In un libro recente[1] Bruno Latour, figura carismatica dei science and technology studies, avanza quella che definisce “ipotesi di fantapolitica” (p. 27), ma su cui basa di fatto il proprio ragionamento rispetto alla necessità di “cambiare rotta” nella relazione con il mondo biofisico, riconoscendo la presenza di dinamiche geologiche influenzate ma del tutto indifferenti agli affari umani, con cui occorre iniziare sul serio a fare i conti[2]. L’ipotesi è che a impedirlo siano le élite politiche, economiche e culturali, le quali, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, resesi conto che la promessa di un accesso universale al benessere non può essere mantenuta e che i propri privilegi costano sempre più in termini ecologici, avrebbero concluso che l’unica soluzione è quella di “sbarazzarsi il prima possibile di tutti i fardelli della solidarietà” (p. 29).

In una nota critica al volume[3] ho osservato che è tuttavia improbabile che le élite abbiano deciso di comportarsi come i passeggeri di prima classe del Titanic, accaparrandosi le poche scialuppe disponibili e lasciando affondare tutti gli altri, senza rendersi conto che il disastro ecologico e la ribellione di masse ridotte all’indigenza non lascerebbe loro alcuna terraferma sicura da raggiungere, e che la loro scommessa è piuttosto di riuscire ancora una volta a evitare il redde rationem, rilanciando la crescita. La cosa sembrerebbe confermata dal fatto che l’allarme sulla gravità della crisi climatica ha raggiunto i livelli più alti della governance globale (vedi il varo dei Sustainable Development Goals nel 2015) e dall’annuncio di ciò che potrebbe costituire il cambio di rotta auspicato da Latour, ossia il Green New Deal. Dato che sono anni che l’International Panel on Climate Change (IPCC) lancia moniti inascoltati, ciò pare però dovuto in misura cospicua all’emergere di un’ondata di mobilitazioni dal basso, suggellata dall’intervento di Greta Thunberg al summit intergovernativo presso le Nazioni Unite, lo scorso Settembre. È su queste ultime e sul modo in cui configurano problema, responsabilità e soluzioni che si concentrano le riflessioni che seguono[4].

Cominciamo con il dire che l’ecologismo è sempre proceduto a ondate, cogliendo spesso di sorpresa gli osservatori. Chi si sarebbe aspettato che dalle piccole associazioni aristocratiche e altoborghesi di fine Ottocento, espressione di una sensibilità romantica per il raro e il pittoresco, si sarebbe passati alle mobilitazioni di massa degli anni Sessanta e Settanta del Novecento? Chi, di fronte alla radicalità di molti slogan di quegli anni, avrebbe preconizzato la trasformazione delle organizzazioni ecologiste in gruppi di pressione, alleate insieme ai governi nel supporto alla “modernizzazione ecologica”, secondo cui l’innovazione incalzante promossa dalla supply-side economy post-Fordista avrebbe consentito la coniugazione di crescita e ambiente? E chi si sarebbe atteso le proteste che oggi risuonano nelle metropoli e nella provincia del Nord globale? Soprattutto: come leggerle?

Definiamone intanto lo sfondo. Due gli elementi principali che lo compongono. Il primo si riassume in una parola: globalizzazione; il secondo in due: cambiamento climatico. Globalizzazione significa molte cose: indebolimento delle capacità di governo di territori, risorse e popolazioni da parte degli stati nazionali; espansione accelerata di taps e sinks, risorse prelevate e scarti prodotti; mercificazione della natura anche al di fuori dei processi produttivi, in termini di fornitura di “servizi ecosistemici” in cambio di un compenso ai proprietari[5]; riconfigurazione geografica e sociale delle disuguaglianze, dal land grabbing, ossia l’accaparramento massiccio di terre a fini di agricoltura intensiva o di riserva di valore, all’ascesa del ceto medio cinese o indiano e il declino di quello occidentale. Ancora, globalizzazione significa ridefinizione dei conflitti sociali, sempre meno riconducibili all’asse politico destra/sinistra e sempre più a quello locale/globale o rischio/opportunità[6], e conseguente perdita di rappresentatività di sindacati e partiti tradizionali. La lista potrebbe continuare. È importante notare che la crisi dell’economia globale, a partire dal 2008, non ha smorzato o rallentato questi processi, ma li ha semmai acuiti o accelerati.

Quanto al cambiamento climatico, esso è assurto a sintesi o emblema dell’impasse ecologica: da un lato l’inettitudine, cecità o insufficiente volontà delle élite e l’insuccesso della green economy; dall’altro l’impotenza di cittadini sempre più ridotti a massa disarticolata di consumatori le cui scelte di “sobrietà” e “responsabilità” si scontrano contro barriere strutturali (come non usare l’auto per spostarsi se non ci sono alternative praticabili? come evitare cibi preconfezionati se le pause dal lavoro di un tempo sono impensabili in una società in perenne attività? come consumare meno se consumo significa occupazione?). Se il fallimento del protocollo di Kyoto, sostituito dagli impegni non vincolanti di Parigi, ha fiaccato le speranze in una governance globale del clima, i limiti dell’azione individuale sul mercato, che avrebbe dovuto integrare la prima con un movimento dal basso, sono andati facendosi sempre più evidenti. Il combinato di questo doppio stallo può essere allora verosimilmente considerato la scintilla principale (di un’altra accennerò alla fine) che ha portato alla deflagrazione delle nuove mobilitazioni ecologiste, espressione di una società civile che non accetta più né l’inattività dei governi né l’irrilevanza della “scelta” individuale, per quanto eticamente gratificante. Non è questo il luogo per una comparazione tra questa e le precedenti ondate. Limitiamoci quindi al presente, esaminando ciò che distingue e ciò che lega tre movimenti che hanno ultimamente fatto molto parlare di sé.

Il primo prende avvio nel Regno Unito nell’ottobre 2018 sotto il nome di Extinction Rebellion (XR) salendo alla ribalta internazionale il 17 novembre a Londra, quando migliaia di attivisti danno vita a un’azione di disobbedienza civile bloccando cinque ponti sul Tamigi. Il secondo è quella dei Fridays For Future (FfF), che inizia in sordina in Svezia quando, il 20 agosto 2018, sul finire di un’estate inusitatamente torrida per il paese e segnata da drammatici incendi, la studentessa Greta Thunberg decide di non andare a scuola in segno di protesta contro l’insufficiente azione del governo nei confronti dei gas serra. Propagatasi in modo virale in Europa, Stati Uniti e Australia, l’iniziativa degli scioperi scolastici del venerdì prosegue nell’inverno e nella primavera ed estate successive. L’ultimo ha avuto luogo il 27 settembre di quest’anno. Nel momento in cui stendo queste note (fine ottobre 2019) le dimostrazioni sembrano destinate a continuare (la prossima è prevista per il 29 novembre). Infine abbiamo i Gilets Jaunes (GJ), movimento nato sui social network nel maggio del 2018, e protagonista di una prima clamorosa manifestazione il successivo 17 novembre (stessa data della dimostrazione londinese degli XR!), in reazione all’aumento dei prezzi dei carburanti e le riforme fiscali promosse dall’amministrazione Macron, accusate di colpire le fasce di reddito più basse e le aree periferiche del paese. La mobilitazione GJ sembra slegata o perfino opposta a XR e FfF. Nella misura in cui l’aumento dei prezzi dell’energia fossile dovrebbe ridurne l’uso, le proteste di GJ sembrano avere un carattere anti o perlomeno non ecologista. Tuttavia esse sono chiaramente connesse a quelle di XR e FfF. È stato l’impatto sociale di una politica varata con giustificazioni di carattere ecologico a mobilitare le persone, e alcune richieste dei GJ sono di politica ambientale (per esempio un piano nazionale per l’isolamento termico delle abitazioni). Inoltre il tema della giustizia è, come vedremo, altrettanto centrale nel discorso di XR e FfF, sia pure letto nel verso opposto (la giustizia ambientale implica quella sociale, anziché viceversa).

Non è questo il solo punto di contatto fra i tre movimenti. Prima di esaminarne altri, tuttavia, diamo un’occhiata alle differenze. Una prima è di carattere socio-demografico. FfF coinvolge studenti, dalle medie all’università; XR, come GJ, coorti di età variegate (esiste una youth wing di XR, oltre al movimento principale), ma diversamente da questi ultimi la leadership non è stata assunta da “comuni” cittadini bensì da una upper class intellettuale (soprattutto accademica)[7]. La composizione sociale complessiva di XR sembra inoltre parzialmente diversa da quella di GJ – più elevata e urbanizzata.

Seconda differenza: il tipo di azione. I FfF promuovono manifestazioni pacifiche; gli XR praticano forme di disobbedienza civile; le dimostrazioni dei GJ sono spesso sfociate in episodi di guerriglia urbana. La scelta della disobbedienza civile conferma indirettamente l’estrazione sociale più elevata di XR rispetto a GJ, dato che implica una disponibilità a farsi carico, e valorizzare simbolicamente, delle conseguenze (arresto, processo); qualcosa decisamente meno agevole e dotato della “giusta” risonanza pubblica per persone appartenenti a gruppi sociali meno dotati in termini di risorse finanziarie e relazionali, per tacere di chi occupa posizioni precarie (disoccupati, immigrati irregolari ecc.). Non a caso proprio da questa direzione fioriscono critiche nei confronti di XR, quale espressione degli interessi di una classe media bianca.

Terza differenza: il target della protesta. Per GJ e XR esso coincide in primo luogo con lo stato. Ovvio per i GJ, ciò è meno scontato per gli XR, dato che la loro protesta non si indirizza a singoli ambiti o provvedimenti di policy. Gli attivisti di XR, tuttavia, trovano inefficace l’attività svolta a livello transnazionale mediante accordi come l’United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) o istituzioni come l’IPCC, o promossa dalle grandi organizzazioni ecologiste[8]; per questo lo stato torna ad essere l’interlocutore principale. I FfF invece, come emblematicamente mostrato dall’intervento di Greta alle Nazioni Unite, considerano cruciale la scena globale, allineandosi da questo punto di vista con le numerose ONG che per anni hanno fatto da contrappunto ai summit intergovernativi, incrementandone la legittimità attraverso la loro stessa presenza.

Quarta differenza: il ruolo assegnato alla scienza. Né i GJ né gli XR (nonostante l’accennato ruolo di spicco degli accademici) pongono quest’ultima al centro del proprio discorso[9]. I FfF insistono invece su come la loro protesta trovi fondamento nella climate science; come essi ripongano fiducia nel sapere scientifico e nell’avanzamento tecnico[10].

Quinta differenza: il livello di politicizzazione. Per politicizzazione intendo qui la misura in cui la questione ecologica, il suo impatto su territori e gruppi sociali e le scelte di policy al riguardo, sono configurate in termini di relazioni di potere. Così definita, la politicizzazione risulta alta per i GJ. Gli XR, pur chiamando in causa, come si è detto, il governo nazionale, impostano la questione in termini innanzitutto morali: l’inaccettabilità dell’inazione di fronte a una minaccia che coinvolge tutti e ciascuno in modo fondamentalmente analogo[11]. Gli attivisti di FfF, a loro volta, paiono trovarsi in posizione ambigua o incerta. Da un lato il loro discorso predilige toni morali, insistendo su come l’inazione privi di un futuro le nuove generazioni. Dall’altro esso fa riferimento alla giustizia climatica e la sua inseparabilità dalla giustizia sociale, sia pure declinate, a differenza dei GJ, in termini globali piuttosto che nazionali (la differenziazione dei costi della conversione alla sostenibilità che i FfF perorano è prima di tutto tra Nord e Sud del mondo)[12]. Non è chiaro, quindi, se e in che misura le proteste dei FfF si andranno politicizzando nel futuro. La cosa dipende anche, come per ogni movimento, dalla struttura delle opportunità politiche. La scena globale sconta fattori di carattere geopolitico e militare, solitamente meno rilevanti a livello nazionale, che possono restringerle sensibilmente. La politicizzazione dei FfF, quindi, potrebbe differenziarsi in base ai contesti nazionali.

Veniamo ora ai tratti comuni alle tre mobilitazioni. Un primo aspetto si lega all’esperienza di altri movimenti recenti, come Occupy Wall Street: l’assenza di domande precise. Certo, per XR e FfF l’obiettivo è la decarbonizzazione e ciò che si chiede al riguardo è un intervento più incisivo di quanto sia avvenuto sinora. Manca però l’indicazione di quali siano nello specifico le strade da percorrere. Per i GJ l’obiettivo è un riequilibrio delle politiche in senso redistributivo, ma anche nel loro caso si stenta a trovare una linea programmatica precisa[13]. Per Occupy, tuttavia, l’assenza di domande specifiche era parte integrante di una strategia volta a negare legittimazione alle forze di governo. Questo non pare essere l’obiettivo di GJ, XR e FfF, i quali, più che puntare a delegittimare il potere costituito, vogliono che esso segni un cambio di passo e strategia. In questo modo, però, la genericità delle rivendicazioni diviene un punto di debolezza. I detrattori di Greta non mancano di sottolineare come ciò che i FfF chiedono implicherebbe un ridimensionamento degli stili di vita cui sono abituati e che costituiscono una condizione di possibilità delle mobilitazioni stesse, a partire dal loro respiro transnazionale. Si pensi alla mobilità, il cui valore ai fini di una confidenza e dialogo tra popoli e culture è indubitabile e di cui la “generazione Erasmus” ha particolarmente beneficiato. Andare a New York sulla barca a vela di Pierre Casiraghi, erede del Principato di Monaco, culla del capitalismo e della cementificazione, non indica alcuna soluzione praticabile ma semmai evidenzia la contraddizione in cui i FfF cadono nel momento in cui dal piano delle parole si spostano su quello dei fatti. Anche il carattere eco-friendly della barca non si lascia facilmente armonizzare con una perorazione della giustizia climatica (si veda più sotto), se non al prezzo di mettere tra parentesi il retroscena di squilibri e disuguaglianze su cui si regge il palcoscenico della meraviglia tecnologica.

Seconda somiglianza è la mancanza di referenti politici, non rinvenibili né nei partiti tradizionali né in nuove formazioni come i 5 Stelle (i cui abboccamenti con i GJ sono abortiti quasi subito), anche se i contatti con raggruppamenti extraparlamentari sono significativi.

Terza somiglianza è la radicalità e apparente non negoziabilità dell’obiettivo di base: per XR e FfF si tratta di raggiungere “zero emissioni” entro pochi anni; per i GJ di capovolgere la logica neoliberista della massimizzazione delle disuguaglianze come motore della crescita. Da questo punto di vista i nuovi movimenti sembrano discostarsi dalla linea compromissoria seguita da decenni dalle organizzazioni ecologiste e sindacali.

Quarta affinità: la cornice di senso da cui si guarda alla crisi, che è, come accennato, quella della giustizia climatica, vista come inscindibile dalla giustizia sociale (o viceversa, nel caso dei GJ). Il negazionismo climatico risulta così, in particolare nella narrazione di XR e FfF, equiparato alla difesa dello status quo sociale, come due facce della stessa medaglia. Cosa peraltro confermata dai negazionisti stessi, i quali in genere sostengono che quello attuale è il migliore dei mondi possibili, anzi l’unico possibile, non essendovi margine né tecnico né economico o politico per cambiarlo, confondendo (involontariamente o meno) argomenti relativi alla possibilità di incidere sul cambiamento climatico e argomenti relativi alla possibilità di migliorare la qualità ambientale e le condizioni di vita, in particolare di chi non appartiene alle élite privilegiate. La centralità del tema della giustizia nel discorso dei nuovi movimenti conferma un trend in atto da tempo. Il frame della “giustizia ambientale” era emerso negli Stati Uniti attorno al 1980, relativamente a conflitti locali contro inquinamento e danni alla salute. Il riferimento all’ingiustizia, concetto che in prima battuta risulta meno politicamente connotato rispetto a disuguaglianza o sfruttamento, si spiega in buona misura tenendo conto di come la cultura politica americana è nel complesso tradizionalmente aliena da forti contrapposizioni ideologiche sul capitalismo. Il significato di giustizia ambientale si è tuttavia in seguito esteso a comprendere, in una accezione assai più politicizzata, le relazioni tra Nord che nel Sud globale”[14]. È dunque questo frame, in cui “ambiente” e “clima” sono ormai largamente sinonimi, a fare da legante tra le mobilitazioni di cui stiamo parlando, che riguardano l’Occidente affluente, e quelle del Sud – americano, africano e in parte asiatico – dove esso si coniuga con la critica al neocolonialismo delle multinazionali e la difesa o il recupero di modi di vita indigeni come forme di opposizione e resistenza.

Una quinta affinità tra XR, FfF e GJ riguarda una certa sfiducia nei confronti dell’ambientalismo “fai da te”, la buona volontà individuale, l’arte di arrangiarsi e di impegnarsi nella vita quotidiana; e ciò sia per la sua sostanziale inefficacia che per le disuguaglianze che essa implica e determina. Le nuove mobilitazioni indicano quindi che almeno in parte (si veda più avanti) è in corso un moto di rifiuto dell’individualismo “responsabile”, mediato dai rapporti di mercato, su cui non solo i governi ma anche molti studiosi hanno riposto aspettative probabilmente esagerate[15].

Ultimo ma fondamentale tratto comune dei nuovi movimenti è la loroZeitdiagnose, marcata da un senso di imminente collasso sociale ed ecologico. L’idea, esplicita nel caso di XR e FfF ma che si coglie in filigrana presso i GJ per il modo in cui manifestazioni di cittadini in gran parte pacifici e poco politicizzati si sono facilmente trasformate in battaglie cruente, è che il collasso è vicino, forse inevitabile, ma potrebbe essere mitigato o reso più gestibile se si decidesse di intervenire con azioni drastiche. In Italia il catastrofismo non ha assunto sinora una forte salienza pubblica; altrove, come in Francia, è fiorita al riguardo una cospicua letteratura, tra lo scientifico e il divulgativo[16] (per non parlare dei social). Il catastrofismo, però, non è solo una reazione all’incalzare degli eventi, come gli incendi svedesi dell’estate 2018 o l’impoverimento della piccola e media borghesia. Esso costituisce parte integrante della razionalità di governo che ha preso sempre più piede con la diffusione della cultura neoliberista. Una vasta letteratura[17] documenta come prospettive o obiettivi sempre più insistentemente promossi a livello individuale, imprenditoriale e sociale siano la preparedness (ossia la prontezza a reagire all’imprevisto) e la resilienza (ossia la capacità di rispondere ai traumi riorganizzandosi su nuove basi). Ciò in conseguenza dell’assunto che equilibro, ordine e prevedibilità non sono la norma ma una transitoria eccezione e che quindi, per ciascuno e per tutti, si tratta di imparare a cavalcare l’imprevedibile e gestire l’ingovernabile[18]. Se consideriamo i nuovi movimenti da questo punto di vista, essi risultano allora meno innovativi e radicali di quanto potrebbero sembrare, dato che non mettono in discussione la visione del mondo e gli orizzonti esistenziali che le élite intellettuali, politiche ed economiche hanno imposto negli ultimi decenni.

Ho parlato della duplice impasse, dall’alto e dal basso, del governo del clima come scintilla da cui si propaga l’incendio delle nuove mobilitazioni. Ve n’è però probabilmente un’altra, di cui il catastrofismo è spia. Essa è la sensazione – che i giovani e le classi subalterne del Nord, provenendo da un passato affluente, avvertono più acutamente dei loro omologhi del Sud, siano essi appartenenti a paesi come la Cina che procedono a tappe forzate sul cammino della modernizzazione o alle vaste aree d’Africa e America ridotte a mere funzioni di tap e sink, umano ed ecologico, dei processi di valorizzazione – che il futuro sia “rubato” innanzitutto dalla tecnologia, nel senso di una incapacità di quest’ultima, constatata (terza rivoluzione industriale, informatica e biotecnologica) o temuta (quarta rivoluzione dell’automazione), di fornire quella spinta propulsiva di cui oggi ci sarebbe assoluto bisogno, sia dal punto di vista sociale che ecologico. L’impressione è, in altri termini, che, prima e più che quello di un vero e proprio collasso, lo spettro che agita le nuove mobilitazioni sia quello della “grande stagnazione”[19].

È il momento di chiudere. Che le considerazioni svolte abbiano carattere schematico e provvisorio è scontato. Ci troviamo troppo a ridosso degli eventi per poterli valutare con sufficiente distacco e lucidità. I movimenti di cui si è parlato sono in rapida evoluzione. Staremo a vedere. Non c’è dubbio però, che le mobilitazioni avviatesi nel 2018 presentino tratti peculiari, per quanto non facilmente decifrabili. Un quesito cruciale è come esse si disporranno rispetto alla stagione riformista che si annuncia sotto l’etichetta di Green New Deal e che la loro azione ha sollecitato. Rispondere è al momento impossibile, anche perché del Green New Deal esistono diverse interpretazioni: talune volte a ridare fiato alla pianificazione statale, come per il neo-keynesianismo di Alexandria Ocasio-Cortéz; altre, come pare essere il caso della Commissione Europea appena insediata, tese a proporre una riedizione della green economy[20]. È pertanto difficile pronosticare se il Green New Deal, in qualunque versione, sarà qualcosa di più e di diverso rispetto a una riproposizione della modernizzazione ecologica in circostanze storiche ben più drammatiche.

Che significa avere fiducia nella scienza e nella tecnica? Stanno i FfF riproponendo l’idea di una sua neutralità rispetto a potere e interessi, in barba a decenni di science and technology studies e, prima di questi, delle sempre attuali riflessioni di filosofi come Adorno, Benjamin e Marcuse? Il successo planetario di Greta e il fatto che le si siano schiuse le porte più esclusive e prestigiose si spiega forse (anche) perché offre una faccia pulita al tentativo, vividamente espresso dalla barca di Casiraghi, che il capitalismo globale sta portando avanti per governare la transizione tecnologica in modo da riprodurre o rafforzare i rapporti di forza esistenti? Di fronte a queste domande n terreno di prova importante delle nuove mobilitazioni, del loro ruolo nel “cambiamento di rotta”, sarà l’atteggiamento verso scienza e innovazione; la capacità di immaginare e stimolare un salto di qualità nel modo in cui gli scopi dell’una e dell’altra, il loro rapporto con l’umano e il non umano, sono concepiti e attuati.

Altra questione aperta è come FfF, XR, GJ e altri movimenti recenti si rapporteranno al problema dell’azione collettiva. Da un lato, come abbiamo visto, queste mobilitazioni sembrano ridare fiato alla protesta politica tradizionale; dall’altro, tuttavia, ciò non comporta un rigetto totale dell’ecologismo fai-da-te, almeno se si guarda a dati relativi ai FfF che indicano (sia pure con differenze marcate tra stati e coorti di età) una persistenza dell’idea che la transizione ecologica passa prima di tutto da un cambiamento negli stili di vita individuali. Da questo punto di vista è presto per dire se vi sarà una fusione oppure una divaricazione netta in quella che al momento appare un’effervescenza sociale pluralista e tuttavia in qualche modo coerente. È chiaro però che un’evoluzione nell’una o nell’altra direzione sarà importante rispetto all’allargamento o il restringimento della portata delle mobilitazioni e al loro supporto a versioni “forti” o “deboli” del Green New Deal.

 

Note

[1] B. Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Milano, Cortina, 2018.
[2] Dell’“intrusione di Gaia” come cifra delle vicende sociali odierne parla, fra gli altri, la filosofa Isabelle Stengers: cfr. “Autonomy and the intrusion of Gaia”, South Atlantic Quarterly, 116(2), 2017.
[3] L. Pellizzoni, “Modernità o capitalismo? Tornare davvero sulla terra”, Quaderni di Sociologia, 79, 2019.
[4] Una diversa versione dell’articolo è in corso di stampa per la rivista Energia. Ringrazio il direttore, Alberto Clò, per avermi concesso di utilizzarlo.
[5] Cfr. Millennium Ecosystem Assessment,Ecosystems and human well-being; synthesis, Washington, DC, Island Press, 2005.
[6] Cfr. A. Azmanova, “Capitalism reorganized: social justice after neo-liberalism”, Constellations, 17(3), 2010; L. Caruso, Il territorio della politica. La nuova partecipazione di massa nei movimenti No Tav e No Dal Molin, Milano, Angeli, 2010.
[7] Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Extinction_Rebellion#Formation [accesso 11 Ottobre 2019].
[8] Cfr. J. de Moor, B. Doherty, G. Hayes, “The ‘new’ climate politics of Extinction Rebellion?”, Open Democracy, 27 November 2018,https://www.opendemocracy.net/en/new-climate-politics-of-extinction-rebellion/ [accesso 11 Ottobre 2019].
[9] Nelle dichiarazioni di principio di XR non compaiono riferimenti alla scienza: cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Extinction_Rebellion#Formation.
[10] Si veda per esempio la dichiarazione dell’assemblea nazionale di FfF svoltasi a Napoli il 27 settembre 2019: https://www.fridaysforfutureitalia.it/report-2-assemblea-nazionale [accesso 11 Ottobre 2019].
[11] Cfr. De Moor et al., cit.
[12] Cfr. https://www.fridaysforfutureitalia.it/report-2-assemblea-nazionale.
[13] Le richieste avanzate dai GJ sono in buona parte generiche, in alcuni casi contraddittorie e verosimilmente impossibili da perseguire contemporaneamente. Cfr. https://www.money.it/gilet-gialli-chi-sono-cosa-vogliono-Francia-Italia [accesso 11 Ottobre 2019].
[14] Cfr. J. Martinez-Alier, Ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Milano, Jaca Book, 2009; G. Walker, Environmental Justice. Concepts, Evidence and Politics, London, Routledge, 2012.
[15] Cfr. p. es. D. Stolle, M. Micheletti, Political Consumerism: Global Responsibilty in Action, Cambridge, Cambridge University Press, 2015; J. Meyer, Engaging the Everyday, Cambridge, Mass., MIT Press, 2015.
[16] Cfr. p. es. J.-P. Dupuy, Pour un catastrophisme Eclairé. Quand l’impossible est certain, Paris, Seuil, 2011; P. Servigne, R. Stevens, Comment tout peut s’effondrer: Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes, Paris, Seuil, 2015;A. Sinaï, R. Stevens, H. Carton, P. Servigne, Petit traité de résilience locale, Paris, Mayer, 2015.
[17] Esempio tipico è N.N. Taleb, Antifragile. Things that Gain from Disorder, London, Penguin, 2012; tra le prospettive critiche cfr. P. O’Malley, “Resilient subjects: uncertainty, warfare and liberalism”, Economy & Society, 39(4), 2010; J. Walker, M. Cooper, “Genealogies of resilience. From systems ecology to the political economy of crisis adaptation”, Security Dialogue,4(2), 2011; L. Pellizzoni,“The environmental state between pre-emption and inoperosity”, Environmental Politics, 29(1) 2020.
[18] Su questo mi permetto di rinviare a L. Pellizzoni, “Governing through disorder: neoliberal environmental governance and social theory”, Global Environmental Change, 21(3), 2011.
[19] Cfr. J. Tainter, “Social complexity and sustainability”, Ecological Complexity, 3, 2006; M. Bonaiuti, “Are we entering the age of involuntary degrowth? Promethean technologies and declining returns of innovation”, Journal of Cleaner Production, 197(2), 2018.
[20] Cfr. G. Garavini, “Il Green New Deal in salsa Ue. Verde sì, ma a basso impatto”, Il Fatto Quotidiano, 11 Settembre 2019.

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