Per affrontare una discussione volta alla creazione di un intervento politico capace ed efficace dovrebbe essere necessario analizzare, in modo serio, i limiti dei movimenti. Se ci guardiamo attorno, se analizziamo le pratiche, i successi e gli insuccessi dei movimenti di base possiamo trarre molte informazioni utili e molte considerazioni pratiche e teoriche. Gran parte dei problemi che ci attanagliano hanno un unica origine: la precarietà tanto citata, tanto diffusa, tanto avvolgente, così totalizzante, non è stata recepita ed anzi le problematiche che porta sono state eluse per i più diversi motivi.Guardiamo alle pratiche e alle attitudini dei movimenti e poi risaliamo all’origine del problema. Una prima costatazione attitudinale è che i movimenti più organizzati hanno adottato la retorica della precarietà apportando semplicemente correzioni contestuali o terminologiche senza cambiare la struttura del proprio agire e neanche investendo sui nuovi soggetti. Si parla di precari, magari, ma si cerca sempre il nuovo proletariato e dietro di esso si prova a scorgere la classe operaia. Le lotte per quanto eroiche vivono isolate e hanno profili tattici, immediati, che servono più alle organizzazioni che allo sviluppo di un conflitto generalizzato. Analizziamo poi una altra questione che passa di bocca in bocca, inflazionando di volta in volta il proprio peso: il reddito, questa chimera da tutti citata ma quasi mai criticata, ovvero mai ragionata, analizzata e costruita fino in fondo. Il reddito è diventata una rivendicazione in sé, come lo è il lavoro (o come lo era) generando ogni tanto mostri dialettici che lo contrappongono o peggio che lo sommano al diritto al lavoro.Ciò che si è poco considerato è il reddito come elemento di una politica sul lavoro e contro il lavoro, in quanto contrapposizione fra diritto al lavoro e diritto alla scelta del lavoro.

 

Una politica su questi temi sarebbe veramente antagonista, e oseremo dire rivoluzionante, elemento vitale di un’azione che dovrebbe strumentalmente usare il reddito per attuarsi e non viceversa. Questo elemento di concatenazione con la creazione del conflitto precario non è purtroppo nelle corde dei più. Eppure Grillo ha raccolto l’insoddisfazione precaria e quindi un certo grado di insofferenza è latente.

 

Ci troviamo quindi nella situazione in cui l’oggetto della questione, la precarietà, è sulla bocca di tutti, ma il soggetto non è nella prospettiva di nessuno. Anche questo ha delle conseguenze.

 

Nessuno sottovaluta l’immobilismo dei precari in generale, ma per quanto tempo sono stati immobili gli operai? L’unica strada è l’evidente congiunzione degli interessi dei precari e dei migranti, e per precari non intendiamo quelli del corpo militante. Ciò che vale per il reddito vale anche per molte altre rivendicazioni. Alcuni argomenti fondamentali, come le grandi opere, vengono trattati alla stregua di opposizioni frontali circondate da letture macroeconomiche o micro territoriali, che sono gli estremi della separatezza fra l’azione politica e il sociale complessivo che la circonda. Ci spieghiamo meglio: se cambia lo schema dell’accumulazione, lo sfruttamento rimane identico (anzi quando il capitale muta è per peggiorare le nostre condizioni), ma è ovvio che l’opposizione allo sfruttamento deve mutare, pena la sconfitta. Non ci sono diritti che rimangono uguali a se stessi in quanto nell’evoluzione della società diventano diversamente esigibili. Ciò vale anche per i diritti fondamentali dell’uomo, sempre che non li si voglia confinare nella sfera dell’umanesimo e sottrarli a quella della politica. La casa, ad esempio, è un diritto oggi come ieri, era un diritto per gli operai e lo è per i precari, le occupazioni sono sicuramente una forma di reddito indiretto, ma vivendo nella post-modernità non crediamo che ci sia niente da aggiungere? Ma arriviamo al punto. La precarietà non è un argomento fra gli altri, poiché la precarizzazione è il modo di accumulazione oltre che di sfruttamento: il primo termine, da un punto di vista politico, è l’architrave della costruzione dialogica dell’alternativa, mentre il secondo è il carburante dell’indignazione, e fra i due la differenza, direbbe Lenin, è abissale…. Marx si limiterebbe a dire che sulla prima si costruisce un’opposizione scientifica, sulla seconda una morale utopica. Ma dove sta l’errore? O dove sorge la confusione? Da uno stesso equivoco che più volte è stato sottolineato: la precarietà è l’espressione della forza delle aziende, ma non costituisce la ragione di questa forza. La precarizzazione vive oggi la sua maturità, mentre i processi che ne hanno portato al compimento sono iniziati almeno quarant’anni fa. Dove risiede quindi questa forza, questa superiorità strategica e tattica? Nella capacità di dominare perfettamente l’elemento comunicazionale della produzione, l’elemento più avanzato del suo plusvalore. E’ stato detto più volte che la produzione immateriale riveste quella materiale, che la globalizzazione si è appoggiata su questa divisione (ora non più, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi). Si è parlato del modo con cui i grandi brand, o multinazionali, si sono concentrati sulla gestione dei processi comunicativi e simbolici, ma forse non si è compreso la rilevanza e la profondità di questa trasformazione. La sfida più grande dei movimenti è quindi quella di riprendere un’offensiva nel regno della produzione immateriale per riappropriarci di quegli strumenti che rendendo grande il capitale possono rendere anche grande il conflitto contro il capitale: se il sabotaggio nasce dalla parola sabot che erano gli zoccoli con cui si danneggiavano i processi produttivi industriali è ovvio che abbiamo bisogno di una nuova parola, per definire nuove pratiche. Oggi dei sabot non ce ne facciamo più niente. Quindi lottare contro la precarietà ci pone una gerarchia di problemi e di necessarie riflessioni anche teoriche, ma senza mai far l’errore di confondere il giusto impegno intellettuale con le manie e le derive intellettualiste. Ma cosa sono questi processi comunicazionali in cui le imprese investono con tanta perseveranza a scapito delle cose (merci materiali) e delle persone? Disgraziatamente nella letteratura eretica della sinistra non troviamo molti stimoli al di là delle analisi più o meno corrette del capitalismo cognitivo. Abbiamo letto tutti dei testi che ci possono dare qualche indicazione. Il monumentale, limpido, emozionante Jenkins ci fornisce già una buona base di riflessione, pur avendo delle lacune forti. Il suo libro “cultura convergente” è fondamentale, ma risente di un certo ottimismo e di inversione fra cause e effetto; alla luce dei fatti sono le tecnologie (e non la cultura) a convergere; è l’ampliamento delle tecnologie stesse a mascherare questo processo, ma più queste crescono più queste si combinano, aumentando l’entropia dell’utilizzo ai fini comunicazionali di ognuna di esse: se non agisci complessivamente, non produci né la rappresentazione delle tue idee né cultura (Grillo ci ha insegnato questo).

 

Possiamo dire che l’apporto di ogni tecnologia diversifica l’efficacia di ogni messaggio. Ciò non significa che bisogna essere presente su ogni piattaforma o in ogni tecnologia, ma piuttosto che il nostro messaggio e le nostre idee devono assumere forme declinabili, malleabili, replicabili, per essere virali… Anche Chomsky ci fornisce letture chiare su come i mass media, in primis televisivi, sono un sistema sorpassato che la sinistra sbagliando ha confuso come motori dell’avanspettacolo (memorabili le pagine di Luc Ferry nel libro “Al posto di dio” che analizza le confusioni sinistre del rapporto fra televisione, personalità politiche e popolo..), ma la cui trasformazione precorreva la trasformazione della società.

 

Una società composta da un corpo sociale bisognoso di consumi immateriali, di stili di vita, di emozioni immediate, che costituiscono nel loro insieme una “tensione del consenso” che non è altro che la coincidenza del prodotto emozionale con il nerbo sociale. La desacralizzazione della religione e quello delle ideologie sembrano essere state passate nel tritacarne del capitale capace di rivitalizzarsi sulle disgrazie dei fallimenti altrui, attingendone però le prerogative più allettanti e utili. E’ Berneri a spiegare vividamente quando questo processo ha inizio. I primi mass media sono stati i totalitarismi sorti dalla prima guerra mondiale: il mass media nasce prima come liturgia in seguito all’istinto sociale diffuso di un proletariato industriale e contadino che dopo aver vissuto un’esperienza psicotecnologica così traumatizzante, totalizzante e devastante come la grande guerra (la prima) ha sentito intimamente un nuovo bisogno: quella della catarsi sociale completa e totale. Appunto: le liturgie di massa politiche. Come d’altronde Mosse spiega benissimo nella “nazionalizzazione delle masse”. E quest’ultimo libro anticipa una questione mai risolta ma che oggi torna con forza nella crisi della rappresentanza: ma l’unica democrazia pensabile è quella del voto oppure partecipazioni diverse nella res pubblica sono altrettanto democratiche? E le liturgie politiche dei totalitarismi non creavano anch’esse un’elevata adesione e partecipazione di massa? Domanda più che attuale.

 

Il capitale non ha fatto altro che seguire la strada creando una nuova liturgia incentrata sui mass media che agiscono sempre più ampiamente e in modo sempre più diversificato attraverso l’evoluzione tecnologica della comunicazione. Riprendiamo il libro di Jenkins e diamo una lettura conflittuale a ciò che ci dice. Innanzitutto analizza la sovrapposizione fra una produzione materiale e una immateriale che ha avuto due conseguenze fondamentali, profonde: la confusione fra produttore e consumatore, e più in generale una certa, non totale, sovrapposizione fra le sfere del consumo e della produzione. Andando al di là, queste due conseguenze in ultima analisi ci devono portare alla radice del problema: la produzione non coincide più con il lavoro.

 

Difendere il lavoro in sé è quasi una richiesta di carità sociale. E’ come chiedere che una parte della produzione venga destinata a tenere impegnate le persone. Chiedere reddito è invece una politica aggressiva di riappropriazione e di critica della produzione pur sempre sociale .Ciò che sarebbe utile indagare dovrebbe essere: quando produciamo e quando consumiamo cos’è la produzione oggi (nel quotidiano della nostra vita, non nei soli limbi della teoria)quanto la produzione sociale eccede il lavoro: non per forza la formulazione di una nuova legge del valore, piuttosto un modo per spiegare al lavoratore o alla lavoratrice della comunicazione quanto rende il suo lavoro alla sua azienda. Quanto vale il plusvalore immateriale, fondamentalmente.

 

D’altronde lo scoppio dell’autunno caldo seguì il dato, prodotto dalle frange estreme del sindacalismo, che l’operaio in una giornata di otto ore nel 1967 lavorava un’ora e mezza per sé e il resto per la Fiat. L’indignazione fu tanta. Insomma, diciamo che se non ricominciamo a ricongiungere teoria e prassi passando la costruzione delle rivendicazioni, partendo dalla critica del reale vissuto, e non da un sistema presunto, avremo un po’ di difficoltà a farci sentire e capire. Lo diciamo velocemente, anche se meriterebbe un maggiore approfondimento: la finanziarizzazione dell’economia è contemporanea alla nascita del capitalismo cognitivo, non sarebbe stato possibile scommettere e scommettere sulle scommesse e via così se il prodotto sociale fosse calcolabile nella sua materialità, anche solo approssimativamente. Per questo non esiste contraddizione fra salario e reddito ed è per questo che i nuovi diritti non sono la trasposizione in un ambiente diverso dei vecchi: “il diritto alla casa” ha lo stesso nome oggi come ieri, ma nella sostanza è diverso. Stessa cosa per il diritto all’istruzione. Ebbene di fronte a questo scenario possiamo continuare a lottare cambiando parole d’ordine, riverniciando i contesti, accontentandoci di piccoli obiettivi (per quanto faticosamente conquistati)? Evidentemente no, bisogna cambiare mentalità e strategia.

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