Erik Olin Wright è morto a 72 anni nel gennaio 2019, è autore di celebri libri fra i quali in italiano Utopie reali[1], edizioni Puntorosso, 2020. La sua tesi principale è che -senza illusioni e con tanta pazienza e su tempi lunghi- occorre formare un ingranaggio nel senso di far coesistere e combinare il socialismo con le tre correnti storiche dell’emancipazione: il comunismo, l’anarchismo e la social-democrazia originale (vedi il ricordo della sua opera da parte di Michael Burawoy su Primo Maggio). Laurent Jeanpierre è un docente dell’Università Paris VIII, autore di numerosi saggi e da anni impegnato nella ricerca sul pensiero della coerente sinistra dal XIX secolo sino a oggi. Fra i suoi scritti recenti c’è In Girum[2], in cui tratta di alcune lezioni politiche per il futuro riflettendo sul movimento dei gilets gialli. Poi il suo incontro con il sociologo Erik Olin Wright, un marxista statunitense nato all’indomani della seconda guerra mondiale che ha studiato e definito le Utopie reali. Jeanpierre lo ha fatto conoscere in Francia pubblicando Strategie anticapitaliste per il XXI° secolo.

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“Già provato. Già fallito. Non importa. Riprovo. Fallisco di nuovo. Fallisco meglio». Questa famosa citazione di Samuel Beckett riassume, secondo te, un certo stato d’animo della sinistra radicale. Erik Olin Wright non l’ha accettato. Cosa lo distingue?

Se ho usato questa frase nel commento che ho proposto come postfazione al suo lavoro, è proprio perché le elaborazioni di Wright negli ultimi 20 anni contrastano con una costellazione mentale o emotiva che mi sembra pesante nella sinistra anticapitalista, il che, quindi, a volte si manifestava riprendendo da Peggio tutta di Samuel Beckett. Questa meditazione sul fallimento è apparsa in effetti negli ultimi anni in vari modi, eppure ideologicamente abbastanza distanti tra loro: sia, ad esempio, da Slavoj Žižek che intorno al Comité invisible. Wright non parte da questo comune terreno di “melinconia di sinistra”, che molto spesso ostacola, anche se ha il suo potere, la possibilità di un pensiero strategico sulle condizioni attuali e reali, e non ideali o passate, di un benefico superamento del capitalismo.

Ma non è comprensibile questa “malinconia”, viste le tante sconfitte che il campo di emancipazione ha conosciuto?

“Contrariamente a quanto speravano molti intellettuali organici dell’anticapitalismo, l’attuale crisi economica e sanitaria globale non sminuirà davvero questa cupa scoperta”. Certo che lo è. È sostenuto da un profondo sentimento politico di blocco, viste le continue sconfitte accumulate dalla sinistra per quasi mezzo secolo. Di crisi in crisi, di alternanza in alternanza, di cambio di regime in cambio di regime, il movimento controrivoluzionario neoliberista riesce infatti a superarsi o a mantenersi e ad accrescere la propria presa. Contrariamente a ciò che molti intellettuali organici dell’anticapitalismo speravano solo pochi mesi fa, l’attuale crisi sanitaria ed economica globale non sminuirà davvero questa cupa osservazione. Wright, scomparso due anni fa, era ben consapevole di questo problema. È anche la precisa consapevolezza di questo declino politico dell’anticapitalismo che motiva la singolare svolta “realista” con cui intende piegare il tradizionale utopismo: in questa fragile lega tra due tipi di intelligenza solitamente contrapposti sta il nocciolo duro della suo pensiero strategico anticapitalista. Da qui, anche, le sue riserve nei confronti di progetti, programmi, utopie cartacee, scenari del “mondo dopo” – in altre parole, speranze slegate da un’analisi empirica del presente, che del resto non sono molto spesso che la traduzione della nostalgia ancorata a un passato idealizzato. Riproporre, in una critica radicale del capitalismo, la questione strategica, richiede ora, secondo lui, di interrogarsi scientificamente sulle condizioni di possibilità, sui precisi percorsi storici del socialismo – deviando metodicamente dalle basi della religiosità, dal credo, dal fede, positiva o negativa, alquanto incondizionata nel futuro delle varie tradizioni socialiste e del loro volontarismo trasformativo.

Questa critica si trova anche nel ribaltamento che Wright opera di quest’altra celebre frase, firmata da Romain Rolland e resa popolare da Gramsci: coniugare pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà.

Wright sostiene infatti che sarebbe bene cambiare questa formula, che vede come la linea di condotta implicita della maggior parte degli anticapitalisti odierni. Questa disposizione etica e strategica ambivalente che unirebbe “l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione” si trova in quello che dovrebbe essere chiamato il discorso del socialismo. Questa disposizione è attraversata da oscillazioni – nello stesso autore, a volte – tra l’osservazione del carattere implacabile del dominio capitalista o delle sue varie forme di sottomissione e l’affermazione di una necessità o addirittura di una evidente resistenza, radicalità, soggettività rivoluzionaria o trasformativa. Questa polarizzazione produce una tensione o una discontinuità difficile da evitare, tra il lato descrittivo e il lato normativo della scrittura socialista. Perché non si può allo stesso tempo ritenere che il dominio sia massiccio e che la rivoluzione – o comunque la resistenza, l’uscita – sia possibile o addirittura garantita … Questa posizione di pensiero però non è rara.

In un certo senso, ci dice Wright: Col “pessimismo della ragione, abbiamo già dato. Sappiamo già abbastanza sulle modalità di dominio e sfruttamento capitalista; sappiamo meno sulle modalità della sua trasformazione. Tanto meno, inoltre, come forma di religione della Storia ha attraversato tutte le tradizioni socialiste. Dobbiamo ora, dice Wright, coltivare e sviluppare il ragionamento più razionalista possibile sulla transizione dal capitalismo attuale a un socialismo futuro (o comunismo, eco-socialismo, ecologia sociale, ecc.): un ragionamento alla volta informato delle scienze sociali, ma mantenendo uno scopo teorico. Articolare, in altre parole, una prospettiva filosofica con osservazioni empiriche. E tenendo conto dei metodi desiderabili per abbandonare l’attuale formazione sociale. Dobbiamo quindi sostituire al pessimismo della ragione quello che Wright chiama “un ottimismo dell’intelligenza”.

Cosa implicherebbe questa mentalità non pessimistica?

“Possiamo davvero fingere che il 1917 non sia fallito per ragioni non solo estrinseche, ma intrinseche? “

Uno sforzo per pensare concretamente ai mezzi di accesso a una maggiore realizzazione collettiva con le proprie possibilità di successo. Ma non c’è niente di felice nell’esercizio: Wright attacca, tra le righe, nella più pura tradizione del marxismo, l’inanità e la debolezza degli intellettuali e degli attivisti di sinistra che si lamentano costantemente del carattere completamente compiuto del dominio capitalista senza avere problemi disegno, mese dopo mese e lotta dopo lotta, piani uno più stravagante dell’altro… La filosofia politica è piena di utopie di carta. Le tradizioni socialiste hanno già scritto le loro prime misure rivoluzionarie e le loro figure di comunismo. Wright suggerisce, al contrario, di riflettere, attraverso l’indagine empirica del passato e del presente, su quella che un tempo era chiamata nella tradizione marxista la “transizione socialista”: una transizione che deve ormai essere pluralizzata nei suoi fini, nei suoi percorsi , perché il secolo scorso ci ha costretti a farlo.

Cosa intendi esattamente con questo?

Ebbene, questo significa che il 1917 non era abbastanza, né è sufficiente staccarsi dallo stalinismo, o anche dal leninismo, per affrontare la questione dell’abbandono del capitalismo. Possiamo davvero fingere che il 1917 non sia fallito per ragioni non solo estrinseche, ma intrinseche? Si tratterà di ricominciare la rivoluzione bolscevica, ma altrimenti, per strade ancora sconosciute, come spesso hanno difeso i trotskisti? Naturalmente, tutta una riflessione strategica si è sviluppata dopo il 1917, nel marxismo e nelle altre famiglie del socialismo, tenendo conto del fallimento del 1917. Cosa resta oggi? Dobbiamo tornarci, senza dubbio, ma soprattutto andare oltre. La collana “Orizzonti delle possibilità“, edita da La Découverte, che dirigo con Christian Laval, si pone per oggetto ancora una volta la possibilità di trasformazione, speculativa o di studio. Di recente, Jérome Baschet ed Étienne Balibar hanno indagato la questione della transizione al socialismo. E se Wright è pubblicato lì dopo la sua grande opera Utopie Reali, è perché rinnova, a mio avviso, con un certo coraggio di pensiero, questa stessa classica domanda, ma adattandola alle attuali coordinate del capitalismo e rifiutando il dottrinale, il catechismo e la sterile opposizione tra le fedi socialiste.

Ma, prima di entrare ulteriormente nella discussione: chi, o meglio cosa è Erik Olin Wright?

Un sociologo nordamericano che ha studiato ad Harvard e si è formato politicamente durante gli anni ’60 americani – un periodo intenso di lotte studentesche antirazziste, sociali. Ha trascorso un anno a Parigi, parlava francese, ma nonostante tutto è rimasto poco conosciuto nel mondo francofono. In America Latina, nel Nord Europa, in Portogallo – ad esempio ha dialogato con il grande sociologo Boaventura De Sousa Santos -, nel mondo angloamericano, il suo lavoro viene diffuso e discusso. Anche se è un autore molto occidentale, ha quindi avuto un’ampia risonanza internazionale. Wright si è fatto conoscere per la prima volta rinnovando completamente l’analisi empirica e quantitativa in termini di classe sociale negli Stati Uniti e a livello internazionale, al punto persino che ha avuto accesso ai dati sovietici e sarebbe stato in grado, negli anni ’80, di iniziare un indagine incompiuta sulla struttura di classe nell’Unione Sovietica. Un lavoro davvero unico. Anche l’analisi di classe non era la cosa più di moda in America in quegli anni, per ovvie ragioni ideologiche: la svolta neoliberista aveva appena preso forma. E poi Wright è un marxista, il che è tanto più singolare in questo paese dove la parola è sufficiente per spaventare la folla … È anche uno dei rari sociologi marxisti della sua generazione, insieme a Michael Burawoy. E non è solo un sociologo marxista in un paese “anti-rosso”, è un sociologo marxista empirico in un contesto in cui la sociologia marxista non esiste o non esiste più! E questo su scala globale.

Lei dice che non c’erano sociologi marxisti?

Alcuni sociologi sono marxisti, ma la sociologia marxista fatica ad esistere. Fino a poco tempo, la sociologia empirica marxista era scarsamente rappresentata nella disciplina. Il lavoro, la cultura, la letteratura, la città, in particolare, hanno sicuramente attratto sociologi ispirati dal marxismo fino ai primi anni Ottanta, ma questa tradizione si è estinta. C’è anche, ovviamente, una teoria sociologica marxista i cui confini possono essere discussi, ma che potrebbe includere alcuni dei grandi nomi della teoria critica tedesca: figure come Goldmann, Lefebvre, Poulantzas, Löwy e altri dopo di loro. Ci sono certamente molti sociologi in Francia che si pensano o si definiscono marxisti – alcuni ora pubblicano su riviste come Contretemps – ma il loro impegno e il loro apparato teorico sono generalmente separati.

Come spiega questo debole sviluppo della sociologia marxista empirica?

“Wright chiede di ripristinare la questione utopica come una sfida interna al marxismo – accantonata da Engels più che da Marx, d’altronde”.

Ha a che fare con molti fattori, alcuni dei quali provengono dalla storia del pensiero marxista, l’ostilità dei paesi marxisti verso la sociologia empirica, da un lato, nonché l’impossibilità, in paesi dove lo standard della ricerca empirica era forte, come negli Stati Uniti, per articolarlo al paradigma marxista, d’altro canto. Nel caso francese, il lavoro di Bourdieu è servito, tra i sociologi critici negli ultimi decenni, come sostituto o alternativa al marxismo. Wright e Burawoy sono gli unici ricercatori recenti, che io sappia, ad aver recentemente sviluppato un programma completo di ridefinizione della sociologia marxista con principi e compiti che potrebbero fare scuola. Offrono campi di indagine, oggetti, modi di lavorare, tipi di problemi ai sociologi che aspirano a testare le loro convinzioni marxiste o il loro interesse per Marx e non semplicemente a presentarsi come sociologi che sposano politicamente il marxismo avendo difficoltà a farlo esistere scientificamente.

Quindi quali sono i contributi di Wright in questo contesto?

E’ anche un teorico. Ha un solido background in filosofia sociale e politica, anche se senza dubbio non è molto continentale. Alcuni potrebbero essere sorpresi, ad esempio, che il suo programma sulle Utopie reali – che per me era il punto di contatto centrale con il suo lavoro – faccia così poco riferimento al trattamento della questione utopica nella tradizione critica, in particolare al lavoro di Bloch, ma anche agli sviluppi con Mannheim, Lukács, Adorno, Horkheimer e molti altri. Ma è anche un punto di forza, perché Wright risparmia così tutti i vicoli ciechi teorici di quello che Perry Anderson chiamava “marxismo occidentale”. L’ancoraggio del sociologo statunitense al marxismo si oppone, in un certo senso, a questa tradizione da quando ha preso parte dagli anni ’80 al September Group, alla ricerca del “marxismo non cazzaro” (non-bullshit marxism): ha rifiutato l’idea di dialettica ed è a l’origine di quello che oggi viene chiamato “marxismo analitico”. Questa corrente1 è stata ricevuta e discussa molto poco in Francia, il che ha avuto un impatto sull’accoglienza e la lettura del lavoro di Wright.

Perché questa mancanza di interesse francese?

Ciò è senza dubbio dovuto al lungo posto marginale della filosofia analitica in Francia, all’ostilità nei suoi confronti da parte degli intellettuali più critici. L’abbandono del marxismo anche da parte di alcuni membri del gruppo di settembre. Ma Wright non è uno di loro. Come gli altri marxisti anti-bullshit, fu prima di tutto un lettore di Althusser, che, negli anni ’70, si ritenne fedele lavorando alla ricostituzione della scientificità del lavoro marxista – cioè anche per identificare i punti di polarizzazione o incoerenza interni all’opera. Sino agli anni 2000 questo programma marxista e scientifico tende, nel lavoro di Wright, a reintegrare la questione utopica. C’è, in questo progetto intellettuale, una tensione interna estremamente forte. Perché il discorso del marxismo è stato a lungo ostile all’utopia, anche se il rapporto di Marx ed Engels con le utopie socialiste del loro tempo è in realtà complesso e in evoluzione. Wright chiede di ripristinare la questione utopica come una sfida interna al marxismo – respinta da Engels più che da Marx, per di più – gettando indietro l’oggettivismo della scienza marxista della storia e il soggettivismo del partito politico marxista.

Ma l’anticapitalismo può essere di per sé un’utopia, sapendo che le correnti fasciste a volte pretendono impadronirsene a modo loro?

Da un punto di vista politico o scientifico attuale, bisogna certamente porsi la questione delle utopie fasciste e della loro ascesa. Ma, per Wright, possono rimanere al di fuori di un’indagine di uscita dal capitalismo perché, per guidare l’indagine, egli forgia una definizione normativa di ciò che chiama “socialismo”. Si riferisce allo sviluppo di tutto, all’aumento del buon vivere, ai valori di uguaglianza, autonomia e solidarietà. Ma è vero che un modo per ampliare e forse arricchire il suo programma di ricerca consisterebbe nel pensare alle “vere utopie” in generale, e alle alternative anticapitaliste in particolare: non sono, è vero, sul mercato della storia, unicamente “socialista” – anche nel senso ampio in cui intende questa qualificazione. Pensa anche che un lavoro su ciò che egli identifica come il modo “interstiziale” di trasformazione del capitalismo – cioè, su questo cambiamento graduale e su piccola scala nella direzione di certi valori socialisti negli interstizi delle istituzioni dominanti, in quelle economiche particolari – bisogna tener conto delle utopie che ci sembrerebbero indesiderabili: utopie per gli altri, ma distopie per noi … Se osserviamo, come faccio da tempo, utopie della comunità ecologica, non è impossibile trovare proposte di tipo nativista o neofascista. Come interagiscono le comunità ecologiche più fedeli con i valori socialisti? Se tutto va bene, non dobbiamo porci davvero la domanda …

Sappiamo che la parola “socialismo” non ha lo stesso carico in Europa e negli Stati Uniti.

“C’è un accordo minimo sul fatto che il socialismo è il perseguimento di tre valori: uguaglianza, libertà e solidarietà – o uguaglianza, autonomia e aiuto reciproco. “

Sì. Anche se c’è un Partito Socialista Americano, il termine suscita spontanea ostilità e paura lì: evoca immediatamente, per molti che vivono fuori dal campus, i gulag. Ma questa parola è onnicomprensiva: si riferisce a uno stato di idee e pratiche anticapitaliste in cui il marxismo non ha ancora il potere. Lo stesso vale per l’anarchismo. C’è un effetto illusorio sulle divisioni del socialismo, senza dubbio dovuto alla storiografia e ai militanti del XX secolo, che hanno ricostruito genealogie e tradizioni inventate secondo le quali ci sarebbe stato un anarchismo puro, una democrazia social-pura e il marxismo del XIX secolo. Tra il 1830, quando la parola “socialismo” è usata sulla scena della storia, e il 1914, ci sono socialismi in cui tutte queste tradizioni, e altre, sono mescolate. Gli individui circolano tra le correnti. I conflitti sono presenti – come nella Prima Internazionale, dove sono stati molto discussi – ma ci sono ancora molti obiettivi comuni.

Questa prospettiva socialista pluralista, in cui comunisti, anarchici e riformisti “si mescolano”, è ormai perduta, giusto?

In effetti. Sarebbe bello ritrovare un orizzonte del genere … Penso che sia quello che pensava Wright. Questo è il motivo per cui, in questo libro, cerca di circoscrivere questa base comune ai socialismi storici. Innanzitutto, ovviamente, è la critica al capitalismo, anche se questa viene condotta secondo modalità che possono variare, ma con un minimo accordo sui misfatti, la distruzione operata dal capitalismo sull’essere umano e sulla natura. Il tema anti-industriale della distruzione della natura è rimasto certamente in minoranza nell’Ottocento, ma non è assente2. Quindi c’è accordo sul fatto che il capitalismo è la fonte cardinale dei nostri mali, anche se altri elementi, altre forze ovviamente partecipano ai mali del mondo. E, d’altra parte, c’è un accordo minimo sul fatto che il socialismo è il perseguimento di tre valori: uguaglianza, libertà e solidarietà – o uguaglianza, autonomia e aiuto reciproco. Ma le debolezze derivanti dalla frammentazione interna dei socialismi, non a livello di valori, ma a livello di tattiche, ideologie, forme politiche, devono essere invertite in forza di alleanza e combinazione. In un certo senso, questo è l’intero progetto Strategie Anticapitaliste.

Wright teorizza una “erosione” del capitalismo che si verifica su un lungo periodo, o per lo meno indefinito. Ma, come disse Keynes, “alla lunga, saremo tutti morti”! Quindi, non dovremmo rovesciare il potere capitalista il più rapidamente possibile?

Va innanzitutto ricordato che Wright intende andare oltre l’opposizione riformismo-rivoluzione, a cui troppo spesso è stato ridotto il pensiero strategico degli anticapitalisti. Si considerano tre modalità di trasformazione, anziché due: la rottura, il cambiamento simbiotico e la cosiddetta trasformazione “interstiziale”, di cui abbiamo già parlato. Questi tipi di cambiamento esistono a tutti i livelli della politica. Pertanto, la posta in gioco strategica è immaginare, a livello locale, nazionale, internazionale, combinazioni tra questi tre metodi di avanzamento del socialismo che finiscono per essere suscettibili di erodere il capitalismo. È quindi importante tornare a questo termine “erosione”. Il suo merito non è necessariamente quello di fornire risposte definitive alla questione della transizione, ma di mettere in discussione le tacite teorie della storia portate avanti dagli anticapitalisti. Possiamo credere nel carattere immediatamente benefico o assolutamente possibile delle rotture rivoluzionarie? Le risposte a queste domande dovrebbero essere ovvie.

[Qui emerge una evidente perplessità su queste considerazioni: non siamo forse in un contesto in cui è il trionfo liberista che erode le possibilità e capacità di agire collettivo per erodere il capitalismo? Jeanpierre e Wright non trascurano forse l’avvento del liberismo? O lo considerano come una congiuntura negativa che sarà superata?]

“Wright disegna una riflessione metapolitica sulla strategia socialista ponendosi al di là delle opposizioni ereditate dal secolo scorso tra anarchici, marxisti e socialdemocratici. “

Che condividiamo poi in tutto o in parte le sue aspettative, l’approccio di Wright è lì per indicare che se sono anticapitalista e rivoluzionario, per esempio, devo essere un po’ più chiaro sulle condizioni di possibilità delle rivoluzioni, sulle coordinate storiche di rivoluzioni passate, sui modi di trasformazione delle rivoluzioni politiche in formazione storica socialista o comunista. Su tutti questi punti, storiografia e teoria, per non parlare della retorica partigiana, non hanno risposte abbastanza forti. Wright non favorisce una modalità di trasformazione socialista rispetto a un’altra, ci chiede di pensare meglio alle loro interazioni. Contrariamente a quanto alcuni lo hanno criticato, non avrebbe quindi alcun problema con persone che rifiuterebbero i cambiamenti interstiziali, le esperienze comunaliste, cooperative o comunitarie, che disprezzerebbero anche il riformismo di sinistra al governo e che direbbero che si interessano solo alla rivoluzione socialista. Ma lui rispondeva loro: “Un altro sforzo (di conoscenza) se vuoi essere rivoluzionario!” Non vi è quindi alcuna esclusione a priori del modo rivoluzionario di trasformazione storica nel suo schema. C’è un’analisi storica che dice che le rivoluzioni nei paesi democratici oggi non ci sono state.

Analisi che condividi?

Sì. Molto resta da fare sulle condizioni della possibilità rivoluzionaria, un compito immenso che altre opere storiche e sociologiche oltre a quelle di Wright lasciano ugualmente prevedere.

Questo ci porta al cuore del problema: come, concretamente, riusciremo a creare una società socialista?

Per Wright – le cui lezioni sto semplificando qui – non possiamo pensare al cambiamento verso il socialismo esclusivamente in termini binari e manichei, facendo credere alle persone che tutto ciò che non è una rottura rivoluzionaria è solo polvere politica o addirittura inganno della ragione storica e capitalista. Wright è anti-hegeliano, come tutti i marxisti analitici. Non c’è uno stratagemma della ragione capitalista a priori. Ci sono rapporti di potere, una micropolitica e una macropolitica di assetti e poteri sociali, economici e politici che danno risultati più o meno favorevoli al socialismo e le cui regole e risultati devono essere studiati. Con Strategie Anticapitaliste, e Utopie Reali prima, Wright disegna una riflessione metapolitica sulla strategia socialista ponendosi al di là delle opposizioni ereditate dal secolo scorso tra anarchici, marxisti e socialdemocratici. Ereditiamo, dice, queste tre tradizioni la cui combinazione sincronica e diacronica deve essere pensata e praticata. Come fa quella che lui chiama la trasformazione “simbiotica” del capitalismo (che si riferisce soprattutto alla socialdemocrazia del primo Novecento e dopo il 1945), la sua trasformazione “interstiziale” (difesa dagli anarchismi e derivante da politiche prefigurative) e può trasformarsi attraverso la “rottura” (che si esprime nei momenti rivoluzionari) possono formare un ingranaggio socialista all’interno delle istituzioni del capitalismo? Ma, per considerare questo, ancora una volta, bisogna saper rinunciare al sogno di una “Grande Serata”, che offrirebbe tutte le soluzioni, e arrendersi al pensiero della transizione. Con il suo modello di analisi, Wright definisce semplicemente un programma di indagine e le sue coordinate. Non ha né le chiavi né il termine. Spetta a noi proseguire.

La combinazione di queste tre strategie principali passerebbe quindi attraverso l’erosione?

È il risultato finale. Il nome della transizione differenziale e incrementale al post-capitalismo. Perché ci sia un processo di erosione, per non parlare di una crescente erosione, è necessario, ancora una volta, avere ibridazioni tra socialismi e pratiche derivanti dalle tradizioni critiche del capitalismo. Ma se seguiamo Wright con precisione, l’erosione ha già supporto: non appena consideriamo le cose non più in modo molare, ma in modo molecolare, come diceva Guattari, c’è il socialismo, a piccole dosi, in tanti luoghi, istituzioni, settori di attività. In un certo senso, il lavoro di Wright dà una reale consistenza, una formalizzazione, a quella che è stata chiamata la “rivoluzione molecolare” negli anni ’70 – anche se il sociologo nordamericano parla una lingua completamente diversa da quella del clinico francese e di questo periodo. Ma va, in un certo senso, oltre, perché la nozione di rivoluzione molecolare, in Guattari, era in definitiva solo una rottura con il feticismo della rottura che dominava i movimenti degli anni ’70: la messa in luce e l’aggiornamento delle sole strategie interstiziali. 

Stavamo parlando di un’emergenza. Ce n’è uno che i socialismi hanno spesso e per lungo tempo trascurato: l’ecologia. La strategia di erosione è ancora sostenibile di fronte al cambiamento climatico e quindi al radicale sconvolgimento politico che dovrebbe causare?

“Tutti brandiscono le loro pratiche militanti, i loro feticci politici, come un’identità fissa, e finiscono per fare la morale piuttosto che la politica”.

Il disastro ecologico è già qui. I mali del capitalismo si stanno intensificando e l’attuale svolta autoritaria del neoliberismo, su scala globale, non dovrebbe favorire la resistenza futura. Di fronte a ciò, l’alternativa è forse la seguente: o diciamo che il breve tempo è una questione di tattica e il tempo lungo è una strategia (questa è una risposta classica e, in un certo modo, facile: le tattiche del socialismo sono sviluppate all’interno l’orizzonte dell’urgenza, ma che lascia aperta la questione dei loro effetti a lungo termine, la cui conoscenza è materia di pensiero strategico); oppure – ma forse è la stessa cosa – si separa l’orizzonte analitico proposto da Wright, che implica, appunto, un lavoro a lungo termine e una difficile riflessione collettiva sulla storia passata e presente, e l’orizzonte dell’impegno politico. Va notato che non c’è nessuna ricetta militante in Wright, nessun appello alla conversione, nessuna predilezione mostrata tra i modi di essere socialisti. Ecco come l’ho letto. Ognuno dei suoi lettori già anticapitalisti può rimanere nel suo ambiente o nella sua “famiglia” politica integrando le opinioni offerte dal libro. In definitiva, il libro si propone di aggiungere all’esperienza militante o intellettuale anticapitalista un ulteriore requisito di riflessività e tolleranza nei confronti delle altre tradizioni ereditate dal socialismo. Senza un tale sviluppo nella sinistra, il rischio della loro decomposizione aumenterà. Come oggi, ognuno brandisce le sue pratiche militanti, i suoi feticci politici, come un’identità fissa, vi trova un conforto soggettivo e finisce per fare moralità piuttosto che politica. Per quanto frequenti, tali atteggiamenti definiscono ciò che potremmo chiamare un “semi-socialista”.

Ma Wright era attento alla questione della morale, dei valori. Ciò che non è sempre molto ben accolto nelle nostre file: l’accusa di moralità (borghese), il rifiuto dei valori (repubblicani) …

Non è perché c’è un uso strumentale e dannoso di certi valori che la parola “valore” dovrebbe essere bandita. Non c’è niente di idealistico nel discorso di Wright sui valori socialisti. Al contrario, nasce da un ragionamento che in passato sarebbe stato chiamato “materialista”. Wright osserva empiricamente e realisticamente, come noi, che i socialismi sono divisi nonostante il fallimento storico del comunismo di stato. Uno sguardo alla storia politica ci insegna anche che più i socialisti perdono, più si dividono. Guardate, ad esempio, anche se è indubbiamente aneddotico, come le persone di sinistra più in vista passino molto tempo ad attaccarsi sui social: sono certe delle proprie certezze, aggrappate alle proprie convinzioni come totem. In Francia, alcune persone criticano ciò che chiamano “identità di sinistra”, ma non sono altrettanto “orientate all’identità” nei confronti delle astrazioni ideologiche o programmatiche e feticiste di certi nomi propri e delle loro affiliazioni? Forse questa è un’esagerazione. Ma non credo proprio. In altre parole, il problema di Wright quando parla di valori socialisti, cosa che ho evocato all’inizio della nostra intervista non è pensare a un’unità a priori ma alle condizioni di possibilità di una unità, non ex ante, ma ex post, delle tradizioni socialiste.

Per lanciare questa questione, il suo riflesso iniziale non è stato quello di iniziare con i “valori”, ma con l’analisi di classe. Wright iniziò con una ricerca che, in un certo senso, sollevava la questione del “soggetto storico” suscettibile di portare la fiamma del trascendere la storia. Ma ha concluso, dopo diversi decenni di osservazione, che la frammentazione degli sfruttati è diventata troppo grande per far emergere tale soggettivazione, che le condizioni sociali per condividere l’esperienza vissuta sul lavoro non sono o non esistono più. Allora, si chiede, quali sono le altre possibili condizioni per la formazione di una forza sociale anticapitalista? Per lui, e questo è forse discutibile, è nel regno dell’immaginazione e soprattutto dell’etica che questa unità può apparire. Vale a dire attorno a un sistema di valori e disposizioni condivise. Nessuna ricerca, quindi, di un “significante maestro” che, come in Laclau e Mouffe, ad esempio, avrebbe la funzione di unificare gruppi dominati attorno alla parola “popolo”, con in più un leader … Nessuna fantasia né, di “programma comune” che verrebbe a riconciliare le sinistre e portarle al potere. Per me, questi valori comuni dei socialisti sono più precisamente un ethos. La parola è indubbiamente meno fuorviante di quella di “valori”.

Come si manifesta questo ethos socialista che potrebbe consentire la costituzione di un blocco, un fronte? “Uguaglianza, libertà, solidarietà: questi non sono tanto valori da rivendicare, quanto valori che già ci sono e che è possibile, necessario, far crescere.”

Sono disposizioni incarnate che esistono nel mondo sociale. Sono il prodotto di una storia lunghissima, di cui le vecchie o non sempre apparenti vittorie della sinistra nel secolo scorso hanno fornito, attraverso certe politiche, le condizioni di possibilità. Oggi, in altre parole, grazie a questa eredità storica di lunga durata della sinistra, e nonostante decenni di neoliberismo, ci sarebbero più disposizioni per l’uguaglianza, l’autonomia e l’aiuto reciproco nel mondo sociale di un secolo fa – anche se queste sono socialmente distribuite in modo abbastanza diseguale. La sociologia del socialismo richiede quindi una sociologia delle disposizioni etiche. In ogni caso, sarebbe un modo per estendere il programma di Wright aggiungendo a un’indagine sulle vere utopie, una ricerca sull’ethos socialista.

Non si tratta di sventolare questi valori su un segno …

Uguaglianza, libertà, solidarietà: li faremo crescere incarnandoli, praticandoli, dove si trovano tutti. Questo è anche il modo per capire l’immagine dell’erosione del capitalismo.

C’è in Wright una logica di concatenazione, di concatenamento, di effetto domino. Può partire da cose a volte minime: trasporti pubblici gratuiti, per esempio. Nonostante tutti i tuoi avvertimenti, come mai questo non è … riformismo?

C’è in lui un’attenzione ai cambiamenti che ho chiamato “incrementali”, alle piccole differenze storiche. Si propone di confrontare i meccanismi della transizione socialista con quelli che hanno prevalso durante un’altra delle transizioni storiche tematizzate dal marxismo: il passaggio dal feudalesimo al capitalismo. Utilizzando le categorie della trasformazione storica da lui proposte – interstiziale, simbiotica, disgregante – e cercando di vedere come hanno interagito per realizzare questa mutazione che non è avvenuta dall’oggi al domani, che è una somma di piccole differenze accumulate, riforme e anche momenti di rottura. Pensiamo anche a Max Weber. Qual è l’etica protestante? Piccole sette che hanno cambiato alcune regole nella loro vita collettiva rispetto a quelle della Chiesa romana. Weber non ha mai avuto la follia di pensare che queste trasformazioni da sole producessero il capitalismo. Ha detto che era un parametro: interstiziale! Un cambiamento molecolare ed extra-economico che avviene in una temporalità appena percettibile. Qualunque cosa si pensi della validità empirica delle tesi di Weber, questo è un esempio di teorizzazione simile a Wright in cui i cambiamenti incrementali si combinano per produrre cambiamenti strutturali. L’uscita dal capitalismo non avverrà tra tre giorni. Se si può fare …

Quindi non ci sono “piccoli” cambiamenti che sono destinati a rimanere … piccoli?

Si può sempre dire: “l’economia sociale e solidale è l’utile idiota del capitalismo”, “le riforme socialdemocratiche della tassazione o dei consigli di amministrazione delle società, queste sono solo toppe”, ecc. Tutto questo è vero e falso. Il problema, per Wright, è comprendere meglio gli effetti previsti di tali misure e, più in generale, l’esatta natura degli assetti sociali per imparare a ribaltarli al socialismo. Possiamo, secondo lui, aumentare la quota del socialismo in tutti i contesti. Dallo Stato, dalla rivoluzione e dalle alternative. Piccole – cooperative, economia sociale e solidale – o più isolate dal mondo capitalista. Non c’è motivo di avere un giudizio a priori negativo su questi esperimenti interstiziali: devono essercene di più, che sono più connessi, che sono più accettati, che sono più socialisti. È un programma minimo ma esorbitante. Questo è il motivo per cui sono scettico sulle scoperte ostili alle alternative esistenziali, comunitarie o utopiche che fioriscono tra i neoleninisti o i paleocomunisti. Non mi sembra solo un errore analitico, dal punto di vista delle fonti del cambiamento storico, ma anche un errore politico, dal punto di vista dell’attrazione che queste pratiche alternative possono incontrare oggi, sia socialiste che ecologiche.

Abbiamo parlato molto di classe, di capitalismo, ma sappiamo che esistono altri fattori di oppressione …

“Possiamo, secondo Wright, aumentare la quota di socialismo in tutti i contesti. Dallo Stato, dalla rivoluzione e dalle alternative. “

Se la questione dell’unità dei dominati, degli sfruttati, di coloro che aspirano al socialismo, è la questione sociologica primaria per una riflessione empirica sull’uscita dal capitalismo, allora, dice Wright, sì, ci sono diversi candidati, e non solo operai o il proletariato più ampio. Il suo ragionamento è in sostanza il seguente: se ci sono lotte sempre più importanti sul tema del razzismo, della violenza della polizia, della discriminazione, è perché si tratta di un’esperienza non solo comune, ma anche condivisibile, più, forse, di altre esperienze di dominazioni che sono centrali per la teoria critica del capitalismo. Possiamo anche ipotizzare, estendendo Wright, che dalla svolta autoritaria del neoliberismo che stiamo attraversando ora, queste esperienze diventeranno sempre più importanti.

Nella tua postfazione, sollevi una riflessione singolare, che postula che Wright, con il suo rifiuto di un’avanguardia illuminata, è un rimedio per il “punto di vista virilista” che può resistere nelle correnti socialiste!

Se il leninismo non è più la strategia situata al centro di gravità della politica di uscita dal capitalismo, se ce ne sono diverse, come propone Wright, allora davvero non è necessario immaginare la storia con persone che sono in prima linea e altre che seguono. Ciò che emerge dal punto di vista del rapporto di genere con il mondo è una determinazione ortogonale o opposta a ciò che la soggettivazione maschile ha incarnato nei movimenti di emancipazione anticapitalista: un dubbio sulla dominazione maschile e tutte le traduzioni. Tattiche e strategie del virilismo, un dubbio sulla definizione stessa di strategia come affare bellico o quasi militare e quindi essenzialmente maschile. Questa è un’ottima notizia.

Traduzione dal francese di Turi Palidda. Vers. orig. qui.

[1] In italiano : Utopie reali, Punto Rosso Edizioni, 2020.  Recensione qui.

[2] Vedi recensione qui. In Girum imus nocte et consumimur igni. “Stiamo girando in tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco.

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