A proposito dello sciopero dell’8 marzo in Argentina…

Si percepiscono da lontano le vibrazioni che il movimento delle donne in Argentina sta generando. Per questo abbiamo deciso di avvicinarci e saperne di più. Lo abbiamo fatto tenendo una mano amica: abbiamo conosciuto Verónica Gago e Natalia Fontana dalle onde che ha prodotto un’altra esplosione argentina, in quel caso l’insurrezione del dicembre 2001 che vissero all’interno del Colectivo Situaciones. A quel tempo, da questa parte dell’Atlantico, ci chiedevamo con altre donne: qual è il nostro sciopero? Quale gesto collettivo al femminile interrompe la macchina binaria della produzione e riproduzione? (questa fu la domanda iniziale dello spazio di ricerca-azione Precarias a la Deriva). Adesso la domanda si ripresenta, con un’intensità e dimensione inedite, nel movimento argentino delle donne, legata al terremoto che grida in tutto il continente latino-americano “non una di meno! Ci vogliamo vive!”. Come nasce l’idea dello sciopero nel movimento argentino delle donne? Che cosa si vuole fare di uno strumento che è nato e cresciuto in un altro mondo (tra fabbriche, uomini e sindacati)? Come viene tessuto un ragionamento collettivo che connette la violenza contro le donne alle questioni di precarietà, territorio et comunità? Di che materiali è fatto il femminismo latino-americano, qual è la sua mistica?

Con la complicità di un’amicizia intessuta attraverso l’oceano e il tempo, alimentata da ricerche condivise, abbiamo posto queste domande a Vero e Nati due giorni prima dell’8 marzo, dello Sciopero Internazionale delle Donne. Era un piacere vederle durante l’intervista per skype. La luminosità e la vitalità che irradiavano parlavano (anche al di là delle parole) della potenza dell’esperienza che sta vivendo il movimento argentino delle donne. Nati e Vero vi hanno partecipato a tutti i livelli, pensando e facendo, organizzando assemblee e momenti di riflessione, a partire da un percorso precedente che permette loro di essere perfettamente in accordo con quello che succede. Vero ci ha già raccontato la giornata del 19 di ottobre. Nati partecipa al movimento delle donne anche dal luogo specifico che è il sindacato dell’aviazione, per il quale è responsabile della comunicazione.

Le foto della manifestazione dell’8 marzo a Buenos Aires sono di Constanza Niscovolos.

Marta Malo e Amador Fernández-Savater

*****

Vorremmo chiedervi per prima cosa di ritracciare il percorso tra il 19 ottobre

[prima convocazione di uno sciopero delle donne in Argentina, a seguito dell’assassinio di Lucía Pérez a Mar del Plata] e questo 8 marzo. Come si è articolato il processo? Com’è arrivata a maturare l’idea dello sciopero delle donne?

Vero: Veniamo da due grandi manifestazioni attorno allo slogan “Non una di meno”: il 3 giugno 2015 e il 3 giugno 2016. Erano state convocate soprattutto dalle reti e in alcuni incontri, e hanno raccolto una partecipazione massiva. E riflettevamo a quello che era successo, a cosa era dovuta una tale mobilitazione.

È allora che, mentre partecipavamo all’Incontro Nazionale delle Donne a Rosario, si viene a sapere della tortura e assassinio con impalamento di Lucía Pérez a Mar del Plata. Un’immagine fortissima di crudeltà, con echi coloniali. Oltre tutto l’assassinio è stato perpetrato alla vigilia del 19 ottobre, caricando ancor più la scena. Quello che si è sentito allora è che proprio nel momento in cui si stavano mobilitando 70.000 donne a Rosario appare questo crimine come risposta. Mi pare che fu questo a generare un’energia di mobilitazione e reazione molto rapida.

Abbiamo organizzato lo sciopero del 19 ottobre in appena una settimana. La convocazione ha preso in maniera incredibile, ma quello che ha dato slancio alla cosa è che a un certo punto si è detto: “basta reti, incontriamoci in assemblea”. E si comincia a convocare assemblee. Al principio si diceva che era impossibile convocare lo sciopero in una settimana perché ci sarebbe voluto molto più tempo. Però incorporare l’idea di sciopero era proprio quello che avrebbe permesso di parlare oltre la violenza. Lì sta il salto qualitativo. Abbiamo cominciato a dire: queste sono immagini che cercano di terrorizzarci, immagini che rifiutiamo per la violenza e l’aumento della crudeltà che implicano, però dobbiamo dobbiamo dare risposte al di là del discorso di vittimizzazione che ci lascia impotenti, che ci costringe a parlare solo di violenza specifica e ci permette di manifestare solo per il lutto o il dolore.

Lo sciopero ci ha permesso di convocare a partire da un altro luogo, un luogo senza dubbio di rabbia, ma anche politicizzando quello che già si stava elaborando in molti spazi: la questione della produzione e riproduzione della vita. Scioperare è interrogare e bloccare la forma di produrre e riprodurre la vita nelle case, nei territori, nei luoghi di lavoro. Ed è collegare la violenza contro le donne a una politicità specifica delle forme attuali di sfruttamento della produzione e riproduzione della vita. Lo sciopero era la chiave che permette di unire le due cose.

Questo ha prodotto un effetto impressionante. In primo luogo perché ha esteso l’idea di sciopero. Abbiamo cominciato a convocare donne di tutti i settori, salariate o no, giovani e adulte, occupate o disoccupate. Ha attecchito davvero e ha attivato l’immaginazione su come aumentare l’efficacia dello strumento dello sciopero. Che significa scioperare nel tuo ambito? Se non fai parte di un sindacato o di un’associazione professionale, ma anche se fai parte di un’organizzazione (nella scuola, in una qualche rete comunitaria), ecc. Si è lanciato cioè un livello di interrogazione su quello che “interruzione delle attività” significa che ha oltrepassato completamente l’ambito sindacale mentre interpellava con forza questo mondo. Lo sciopero ci ha fornito un’altra capacità di lettura, una specie di forza di comprensione molto appropriata che permetteva di collegare la violenza contro le donne alla trama economica, politica e sociale.

La sfida della legittimità del lavoro non riconosciuto

Come ha scosso tutto ciò il mondo sindacale? Esistono sindacati di donne, però il mondo sindacale è molto maschile, molto impresso da una logica maschile. Come ha scosso questo mondo la convocazione di uno sciopero specifico delle donne?

Nati: Be’ ci sono stati due momenti di discussione sul tema dello sciopero: prima intorno al 19 ottobre e adesso intorno all’8 marzo. La convocazione dello sciopero del 19 ottobre è stata così rapida che non ha lasciato il tempo alle organizzazioni sindacali – né ai collettivi di donne all’interno delle centrali sindacali – di elaborare un significato. Si è trattato di una reazione istantanea, immediata, molto corporea, all’impalamento di Lucía a Mar del Plata e anche dell’accoltellamento di due ragazze a San Telmo.

È adesso, intorno all’8 marzo, che si sono prodotte le discussioni più dure e i problemi più difficili. Da un lato c’è chi sostiene che lo sciopero è uno strumento proprio ai sindacati e che solo le centrali sindacali possono brandire. Cioè non considerano che sia uno strumento che possa andare oltre il sindacato, né che possa eccedere l’idea del lavoratore formale sindacalizzato. Dall’altro lato credo che agli uomini del sindacato costi molto convocare uno sciopero a causa di tutti i calcoli che fanno a partire dalla legittimità di cui gode qualsiasi nuovo governo, i calcoli che prendono in considerazione gli altri conflitti dei lavoratori con le loro imprese e lo stato, ecc. Costa molto dar credito a una convocazione di sciopero da parte di donne che oltretutto si organizzano e sono capaci di convergere trasversalmente con altre donne di altre centrali sindacali e di organizzazioni sociali e politiche.

Parlare con le centrali sindacali, nel caso del mio sindacato, ha voluto dire parlare con la CGT, dove ci siamo trovate sorprendentemente con i segretariati di uguaglianza e genere gestiti da donne che erano talvolta più restrittivi degli stessi uomini e non erano d’accordo con la linea dello sciopero internazionale. E non c’è stato modo che convocassero lo sciopero. È stato già tanto che abbiano convocato alla mobilitazione. Quello che è positivo è che ogni categoria di lavoratori, oltrepassando le centrali, ha organizzato diverse azioni e attività. E quindi poco importa che la CGT lanci o no una convocazione di sciopero, perché le organizzazioni di base del sindacato l’hanno presa come una proposta e le lavoratrici erano determinate a realizzare delle azioni durante il giorno.

Vero: Ci sono varie questioni che abbiamo affrontato in questo periodo e che segnano la differenza tra quello che è successo il 19 ottobre e quello che sta succedendo adesso, nel momento in cui ci stiamo confrontando effettivamente con la realtà dei sindacati. Ci sono state tantissime riunioni, tantissime dispute, tantissime polemiche che mettono in evidenza diversi temi.

Da un lato una rottura generazionale delle ragazze dei sindacati, che vengono in molti casi da esperienze nei movimenti delle donne, molte delle quali hanno agito per anni l’Incontro Nazionale delle Donne come uno spazio pedagogico. Non sentono una contrapposizione tra movimento sindacale e movimento delle donne. Mentre invece per certe dirigenti di maggiore età c’è chiaramente una questione di concorrenza e delegittimazione del sindacato da parte del movimento delle donne. Tutto ciò è stato evidenziato da chi è venuta all’assemblea e chi no, chi parlava a nome dei comitati di fabbrica e chi attendeva l’autorizzazione della centrale, ecc. Lo sciopero ha rivelato la cartografia del fermento e della complessità che esiste all’interno dei sindacati ed è stato molto interessante.

Dall’altro lato un’altra cosa che si è verificata è che non volevano legittimarci, ci accusavano di non essere lavoratrici “legittime”, cioè sindacalizzate. Lì è stato molto complicato per Nati nelle riunioni, perché in quanto appartenente a un sindacato era la “traditrice”. La rimproveravano più delle altre (risate).

Infine un altro punto interessante è il modo in cui i sindacati si impuntano a non riconoscere le lavoratrici dell’economia popolare (cartoneras[1], venditrici sui mercati, donne impegnate nel lavoro di cura, donne che si occupano delle mense popolari, sarte) che per noi è stato, fin dall’inizio, un elemento chiave. Un aneddoto: una settimana fa è stata convocata all’Obelisco un’assemblea di lavoratrici dell’economia popolare, ci siamo andate con la nostra amica Neka (Jara, fondatrice del Movimento dei Lavoratori Disoccupati di Solano durante la crisi del 2000), che tante donne provenienti dal movimento piquetero salutavano e tornavano a incontrare. Ma la cosa più interessante era, come ci diceva Neka, che la salutavano ragazze di 20 anni, che avevano cioè solo cinque o sei anni al tempo delle assemblee del movimento piquetero verso il 2001. Neka diceva: “è molto emozionante, sono le figlie delle piqueteras”. Lì c’è qualcosa di generazionale molto forte che fa incontrare in strada la genealogia dei movimenti dei disoccupati e dell’economia popolare. Una genealogia che ovviamente non è lineare e senza problema. Ma questo è intollerabile per il mondo del sindacalismo: che tutto ciò appaia con uno statuto di lavoro è intollerabile. Perché mette a problema l’idea stessa di lavoro.

Nati: Si pone al sindacalismo una questione molto forte di legittimità. Qual è l’entità riconosciuta legittima a convocare uno sciopero? Costa molto riconoscere il movimento delle donne come parte integrante di queste entità legittime che si costituiscono come soggetti dotati di voce propria e che realizza alleanze insolite con donne sindacalizzate nel lavoro formale e informale con le donne dell’economia popolare. C’è una forte interpellanza su questo punto.

Vero: E un altro punto forte che è uscito nel corso delle discussioni: il 19 ottobre è stato il primo sciopero sotto il governo Macri, che è senza dubbio un governo che impone di tutto contro il salario. E questo primo sciopero … siamo noi donne a farlo! È stato un colpo molto duro. Già in ottobre si diceva: “mentre la CGT prende il tè con il governo, noi ci prendiamo le strade”. Perché le organizzazioni sindacali stanno negoziando la manovra economica, è evidente. E c’è molto malessere in vari settori, nei comitati di fabbrica, tra le donne delegate, molte di loro anche elette dopo ottobre o molte altre per cui lo sciopero di ottobre è stato la prima uscita in strada come donne sindacaliste.

buoens aires 2

Far traboccare lo sciopero: gli scioperi delle lavoratrici atipiche

Dite che la convocazione dello sciopero fa uscire il movimento delle donne dalla pura denuncia della violenza di genere, collegandolo ad altre questioni, però allo stesso tempo eccede il sindacale. Vorrei conoscere queste altre forme di sciopero, delle lavoratrici atipiche. Come pensano lo sciopero le lavoratrici domestiche, migranti, venditrici al mercato…? Che immaginazione entra in gioco per fare sciopero quando non si vive un lavoro tipico, in un luogo specifico, sotto padrone, ecc.?

Si sa come fare lo sciopero sul luogo di lavoro. Esiste anche un canale legale per convocarlo, i lavoratori si sentono interpellati quando c’è la convocazione del sindacato. Ma come si organizza lo sciopero nell’informale? Come fa una a sentirsi convocata e sostenuta nel non andare al mercato o come si organizza lo sciopero del lavoro di cura non remunerato?

Vero: Da un lato c’è una relazione abbastanza stretta con una struttura di categoria in formazione che si chiama Confederazione dei Lavoratori dell’Economia Popolare (CTEP) che intende essere una centrale di lavoratori dell’economia popolare e che dopo il 19 ottobre ha deciso di darsi uno spazio di genere. Ci stiamo riunendo con loro e ne escono discussione molto interessanti. Per esempio le ragazze cartoneras dicono “va bene, se faccio sciopero un giorno quel giorno non mangio”. La questione che sono venute a porre è come facciamo di questo una realtà e non una debolezza dello sciopero. E hanno cominciato a dire: “bisogna raccogliere denaro in anticipo per sostenere questo giorno di sciopero”. O lavorare un po’ di più i giorni precedenti per garantire questo giorno di sciopero. Altre donne che vendono al mercato dicevano: “portiamo cose da vendere al corteo. Sappiamo che venderemo ed è un modo di essere dentro la mobilitazione sostenendo materialmente quello che implica per noi un giorno di sciopero”.

È stato davvero interessante cominciare a pensare e immaginare strategie molto concrete di sciopero in luoghi atipici. Perché se sciopero deve essere sul serio, se lo si sta ponendo davvero, deve comprendere tutte queste domande che avanziamo su quello che significa scioperare. Non può costringerci a dare un’immagine di noi stesse che non coincide con la nostra realtà quotidiana. È potente che le donne dell’economia popolare siano state le prime a dire “noi scioperiamo”. Si tratta cioè di domande che sorgono da una decisione di fare lo sciopero, per rinforzare lo sciopero. Per loro c’è molto in gioco nello sciopero e hanno molta voglia di continuare a elaborare queste domande, su che cosa significa scioperare quando non hai un padrone, sei cooperante, ricevi un sussidio sociale, ecc. Includere tutte queste realtà nello sciopero significa eccederlo e pensare effettivamente il lavoro al di là della mansione tipica, sotto padrone, in un luogo determinato, ecc.

Un’altra questione interessante, che abbiamo dibattuto anche queste ultime settimane, riguarda il come collegare lo sciopero alla cura, e il modo in cui questa cura si realizza dentro la casa, in spazi comunitari o di quartiere o autogestiti. Da un lato si tratta di pensare che cosa significa portare questi spazi dentro la mobilitazione, che la mobilitazione si fa carico di questa parte di cura. C’è una doppia misura del tempo dello sciopero. Si sciopera qualche ora nei nostri luoghi di lavoro e allo stesso tempo ci sottraiamo tutto il giorno ai ruoli di genere che ci assegnano mansioni di cura. Scioperiamo e dedichiamo tempo a noi stesse. Questa è stata una parola d’ordine molto forte: ci organizziamo per disporre del nostro tempo, per liberarci degli obblighi quotidiani e aprire questo tempo.

Nati: Il 19 ottobre abbiamo scioperato due ore sul posto di lavoro formale, ma tutte e 24 le ore del giorno rispetto a quelle attività che riguardano la cura e anche la militanza. Abbiamo scioperato e ci siamo rese disponibili all’incontro tra donne per realizzare un’azione concreta. I compagni militanti non capivano granché del fatto che non eravamo lì neanche per loro (risate). È stata un’esperienza fatta il 19 e adesso la ripetiamo in modo più cosciente.

Spiritualità, infrastrutture di cura e comunità

Abbiamo l’impressione che quello che sta esplodendo come femminismo, almeno in America latina, non è esattamente un femminismo “liberal”. La condizione delle donne e la violenza vengono pensate interconnesse in una trama viva e quotidiana insieme al lavoro, la precarietà, i quartieri, la questione comunitaria, ecc. Non si “uniscono temi”, ma si tesse una trama molto concreta. Volevamo chiedervi di questo, di queste discussioni, di questi modi molto concreti di ragionare e restituire la trama quotidiana di sfruttamento e pratiche di vita. Che immagini del mondo ci propone questo femminismo latino-americano che mescola tutti questi temi?

Vero: Qui è molto forte il femminismo popolare, comunitario, delle villas[2]. Sono denominazioni che non sono pure tematizzazioni ma accumulazioni di esperienza sociale, politica, sensibile. In tutto ciò è insita una dimensione territoriale molto forte: un lavoro sostenuto di organizzazioni, reti, trame che danno un radicamento a questa narrativa femminista. È una chiave potente dell’America latina. Per esempio, in Honduras e Guatemala si parla di “femminicidio territoriale” perché la violenza contro le donne attacca quelle che sono protagoniste delle lotte contro le multinazionali estrattiviste. Il caso più noto è quello di Berta Cáceres, ma non è il solo. Le lotte collegano praticamente la violenza contro le donne e le lotte per la difesa dei territori e le risorse per la vita comune, e questo fa sì che circoli il concetto corpo-territorio, come una parola unica.

Si è cominciato a disegnare una trama, non come discorso generale e astratto, ma come un tessuto tra questioni molto concrete. Per esempio le donne che lottano contro l’agrobusiness sulla frontiera della soia di un villaggio del Paraguay dicevano: “sì noi scioperiamo. Scioperiamo contro l’avvelenamento delle nostre famiglie da prodotti tossici”. O la maniera in cui si è prodotta la destituzione di Dilma in Brasile è stata giustificata nel nome della chiesa, Dio e la famiglia. C’è un’offensiva generale delle chiese in America latina contro quello che un teologo di qui ha chiamato “ideologia di genere”. Voglio dire: lo sciopero è stato una specie di connettore di realtà e lotte che ha suscitato molteplici interpellanze. Ha messo in evidenza uno stato di ribellione molto diversificato e trasversale.

La questione della chiesa è fondamentale. Abbiamo visto l’alleanza che il Vaticano promuove con i movimenti sociali come modo per istradare la critica ai cosiddetti “eccessi” del capitalismo. Il movimento delle donne radicalizza l’agenda e offre un’alternativa ai modi caritativi, filantropici e paternalisti di rispondere al saccheggio e allo sfruttamento del capitale. C’è una discussione molto forte su questo tema che ha un ancoraggio nel comunitario: come si produce “infrastruttura di cura” senza riprodurre il tipo di spiritualità della chiese, che sia evangelica o cattolica, che va chiaramente contro la sovranità sul corpo delle donne? Perché adesso dico qualcosa di intuitivo: ho l’impressione che il movimento delle donne non sia estremamente laico. Ha una mistica che è molto forte. E quindi c’è anche una disputa a livello spirituale, affettivo.

D’altro lato voglio chiarire che quando si parla del comunitario a partire dal femminismo, non si riduce la questione all’indigeno-contadino, ma riguarda anche le città, le villas, gli insediamenti, ecc. E dunque, disputa sulla spiritualità, disputa sulle infrastrutture di cura e disputa su come si collega il comunitario al popolare, se alla maniera della chiesa o a quella dei movimenti delle donne che radicalizzano l’autonomia sul corpo. Questi sono temi centrali in America latina.

E c’è anche una riflessione molto seria sulla violenza nei territori. È davvero il tema più difficile. E stanno venendo alla luce discussioni sulle strategie possibili. Oltre la richiesta allo stato una certa misura o finanziamento. Oltre un’agenda di cinque rivendicazioni allo stato, ecc. È chiaro che questo non è il problema del movimento: la rivendicazione istituzionale. Al contrario sta mettendo tutto in discussione, compresa la complicità delle istituzioni con la violenza. Di qui questa frase che tanto ci piace: il tempo della rivoluzione è adesso.

Durante la crisi del 2001 il protagonismo delle donne era evidente, ma la chiave di lettura femminista non appariva come una narrativa interna, propria, diffusa. Se in un quartiere ti definivi femminista ti guardavano male o con sospetto. Adesso non succede più. La questione della violenza si lega alla questione comunitaria attorno alla domanda di come ci difendiamo. Come ci difendiamo dalle manovre economiche, dalla crisi che viene, dalla violenza nei quartieri che in questo momento qui è molto intensa, ecc.

Quando il femminile e il comunitario s’incontrano a volte appare una certa idealizzazione della donna: l’immagine della madre che tutto può e sostiene la sua comunità con la sua abnegazione. Che altre immagini del femminile stanno apparendo a seguito dello sciopero, come questa “disponibilità per noi stesse” di cui parlate, ecc.?

Vero: Qui è molto forte la presenza nel movimento delle ragazze giovani e l’abnegazione non le interessa per niente (risate). Due settimane fa c’è stato un femminicidio tremendo nel quartiere di Florencio Varela dove hanno ucciso quattro amiche di 16 anni. Quello che risulta evidente in questo caso è la criminalizzazione della maniera in cui si mettevano in mostra, con le foto su FB per esempio: molto truccate, più vecchie di quello che erano, all’uscita dalla discoteca, passeggiando da sole di notte, ecc. La violenza era un attacco a questi gesti di autonomia, contro certe immagini di piacere e desiderio con cui si rappresentavano. Non è solo una rivendicazione delle donne come “restrizione morale” altruista per superare la crisi.

Nati: C’è tutta una generazione di ragazzi e ragazze molto autonomi. Non so se ha a che fare con il fatto che sono figli di chi ha vissuto il 2001… Mi sono accorta che tra i ragazzi più giovani, per esempio mio figlio e i suoi amici tra i 12 e i 14 anni, che quando vogliono interferire con qualcuno che ha detto o fatto qualcosa di male gli dicono “ma che patriarcale che sei”, è la maniera di farlo smettere. E lo dicono dei ragazzi davvero giovani! C’è stata un’accumulazione di questioni che si sono verificate in questi anni e i ragazzi e le ragazze di oggi appaiono diversi, più autonomi su molti temi. Cresciuti da madri che hanno vissuto, si sono organizzate e hanno creato vari tipi di comunità a seguito del 2001, sono educati da queste madri che si sono separate dalla modalità altruista…

buenos aires 3

Curare il processo e l’assemblea, per creare il comune

Volevamo infine chiedervi della vitalità delle assemblee. A volte i movimenti mettono in campo una grande potenza nell’agire concreto, ma quando arriva il momento della parola si produce divisione, polarizzazione ideologica e chiusura identitaria. Come avete elaborato questo momento della parola perché succeda qualcosa di diverso?

Nati: Quello che richiama maggiormente l’attenzione nelle assemblee è il virtuosismo messo in campo nell’intento di fare convivere donne provenienti da settori molto umili, donne elette, donne per il diritto all’aborto, donne militanti di organizzazioni molto strutturate, sindacalizzate, ecc. Se riusciamo a convocare un 8 marzo con questa assemblea, coordinandole tutte, sarà un virtuosismo incredibile e inedito. Questo in Argentina non è mai successo. Ci sono sempre due organizzazioni per l’8 marzo.

C’è sempre questa tensione. Si vedono le militanti politiche dei partiti di sinistra che vogliono che prevalga la posizione del partito, ma si vede in esse anche il desiderio che l’assemblea non si rompa. Mettono in tensione e allentano, verificano fino a dove possono spingere e dove no. In uno stesso corpo ci sono queste tensioni. C’è una coscienza generale del fatto che si tratta di una convergenza importante che implica molte cose e che necessita una cura enorme su tutto il processo. Poi non so fino a dove si possa sostenere una cosa simile, né se sarebbe un bene che l’assemblea si prolungasse come luogo di coordinamento permanente. Ma quello che ho visto certamente è che in questa tensione prevale il desiderio di arrivare a una convergenza di tutte queste voci. In altri luoghi, lo abbiamo visto mille volte, le posizioni tendono a entrare in tensione e a rompersi. Comunque qui c’è stata una volontà molto forte di mostrare alla società qualcosa di più oltre le identità di appartenenza di ciascuna, qualcosa di molto femminile nella cura del processo.

Vero: Le assemblee sono state una fatica tremenda e per fortuna sono finite (risate). Il processo in sé è stato molto intenso: prendere sul serio tutta questa eterogeneità radicale in un esercizio pratico di composizione di corpi e voci, di traiettorie e aspettative. Fin dal principio si è detto che era impossibile produrre un documento comune perché nell’assemblea ci sono più di 60 organizzazioni di ogni tipo. Ciononostante venerdì scorso abbiamo approvato un documento comune per acclamazione, con molte di noi che piangevano e applaudivano. Fino in ultimo non pensavamo che si potesse arrivare a un tale accordo, nel mezzo di una battaglia – in certi momenti violenta – tra abolizioniste e lavoratrici del sesso, sindacati che chiamavano sprezzantemente “artigiane” le donne che vengono dalle organizzazioni dell’economia popolare e le lavoratrici di questa stessa economia, ecc. Eppure c’era la sensazione che sarebbe stato un successo arrivare a un consenso, e il venerdì è stato davvero impressionante. Un casino di assemblea nella quale però nessuna voleva rinunciare alla possibilità di giungere a qualcosa di comune. Credo che inondasse l’atmosfera una percezione di una certa verità storica della quale eravamo parte. Tutte – gente di mille origini – dicono che questo non si è verificato in nessun altro spazio. Assemblee che erano un carnevale di tutte le posizioni e le provenienze politiche, nella calura estiva, però con una disposizione generale ad accettare qualcosa del tono e del linguaggio di ognuna per comporre qualcosa insieme.

E da dove credete che venga questa legittimità del movimento delle donne che permette di praticare questa trasversalità?

Nati: Credo che ci fosse tanta gente che pensava che il 19 ottobre potesse essere così imponente. Oltre tutto quel giorno diluviava. Ma c’era una tale quantità di gente, donne, ragazze dappertutto… E allora abbiamo curato lo spazio dell’assemblea perché sappiamo che è diverso, che rinforza ciascuna nel proprio luogo e che legittima tutto il lavoro che ognuna porta avanti.

Vero: La convocazione del 19 ottobre ha commosso molto. Ciascuna è tornata nel suo luogo con una forza molto potente, con una specie di tatuaggio. Molte donne si sono date da fare da quel momento per portare la discussione dentro il loro sindacato, il loro quartiere, ecc. Una ragazza boliviana ci diceva l’altro giorno: “mi sento incoraggiata a tener la testa alta perché so di far parte di questa assemblea”.

Racconto una scena. Poco tempo fa è stata chiusa una maternità pubblica piuttosto interessante perché da anni si impegnava contro la violenza ostetrica. Le donne licenziate sono venute a raccontare la situazione nell’assemblea e si è prodotta una scena molto toccante. L’assemblea come luogo di elaborazione collettiva e politica del dolore. C’è qualcosa di questo momento del macrismo che ti situa immediatamente o in una posizione cinica o in una di impotenza. La forza dell’assemblea è che puoi dislocarti dalle due posizioni e inventare qualcosa di diverso. Senza garanzia, questo sì, perché dopo l’8 marzo non sappiamo bene quello che faremo. Però lì vengono donne con un tipo di angoscia e ricevono un’elaborazione politica diversa. E se non trovi un luogo così resti a casa avvelenandoti con la televisione o con la nostalgia di un momento in cui credevi che le cose andavano meglio, entrambe posizioni molto tristi dopo tutto. Nell’assemblea succede qualcosa, si apre lo spazio per qualcosa d’altro, al di fuori della nostalgia e del cinismo.

 

Post scriptum dopo l’8 marzo: un nuovo internazionalismo femminista

L’8 marzo è stato un evento di massa. Si parla di 500 mila persone nelle strade. La Plaza de Mayo era piena già prima dell’arrivo delle organizzazioni e dei cortei.

La scena era una composizione eterogenea di tutte le voci che avevamo cucito insieme nel documento polifonico che è stato letto e che ora ci resta da utilizzare, rendere concreto e rifinire. Abbiamo sentito un’attenzione inusuale alla lettura. Abbiamo visto le lacrime in molte compagne. Anche noi ci siamo emozionate: eravamo insieme, dicevamo che ci accorpiamo in un nuovo internazionalismo femminista e rendevamo esplicita ogni rivendicazione che abbiamo costruito ma lanciavamo anche un grido comune al di là delle rivendicazioni. Siccome ci vogliamo vive, abbiamo trovato la forza per convocarci, connetterci, produrre una voce tanto potente. Abbiamo vissuto la festa del mobilitarci unite dopo esserci fermate e aver tessuto questo sciopero corpo a corpo, parola a parola.

Il contrappunto alla manifestazione della CGT del giorno prima è stata evidente. Tre uomini dirigenti a parlare, senza alcun contenuto in quello che dicevano, sconfessati dalle loro basi per l’esitazione a fissare una data per lo sciopero generale e per concludere un leggio che è crollato a seguito delle proteste e i leader che hanno dovuto andarsene scappando.

Noi sì abbiamo fissato la data dello sciopero. Noi ci siamo organizzate. Noi abbiamo scioperato. Perché ci muove il desiderio di costruire adesso il mondo che vogliamo vivere.

NOTE

[1]Donne che vivono raccogliendo e rivendendo carta e cartone [ndt.]

[2]Le villas sono insediamenti precari nelle periferie urbane delle grandi città in Argentina [ndt.]

 

Traduzione dallo spagnolo di Mario Bucci

 

L’originale dell’intervista in spagnolo su Revista Alexia

Il testo è stato pubblicato in inglese anche su Viewpoint

 

BIOGRAFIE

Amador Fernández-Savater è un ricercatore indipendente, editore di Acuarela Libros e curatore de Revista Alexia. Ha partecipato a vari movimenti sociali (studenti, anti-globalizzazione, copyleft, contro la guerra, V de Vivienda, 15-M). È autore di Filosofía y Acción (Editorial Limite, 1999), co-autore di Red Ciudadana tras el 11-M; cuando el sufrimiento senza impide pensar ni actuar (Acuarela Libros, 2008), Con y contra el cine; en torno a Mayo del 68 (UNIA, 2008) e Fuera de Lugar. Conversaciones crisi entre y transformación (Acuarela Libros, 2013). Tiene un blog “Interferencias” su eldiario.es.

Marta Malo è traduttrice freelance, attivista, ricercatrice e madre che vive a Vallecas, un quartiere operaio situato a Madrid Sud. Sin dal 1999, ha portato avanti analisi teoriche sui temi del potere, del gender, dei confini e della governamentalità, nonché attività di ricerca-azione dal basso sulle pratiche pedagogiche. Nel 2004, ha curato l’edizione del libro collettivo dedicato alla ricerca militante: Nociones Comunes. Experiencias y ensayos entre Investigación y Militancia. I suoi progetti di collaborazione includono Precarias alla deriva, un progetto di ricerca-azione sulla precarietà femminile costruito da lavoratrici precarie (2003-2007), e Manos Invisibles, un progetto di ricerca collaborativa sulla governamentalità neoliberale, ancora in corso. Nel contesto post-15M, si è impegnata nella creazione della Escuela de Afuera, che punta a sviluppare nuovi strumenti pedagogici per decolonizzare le modalità attuali dell’educazione e della formazione, costruendo connessioni inusuali e trasversali fra l’università e la periferia.

Natalia Fontana ha fatto parte del Colectivo Situaciones ed è segretaria della comunicazione per l’Asociación Argentina de Aeronavegantes (Associazione Argentina dei Lavoratori Airline).

Verónica Gago fa parte del Colectivo Situaciones, insegna nella Facoltà di Scienze Sociali presso l’Università di Buenos Aires, ed ha un contratto di ricerca post doc presso National Scientific and Technical Research Council (CONICET). Attualmente sta lavorando a un progetto che indaga sulle economie popolari in contesti post-neoliberisti.

Le foto pubblicate sono di Constanza Niscovolos

Print Friendly, PDF & Email