Lucia Amorosi recensisce per effimera un volume significativo, di recente uscita: Pensare in tempo di sventura. Saggio sulla filosofia di Simone Weil di Viola Carofalo (2021, pp. 166), per Orthotes Editrice. La recensione offre uno sguardo sulla rilevanza di una pensatrice che può fornire importanti spunti di riflessione nell’ambito dei tempi di crisi che viviamo – soprattutto se “attualizzata” da letture che la possano mettere in realzione alle sfide del presente.

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Pensare in tempi di sventura: una sfida che oggi più che mai sembra incombere su chiunque abbia a cuore il cambiamento dell’esistente e il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri viventi e del pianeta. Una sfida che oggi si scontra con il peso dell’emergenza pandemica che, da un anno a questa parte, ci lascia spesso privi degli strumenti giusti per pensare e immaginare il futuro, il nostro futuro. Questo è il titolo del saggio di Viola Carofalo su Simone Weil appena pubblicato da Orthotes Editrice, titolo che riassume l’attualità del pensiero weiliano e dunque la necessità di conoscerlo, oggi più che mai. L’autrice fa da subito una considerazione importante: conoscere Weil può risultare d’aiuto a chiunque si interroghi su come procedere, su che strada seguire specialmente in una fase come quella che stiamo attraversando. Il testo rende chiaro e accessibile il pensiero della filosofa francese a un pubblico largo, mettendolo in comunicazione diretta col mondo di oggi a partire innanzitutto dai tre punti scelti da Carofalo per tessere il filo del pensiero weiliano alla luce delle urgenze del presente: le trasformazioni del mondo del lavoro, la guerra come filo conduttore dell’esperienza del Moderno e il colonialismo come sistematico processo di rimozione dell’alterità e, infine, la difficoltà di prendersi cura non dei vincitori, ma dei vinti, dei malati, dei fragili.

Punto di partenza è la constatazione della sventura vissuta dall’umanità ai tempi di Weil: quella dell’esperienza devastante della guerra e dei Totalitarismi, ma anche quella di un’organizzazione del lavoro disumanizzante e meccanicistica, che riduce l’uomo stesso a macchina. La sventura dovuta, secondo Weil, alla perdita del limite, alla sconfinata fiducia nel progresso illimitato che fa sentire l’uomo simile a Dio persino quando ha perso non solo gli elementi del divino, ma spesso anche quelli dell’umano, suona sinistramente paragonabile alla sventura del nostro mondo minacciato dalla catastrofe ambientale, come giustamente Carofalo ricorda già all’inizio del libro. La dimensione mistica e spirituale di Weil, per quanto possa risultare spesso estranea e addirittura avversa a chi ha fatto della lucida razionalità la sua guida di azione sociale e anche politica, aggiunge un tocco quasi profetico al suo pensiero: la sua attenzione premonitrice sembra metterci in guardia sui rischi che corriamo oggi, nonostante il suo monito si rivolga a un presente ormai divenuto passato, ma non per questo troppo distante da noi. Prendere coscienza del limite svelando l’ottusità della pretesa onnipotenza umana era (e resta) il principale avvertimento di Weil: una volta screditato l’antropocentrismo predatorio della nostra società il limite stesso cessa di essere costrizione per costituire un momento di contatto con un’alterità spesso irraggiungibile e ingovernabile. Una simile presa di coscienza, tuttavia, non è propedeutica, come troppo spesso si pensa, alla più misera rassegnazione e all’accettazione dell’esistente, ma apre a un reale e profondo cambiamento.

Prima occasione per prendere coscienza della sofferenza umana, per vederla addirittura incarnata, è l’esperienza del lavoro in fabbrica che Weil, spinta da un’empatia trascinante e totalizzante, decide di sperimentare in prima persona. È solo nel lavoro inteso come fatica, come azione svolta su una materia che oppone resistenza, che si sperimenta il limite vero della stessa azione umana, prendendo coscienza dell’infondatezza di un antropocentrismo che risulta spesso più deleterio di quanto si pensi. Una simile esperienza, tanto fondamentale quanto chiaramente rivelatrice della realtà oggettiva del mondo, non è tuttavia possibile nelle condizioni di lavoro viste e sperimentate in prima persona da Weil in fabbrica: la sua concezione di lavoro non può che tenere insieme azione e pensiero, una specie di azione creativa che non può esistere sotto i rigidi dettami della specializzazione e della divisione del lavoro. Un’organizzazione del lavoro che non consente l’auto-riconoscimento e il riconoscimento negli altri, infatti, fa a pezzi l’umano stesso in un processo che non risparmia nessuno, nemmeno chi controlla e sfrutta il lavoro, condannato anch’esso a non provare mai quell’esperienza del limite funzionale alla vera conoscenza. In un simile contesto i lavoratori che, vedendo il loro lavoro diviso e scandito da macchine, diventano essi stessi macchine di carne, per Weil testimoniano il processo di disumanizzazione in corso. Da macchine di carne a schiavi di una macchina, sembra che nei decenni le cose siano solo peggiorate: dalla logistica ai servizi passando ovviamente per i riders, la macchina non è stata frenata e il processo di divisione del lavoro non ha fatto che implementarsi, arrivando al paradosso del vederci controllati e gestiti non più da un superiore in carne ed ossa, ma da macchine che sembrano concepirci come altre macchine, quelle stesse macchine di carne di cui parla Weil. Carofalo riesce, così, a tracciare chiaramente l’attualità dell’analisi del lavoro di Weil, senza sottrarsi all’inevitabile confronto con Marx: se la sconfitta dell’alienazione e la fine della sussunzione dell’umano nella macchina sembrano essere due concetti condivisi da entrambi i pensatori, c’è però una grande differenza inerente al concetto di necessità. Se per Marx la necessità è uno stato da cui occorre uscire per poter pienamente realizzarsi come esseri umani facendo affidamento su una sincera fede nelle capacità dell’umanità e nel progresso, Weil concepisce la necessità come limite da accettare per uscire, piuttosto, dal falso regno dell’onnipotenza, da quell’antropocentrismo che effettivamente stiamo pagando ancora di più oggi che il limite della natura e dell’ambiente si manifesta in tutta la sua tragicità.

Se il focus di Carofalo sul pensiero weiliano rispetto al lavoro ci permette di cogliere più in profondità il senso che la filosofa francese attribuisce alla parola e al concetto di limite, il secondo focus concettuale individuato dall’autrice restituisce un’altra idea weiliana che appare tutt’oggi incredibilmente attuale, ovvero la centralità della guerra e dell’esperienza coloniale nel processo di disumanizzazione dell’alterità. È forse qui che emerge uno dei concetti-chiave del libro e del pensiero di Weil: quello del rapporto con l’alterità e del valore della vita altrui. Se la guerra è la cifra del Moderno, infatti, essa non si pone in discontinuità col tempo della pace, ma si relaziona ad essa in una sorta di continuum in cui il valore della vita degli ultimi, coloro che sono al centro del pensiero e delle stesse scelte di vita di Weil, non muta: sacrificabile in tempo di guerra sull’altare della falsa coscienza del nazionalismo patriottico tanto quanto sacrificabile e disprezzabile in tempi di pace sull’altare del lavoro e dell’accumulazione di ricchezza. Un’intuizione, questa, che porta Weil a dubitare delle possibili evoluzioni successive alla fine della guerra e all’abbattimento dei Totalitarismi, confermando ancora una volta la dimensione quasi profetica delle sue analisi: la svalutazione delle vite altre, delle vite degli ultimi, non è cessata con l’avvento della democrazia, è continuata secondo un paradigma che individua (e individuava già durante la guerra) vinti e vincitori all’interno di una stessa società. Tratto comune tra sventura passata e presente è proprio il mancato riconoscimento della sacralità della vita altrui: quella vergogna provata da Weil difronte alle atrocità commesse dalla Francia nelle colonie e che la facevano sentire responsabile in prima persona di ciò che altri avevano deciso anche in suo nome, è sintomo della profonda empatia della filosofa, forse è uno dei tuoi tratti più caratteristici. Un presente in cui la guerra continua a essere centrale non solo rispetto alle attuali dinamiche di sfruttamento e alla divisione ormai internazionale tra vincitori e vinti sul piano sociale ed economico, ma anche rispetto all’attuale condizione pandemica. Anche in un momento come quello che stiamo ancora vivendo, un momento in cui la fragilità evidente del singolo essere umano e dell’intera specie si è imposta agli occhi di tutti, non siamo stati in grado di usare metafore esplicative differenti da quella bellica. In una guerra, infatti, ci sono sempre vinti e vincitori, in guerra ci sono eroi e non lavoratori che dovrebbero svolgere il loro lavoro in sicurezza, senza bisogno di dimostrare di essere forti e valenti ogni minuto e, soprattutto, in guerra ci sono tante vite di “soldati semplici” facilmente sacrificabili, ci sono cittadini che obbediscono agli ordini senza neanche provare a capirne il motivo. In guerra tra la gente vige la logica del “si salvi chi può”, ci sono comandanti, generali e capi, l’autorità che non si mette in discussione. Abbiamo nuovamente fatto ricorso alla metafora più immediata e semplice, quella a cui siamo ancora abituati, pensando a come uscirne vincitori senza preoccuparci, ancora una volta, dei vinti.

È a questo punto che Carofalo si ricollega al terzo nodo teorico della riflessione di Weil, forse il più dirompente, specialmente se analizzato alla luce dell’oggi: l’attenzione verso l’altro, il riconoscimento della nostra reciproca interdipendenza e la necessità di prenderci cura degli altri, anche dei vinti, degli sconfitti, dei malati. È questa la chiave di volta per il rinnovamento della società: la scoperta e la messa in pratica di empatia e relazione, che possono contrastare gli effetti del costante processo di disumanizzazione. Come Carofalo mette in evidenza più volte, il riconoscimento dell’interdipendenza reciproca è assolutamente essenziale per Weil. Allora come oggi la crisi è innanzitutto un momento di scelta, la cui assunzione di responsabilità non può che passare dalla valutazione della condizione delle vite di tutti, vincitori e vinti, sani e malati. Viene ripresa, così, la riflessione sul valore della vita umana, un valore che per la mistica Weil è inerente a qualsiasi essere vivente, anche se stenta ad emergere nella società umana. Un tema, quello del valore della vita, che appare attuale tanto quanto la riflessione sull’interdipendenza esistente tra tutti gli esseri umani, e che ci riporta inevitabilmente a un presente in cui la narrazione dominante è incentrata sulla chiara definizione ed esaltazione della vita produttiva, in un costante e continuo processo di svalutazione e invisibilizzazione di quelle vite improduttive che altro non sono che le vite dei vinti, i nostri vinti, corpi interni al nostro stesso insieme sociale. La cura non riesce a uscire dalla dimensione individualizzante ed egoistica di una società che ci rende sempre più isolati e divisi, anche in un momento storico in cui ci ritroviamo tutti ugualmente fragili e vulnerabili. Eppure, se la crisi è anche e soprattutto momento di scelta responsabile, di cernita di ciò che è vero e ciò che non lo è, mai come in questo momento abbiamo bisogno di far tesoro del lascito di Weil e di volgere lo sguardo per guardare davvero il corpo vulnerabile, malato, perdente e vinto e riconoscerlo come nostro simile e non come altro da negare.

L’autrice ci guida lungo questi tre punti prospettici privilegiati per cogliere nel profondo il pensiero di Weil, svelandone l’utilità ai fini della comprensione del presente. Non occorre una conoscenza filosofica particolarmente approfondita per entrare in sintonia con il libro: la bravura di Carofalo sta proprio nel rendere accessibile e lucidamente chiaro lo svolgersi del pensiero della filosofa francese, seguendo una traiettoria che nella sua coerenza sembra svilupparsi in modo quasi naturale, senza forzature né vuoti concettuali. Un testo chiaro e diretto, immediato come la postura di Weil verso il mondo stesso: in comunicazione aperta e diretta con l’altro, col tutto, una postura che rende possibile superare l’immobilismo e l’afasia dei tempi più difficili e bui, che consente di elaborare mentalmente e pensare anche in tempi di sventura, con una tenacia che di remissivo ha ben poco e che porta a scegliere chiaramente da che parte stare, fuggendo da qualunque forma di falsa coscienza di ieri e di oggi.

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