publitalia, Confalonieri, con al suo fianco l’ex presidente Bill Clinton, si ammantò di gloria dicendo che se c’è un’impresa a cui si deve il cambiamento degli italiani, la loro fuga dalla Festa dell’unità, quell’impresa è Publitalia, che crebbe a cavallo degli anni ottanta a ritmi strepitosi. La verità è che trovò di fronte a sè un popolo che vive di sotterfugi, piccoli calcoli, si crogiola nel provincialismo, gioca con la virilità manco fosse represso (e lo è, in effetti) e che ha fatto un culto del panem e del circenses. Quindi sì, Publitalia suonò la controffensiva contro le egemonie comuniste. E più volte Confalonieri si è congratulato con sé stesso per questo. Ma anche lui cade vittima del divismo da borgata. Con l’introduzione delle emittenti private, Publitalia cresce in fatturato, con la P2 aumenta il proprio potere. Le feste dell’Unità non possono niente contro le prime incursioni della globalizzazione, contro la rivoluzione tecnologica che anticipa di una frazione di un secondo quella della produzione di simboli e comunicazione. in tutto ciò però non c’è niente di machiavellico, né di fatale. Le emittenti private esistono ovunque, la globalizzazione è forse un’intuizione antisocialista, ma ha ragioni e basi così ampie da non essere certo merito di Berlusconi, i computer non sono importati dalla P2, il cui ruolo è abbastanza misero visto che si vanta di aver fatto da apripista, da usciere a ciò che sarebbe accaduto lo stesso. Vogliamo riconoscergli qualcosa? Non c’è problema: sono ricchi, viaggiano molto, si sono resi conto che l’offensiva del capitale era irresistibile, tanto che quando hanno governato non hanno lasciato un’impronta di originalità. E tutto ciò accade con assoluta puntualità proprio perché le forze che agiscono sul pianeta Italia sono così enormi e il corpo politico nostrano così piccolo che nessuno osa interferire. Anzi, forse questo riconoscimento non è meritato. Sono loro che non si sono accorti che l’attacco alla salamella del Pci non veniva sferrato dal cheeseburger bensì dal kebab. L’Italia viene travolta dalla globalizzazione e dalle migrazioni, dalla babele culturale e dalle rivoluzioni tecnologiche e simboliche. E non c’è nessuno che sappia gettare un ormeggio, o sappia dove andare.

È per questo che Treu era distratto, perché non capiva un cazzo di ciò che stava accadendo. E così era per i sindacati e per i partiti. I primi non hanno avuto più una visione d’insieme almeno dai primi anni sessanta. I secondi si sono rigenerati in un calderone in cui si univano casualmente suggestioni culturali d’oltre oceano, resistenze religiose, provincialismo, superstizione, libertà digitali e via così. La stranezza della produzione partitica italiana risiede in tutto ciò, nella rincorsa frenetica nata dal tentativo di afferrare i cambiamenti sociali che lo scontro del caos comunicativo produce. Nessuna direzione, nessun governo, solo inseguimento e nel caso del lavoro autofagocitamento.

4. Le imprese

Adesso è il momento di spendere due parole sulle imprese. Quali? Quelle grandi, quelle piccole? Ci riferiamo alle imprese come qualcuno si riferisce genericamente a queste nei programmi con frasi del tipo “è grazie alle imprese se non sprofondiamo” è grazie alle imprese se questo paese produce ancora”. Che la riforma Treu portasse a tanta manna non ci credevano neanche a loro. Che col senno di poi benedicano quel momento però non c’è da star sicuri nel senso che in questi 20 hanno rappresentato la parte più bieca ed egoista della politica L’effetto domino innescato dalla precarietà è lungi dall’essere finito e fra gli altri inconvenienti ha avuto quello di contrarre i consumi e la massa economica. Questo è un problema per tutti poiché dopo aver gongolato molte aziende si saranno accorte di subire una concorrenza spietata proprio utilizzando l’abbattimento del costo del lavoro.

In dieci anni, dal 2001 al 2010 l’Italia è cresciuta dello 0.1%, mettiamo che reddito totale prodotto dall’Italia sia e pari a cento allora la percentuale dei salari si è contratta da 60 a 40. chi ci ha guadagnato sono i profitti e le rendite che si sono ciucciati quel 20%.

Qualcuno si è accorto che il giochino è rischioso, ma le imprese sono macchine per far soldi e finché fan soldi poco male. Dopo aver aggredito più di una generazione lasciandola senza mutande e futuro le imprese si sono accorte che i cosiddetti garantiti sono vulnerabili. Per prima cosa costituiscono una parte ridotta della forza lavoro, poi è chiaro che dopo quello che han subito è difficile pensare che i precari si battano per cose astratte come l’art 18, considerato anche il fatto che per loro scioperare mica è facile. Inoltre sono gli stessi garantiti ad essere oggi psicologicamente in difficoltà. Con questa crisi, in questo momento, è difficile fare gli eroi. Certo, nel caso in cui tutta l’unità produttiva venga chiusa tireranno fuori le unghie, ma se si chiede a loro qualche sacrificio, qualche rinuncia in cambio del mantenimento del lavoro è grasso che cola. E saranno ben  felici di scampare alla mattanza

Ed ecco le imprese allargare le proprie brame

Adesso la precarietà è diventata un problema nazionale, ma non si sa come risolverla. Noi un’idea ce la siamo fatta e ve la diremo. Ma prima vorremmo che si ponesse attenzione ad un fatto. Ciò che è accaduto in Italia ha qualcosa di incredibile. Le responsabilità politiche e sindacali sono immense. Bisogna dirlo a gran voce: sul Pd e la Cgil cade l’anatema dei precari. I piccoli partiti di sx, e il sindacalismo di base si sono rilevati anch’essi inadeguati e miopi, ma vi è una sproporzione di possibilità fra questi e i due buoi della sinistra istituzionale. Anche se un domani, dovessero chiedere perdono (la Fiom in qualche incontro ha il coraggio di ammettere l’errore) e anche se si dovesse ripristinare una situazione pre97 (cosa impossibile) la lezione da trarre sarebbe comunque tosta. L’unico modo di difendere i diritti e i salari è mantenere un profilo altissimo nei luoghi della produzione pronti a far scoppiare il conflitto quando è il momento.  Qualcuno ci ha provato ed ha perso, per. Si, perché oramai disabituati alla lotta i lavoratori hanno usato forme di conflitto obsolete. E qua c’è il secondo insegnamento. La globalizzazione ha trasformato radicalmente la realtà.

I sindacati non sono più capaci di opporsi complessivamente all’azione delle aziende, per questo rinunciano e sperano sempre nella trattativa. Sono lontani dai lavoratori e questo ha creato un corto circuito mortale.

I lavoratori conoscono il lavoro è possono capire come e quando bloccarlo, il sindacato deve dare gli strumenti e la copertura per far ciò. Se 20 fa così fosse avvenuto forse…..

Adesso il sindacato può fare poco sembrerà incredibile, ma la palla passa a noi

(dicembre 2012)

 

Il blog di San Precario su “Il Fatto quotidiano”

Fino a qui tutto bene

La catena di smontaggio

My new job: looking for a job

Brunetta e il santo peggiore d’Italia

Il precario che racconta i segreti della casta 

Vivo all’estero e sono precari@

Lettera aperta ai precari

Cosa c’entra l’art.18 con la precarietà?

Noi precari l’art.18 non l’abbiamo mai avuto…

FAQ sul reddito di base: risponde San Precario

Flessibilità e posto fisso, parole già sentite

I veri dati sulla precarietà

Riforma Fornero: niente più rivalse per i precari

Fonti:

Ilaria Vanni and Marcello Tarì, “On the Life and Deeds of San Precario”, THe Fibdercoulture Journal, n. 5,  2005

Alice Mattoni and Nicole Doerr, “Images within the Precarity Movement in Italy”, in Feminist Review, No. 87, Italian Feminism, 2007, pp. 130-135

Alice Mattoni, “Serpica Naro and the Others. The Media Sociali Experience in Italian Struggles Against Precarity , 2008

Precarity and n/european Identity: an interview with Alex Foti (Chainworkers), 2014: https://sindominio.net/metabolik/alephandria/txt/Foti_Precarity.pdf.

Collettivo San Precario. Opposizione sociale alla precarietà: https://rivistapaginauno.it/collettivo-san-precario-opposizione-sociale-alla-precarieta/

Andrea Fumagalli, “Cognitive, Relational (Creative) Labor and the Precarious. Movement for “Commonfare”: “San Precario” and EuroMayDay”, in G. Cocco, B.  Szaniecki  (eds.), Creative Capitalism, Multitudinous Creativity. Radicalities and Alterities, Lexington Books, Maryland, Usa, 2015, pp. 3-25

Claudia Vigo, “La Mayday! La generazione che scopre la precarietà e si ribellMayday! La generazione che scopre la precarietà e si ribella”: https://valori.it/act-mayday-1-maggio/

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