Continua il ciclo su ecologia e anti-natalismo, aperto dall’articolo di Alice Dal Gobbo “Un desiderio moralizzato, una vita contabilizzata: sull’ecologia vista dal punto di vista del Voluntary Human Extinction Movement”. Oggi pubblichiamo il commento di Natan Feltrin: “Vietato vietare nell’Eremocene. L’anti-natalismo e il problematico concetto di libertà”. L‘intervento non rispecchia quelle che sono le chiavi di lettura di norma vicine alla sensibilità del collettivo Effimera, muovendo da un retroterra analitico molto differente. Tuttavia, ospitamo volentieri l’articolo per dare conto delle sfaccettate realtà di pensiero che hanno affrontato, da punti di vista diversi, il tema dell’anti-natalismo.

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Le seguenti parziali considerazioni, frutto di una ben più ampia riflessione sulla questione demografica, prendono forma dalla lettura critica che Alice Dal Gobbo ha dato dell’articolo di Amy Fleming “Would you give up having children to save the planet? Meet the couples who have” (20/06/2018 The Guardian) nel suo contributo “Un desiderio moralizzato, una vita contabilizzata: sull’ecologia vista dal punto di vista del Voluntary Human Extinction Movement” (12/07/2018 Effimera).

Occorre precisare che mi trovo pienamente in accordo con Dal Gobbo nel notare la pericolosa superficialità, non capace di distinguere e contestualizzare realtà e dinamiche complesse, che traspare dall’articolo apparso sul Guardian. Difatti, ridurre ad una mera cifra, 58 tonnellate annue di anidride carbonica, l’esistenza di un potenziale essere-nel-mondo è esattamente il risultato di un’interpretazione mainstream e deleteria del concetto di Antropocene: l’anthropos senza distinzioni come responsabile della crisi ecologica tout court.

Da questo punto di vista neologismi come Capitalocene, seppur non privi di problematiche, possono aiutarci a non dimenticare che tra un americano, la cui way of life è per antonomasia non negoziabile

[1], un indiano ed un achuar dell’Amazzonia le responsabilità non possono essere egualmente ripartite.

Vero è che il pezzo della Fleming ha un intento narrativo, sensazionalistico e non è certo strutturato per avere una base scientifico-dimostrativa solida. In questo trafiletto le famiglie child-free, siano esse estinzioniste o semplicemente anti-nataliste – due termini non interscambiabili –, appaiono come esempi positivi senza alcuna considerazione effettiva delle altre pratiche di vita (che, comunque, si suppone siano molto più eco-friendly di quelle della maggior parte di noi occidentali) [2].

Il crimine, se così provocatoriamente è possibile chiamarlo, dell’articolo del Guardian risiede quasi interamente nel proporre la scelta individuale di non riproduzione come unica vera scelta rivoluzionario-salvifica. In questo taglio argomentativo non sarebbe erroneo asserire a mo’ di spot pubblicitario – Dal Gobbo parla di “prodotti anti-cellulite” – : child-free is the new vegan!

Ma, al di là delle troppo semplici ed unilaterali risposte alle criticità antropoceniche, occorre addentrarsi meglio nel problema demografico come questione etico-politico-ecologica della massima serietà. Già in queste brevissime battute ho toccato questioni tutt’altro che irrilevanti e meritevoli di precise contestualizzazioni. Cercherò ugualmente, nei limiti del possibile, di elencare alcuni punti essenziali del discorso:

  • Il natalismo è un’ideologia ben radicata, “quasi inscritta” nella nostra biologia di specie [3], e risale, almeno da un punto di vista teoretico, alla aritmetica politica di William Petty (1672). La grande intuizione degli aritmetici politici risiedeva nel comprendere l’ovvietà, prima prevalentemente implicita, che la demografia è ontologicamente non neutrale ai destini delle nazioni. Inteso il senso politico del tasso di fertilità umano molti governanti hanno consciamente attuato tentativi di incremento demografico a scopo economico-militarista: dal discorso dell’Ascensione di Benito Mussolini (1927) [4] alla necessità di gettare maggiore biomassa umana nel mondo come benzina per la pesante macchina capitalistica contemporanea (effetto raggiungibile nell’ecumene globalizzato anche incentivando crescenti flussi migratori laddove i vari Fertility Day manchino clamorosamente il bersaglio). Con natalismo, dunque, si dovrebbe definire la volontà di una classe dirigente di accrescere la quantità umana di una nazione, di un popolo o del pianeta tutto senza curarsi della qualità dell’esistenza umana a lungo termine. In un pianeta limitato e con risorse finite, per parafrasare l’economista Kenneth Ewart Boulding, una crescita illimitata è pensabile solo per un pazzo o un economista. Di conseguenza, dato che le quantità dei consumi e dei consumatori sono indissolubilmente legate, il natalismo, come ideologia della crescita, è un’ideologia capitalistica, imperialista e suicida da un punto di vista ecologico in quanto capace di vanificare ogni altra politica.
  • Essere anti-natalisti, prima di evocare distopici sogni di birth control, significa in prima istanza schierarsi politicamente contro una governamentalità volta a strumentalizzare i ventri femminili a scopo economico-militarista. Quindi, almeno da questo punto di vista, l’anti-natalismo è tutt’altro che apolitico e anti-libertario (occorre ricordare che viviamo in una realtà in cui vige un predominante liberismo non liberale, ma moralista). Come tradurre tutto ciò in una politica positiva che non sia “sterile” opposizione? Respingendo ingerenze religiose nell’educazione dei soggetti, combattendo le disparità di genere, legalizzando aborto e contraccezione (che non debbono mai essere boicottate dall’abuso di obiezioni di coscienza) e rendendo l’educazione sessuale scolastica un serio obiettivo da conseguire al più presto. Tutto ciò non solo nella propria “isola felice”, ma soprattutto nei paesi intrappolati da troppo tempo, a causa della povertà diffusa, nella prima fase della cosiddetta transizione demografica. Questo si traduce in investimenti oculati e a flusso costante per favorire la pianificazione familiare in ogni regione del mondo onde rendere maggiormente liberi i soggetti di deliberare in materia di salute e tassi riproduttivi [5].
  • Inoltre, sarebbe radicale introdurre – sostituendo all’imperativo economico una coscienza ecologica – l’educazione ambientale sin dalla prima infanzia onde rendere ogni cittadino consapevole delle proprie scelte. Se, come ha scritto qualcuno, l’intelligenza obbliga terribilmente, essendo nell’atto della procreazione in gioco il mondo dei propri figli e nipoti le scelte personali potranno essere più ponderate e non strade obbligate. Del resto, come ha fatto notare l’economista e ambientalista Jeffrey David Sachs vi sono sfide, quali combattere la fame nel mondo, che possono ignobilmente essere procrastinate, ma la crisi ecologica non rispetterà mai i tempi dell’umano per avere risposte.
  • Se l’anti-natalismo è l’opposizione proattiva del natalismo, esso è un modo di fare politica radicalmente decrescente [6], anticapitalisico e interessato ad una demografia-più-che-umana. La politica, però, non può prescindere dall’etica del singolo come vorrebbe una vulgata volta a contrapporre il “sacrificio individuale” alla lotta (magari di classe) contro il sistema nel suo complesso. Vi sono ancora dibattiti, si pensi all’animalismo politico o debole [7], che infruttuosamente si avviluppano intorno al dramma contemporaneo in cerca di una soluzione ponendo etica della responsabilità e azione politica non come antecedenti di una sintesi positiva per il domani, ma come volti antitetici di una stessa medaglia: come facce impresse sul medesimo metallo ma in lati distinti ontologicamente inabili a guardarsi negli occhi. L’etica, però, è la postura di un individuo in relazione alla realtà ecologica-economico-culturale circostante, ovvero un modo attivo di posizionarsi nel mondo capace di garantire la sopravvivenza, in primis, e la felicità del soggetto etico e di chi lo circonda (anche l’ambiente se inteso etimologicamente come “ciò che sta attorno”). La politica, come pratica essenzialmente collettiva, non può approdare a nulla senza una sensibilità dei soggetti etici. Una sensibilità che va a formarsi attraverso la consapevolezza del contesto, in questo caso quella semiosfera di problematiche definita Antropocene, e che si deve conseguentemente cercare di incarnare. La decisione di vivere child-free, o in maniera meno eclatante di non avere più di due figli biologici, può a tutti gli effetti considerarsi un atto foucaultiano di parresia. Del resto, un paese come l’Italia, in una condizione risaputa di Netherlands fallacy [8], dovrebbe fungere da esempio virtuoso di anti-accelerazionismo invece di farsi riempire di sterile propaganda natalista (si pensi all’imperativo demografico invocato da Tito Boeri).
  • Perché decidere di rinunciare alla propria prole in un mondo già enormemente sovrappopolato? Le risposte sono plurime, complesse e non riassumibili in un articolo – io per fare un quadro generale del problema ho pubblicato un libro di duecento pagine scalfendo solo la superficie [9] – ma sicuramente occorre ricordare che l’umanità si trova di fronte a scenari oscuri: la tempesta perfetta di picco del petrolio, riscaldamento globale e sovrappopolazione ridimensionerà le tempeste d’acciaio di Ernst Jünger. Urge, dunque, comprendere che uno dei problemi del capitalismo è l’assuefazione alla libertà, priva di responsabilità, che gli ultimi decenni hanno visto posta sull’altare dei valori sociali. Cosa significa essere liberi di generare un figlio? Quando la necessità biologica diviene un vizio? Quando la volontà di replicarsi e la libertà di farlo travalicano l’interesse di chi al mondo, senza averlo deciso, si troverà ad essere? Queste domande richiederebbero uno sviluppo argomentativo che trascende questa sede, ma una considerazione cardine su questo tema ci viene dal filosofo francese Condorcet: «se si hanno obblighi verso esseri che non ci sono ancora, essi consistono nel dar loro non l’esistenza ma la felicità». [10]
  • Negli ultimi duecento anni abbiamo trasformato petrolio in biomassa umana ed ora nessuno è esente da doverne trarre delle conseguenze. Qualcuno potrebbe dire “vietato vietare”, ma senza la comprensione che la libertà è anche l’hobbesiana assenza di impedimenti, e non solo la rousseauniana autodeterminazione, si discuterà attorno ad un concetto vuoto. Non si dà libertà, o spazio di manifestazione, che all’interno di limiti. Così nessuno si stupisce dell’antinomia valoriale tra diritto alla vita e alla libertà quando si nega la libertà di togliere una vita, ma subito di fronte ai “sacrifici ecologici” si percepisce una violazione del proprio spazio decisionale. Ciò che non viene colto nel comprendere il rischio ecologico di una dieta carnea o di una riproduzione troppo arbitraria è che di fronte ad una “rinuncia” si apre un’alternativa da percorrere e non un negativo assoluto. Il punto focale dell’intera riflessione è decidere se attuare un cambio negli stili di vita, quindi anche in alimentazione e riproduzione, o spingere l’acceleratore al massimo verso ipotetiche utopie geoingegneristiche. Essere child-free non è green washing, come sembra ventilato nell’articolo di Dal Gobbo, ma è una bio-protesta contro il sistema della produzione-accumulazione dei corpi par excellence. Asserire che ciò non sia la “soluzione finale” è tautologico, poiché la soluzione unica e comoda non esiste in una trama complessa come la realtà ecologico-politica attuale. Ovviamente, la bio-protesta nata dall’etica individuale deve saldarsi su di un movimento politico consapevole che sia anti-natalista poiché anti-capitalista e, oserei suggerire, biocentrico.
  • Sia l’autoestinzionismo volontario sia l’anti-natalismo sono scelte dettate da un’idea di etica. È vero che un anti-natalista può essere autoestinzionista, ma non è sempre e necessariamente così. Il negare la vita voluto dagli estinzionisti è un apolitico inno al nichilismo che preferisce la sottrazione dall’esistente piuttosto che intraprendere la sfida del cambiamento. Questa idea, di cui il filosofo David Benatar è il principale teorico, trova eco in correnti animaliste radicali quali il reducing wild animal suffering, proposto dal pensatore spagnolo Oscar Horta, volto a considerare la natura come un pascoliano atomo opaco del male da redimere con una biopolitica onnipervasiva spesso tesa alla cessazione della ζωή (zoé) tout court. Partendo, invece, da una posizione meno sensiocentrica, tutta incentrata sulla quantificazione del dolore sopra ogni altro aspetto dell’esistere, si potrebbe considerare l’anti-natalismo come la miglior strategia anti-estinzionista. Questa affermazione, che a primo ascolto ha il gusto del paradosso, in realtà ha una cogenza argomentativa forte: la distruzione di Gaia è la più grave minaccia per la specie sapiens, ma un minor numero di sapiens potrebbero lasciare alla resilienza del pianeta blu più spazio di ripresa. Inoltre, da una prospettiva ecologica e biocentrica, il fenomeno noto come Sesta Estinzione non può che essere accelerato da politiche nataliste e, senza ombra di dubbio, nemmeno la civiltà umana più green potrebbe svilupparsi ad infinitum senza eradicare ogni altra forma dell’ente vivo. Per questo, Edward O. Wilson, padre della sociobiologia, pioniere del conservazionismo e fiducioso fautore della transizione demografica senza interventi coercitivi, ha recentemente affermato che l’unico modo per fermare questa nuova grande moria di specie consiste nel destinare circa metà della terra alla wilderness. In un mondo di gravidanze indesiderate, ignoranza riproduttiva, disuguaglianza di genere e prospetti ONU preoccupanti – si attendono circa 11 miliardi di esseri umani a fine secolo – tale proposta sembra rasentare l’assurdo. Se non si fermerà la tendenza replicante della nostra specie, supporto efficace di politiche neoliberiste, il neoplasma che dunque stiamo divenendo trasformerà l’orchestra della vita in un flebile assolo. In altre parole, l’Antropocene in quanto compimento capitalistico del nichilismo attraverso la desertificazione d’ogni differenza bio-culturale trascinerà l’umanità nell’Eremocene, ovvero l’Età della Solitudine [11]. Del resto, a differenza di quanto afferma il noto demografo Massimo Livi Bacci, la bomba demografica, di cui parlavano Paul e Anne Ehrlich, è già esplosa. Semplicemente le vittime della spietata legge malthusiana sono state prevalentemente le altre specie: ignorare che un tasso d’estinzione dalle cento alle mille volte superiore a quello di fondo sia legato strettamente alle necessità di una popolazione di esigenti scimmie di medio-grossa taglia è puro negazionismo! Negazionismo frutto dell’invincibile tabù demografico e di una idea escatologica di progresso (scudi solari, viaggi su Marte, carne sintetica, de-estinzione, etc…) che da sempre vede gli scienziati preoccupati come inopportune Cassandre e la tecnologia come infallibile deus ex machina. Andare su Marte, come conseguenza del sovrasfruttamento del pianeta blu, non sarebbe solo l’ennesimo atto di imperialismo, ma un fallimento culturale per una civiltà che preferirebbe la fuga spaziale piuttosto che cambiare paradigma economico e ricorrere alla più “umile” tecnologia del profilattico. Per chiudere sull’illusione tecnocentrica come risposta all’incedere dell’Antropocene vorrei ricordare, come ha fatto l’economista Angus Stewart Deaton, che la necessità sarà pure la madre di tutte le idee ma non ogni gravidanza ha buon esito.
  • Un’ultima considerazione mi si rende necessaria. Non posso non essere in disaccordo con l’idea dell’anti-natalismo, sia esso individuale o politico, come riproposizione senza efficacia di una “soluzione” datata, superata e di cattivo gusto. Dal Gobbo scrive:

«Si tratta dell’ennesima, chiara (per quanto forse non facile), ‘soluzione’ proposta: smettere di fare figli per salvare il pianeta. Ho 26 anni, ma quando ero piccola si parlava soltanto di spegnere le lampadine e chiudere il rubinetto mentre ci si lavava i denti. Al massimo diminuire l’uso della macchina. Pian piano l’elenco dei “comportamenti” non sostenibili si è espanso e con esso la lista delle cose a cui rinunciare per salvare il pianeta: viaggiare in aereo, usare l’asciugatrice, andare al ristorante e al cinema, comprare prodotti non biologici, mangiare animali e i loro derivati. Pare che l’orizzonte si espanda di giorno in giorno, come se per quanto noi ci impegniamo quotidianamente, i nostri sforzi non fossero mai abbastanza. La nostra società è alla costante ricerca di una ‘giusta’ soluzione che tuttavia sembra non materializzarsi mai».

I comportamenti non sostenibili riguardano la qualità della vita umana mentre l’idea malthusiana, di gran lunga antecedente i sermoni sulla sostenibilità del vivere quotidiano, mira al cuore del problema in un punto nevralgico in cui quantità e qualità si toccano. Senza ammettere che il natalismo sia un problema, almeno tanto quanto il capitalismo dell’accumulazione, si dovranno sacrificare giorno dopo giorno le libertà individuali in ogni forma onde garantire minor impronta ecologica possibile ad un sempre maggior numero di individui. Ciò comporterebbe che una non volontaria riduzione del proprio tasso riproduttivo si risolverebbe nel ridicolo e necessario esito di aspirare collettivamente ad una mai realizzabile esistenza ad impatto zero tanto simile alla condizione dell’asceta penitente Simeone lo Stilita. Inoltre, con il non volontario e responsabile “controllo demografico” noi poniamo le generazioni future a decisione già conclusa: il loro stile di vita dovrà via via contrarsi per fare spazio ai loro innumerevoli fratelli. Il punto, sempre che questa visione della crescita non sia squisitamente anti-ecologica e specista – per questo la demografia-più-che umana è anche una demografia antispecista –, risiede nel comprendere che non si tratta di difendere un borghese senso del benessere in favore di un biblico senso di dover “riempire il mondo”, qui non è più in gioco la way of life di pochi fortunati paesi: in una astronave Terra in grave deficit ecologico, in cui il valore EROEI del petrolio è sempre meno vantaggioso, gli ottanta milioni di esseri umani che si addizionano ogni anno alla cifra dell’antropomassa condannano inesorabilmente gli altri viventi a “migrare in cielo” e minano profondamente la possibilità di essere felici in questo atomo controverso.

PS: Molti sono i punti che ho tralasciato e pochissimi i numeri che ho fornito a favore delle mie argomentazioni. Questo poiché la lunghezza dell’articolo ha costituito un vincolo necessario all’eccessivo e ridondante citare. Per una più forte e articolata analisi di queste problematiche rimando al mio lavoro Umani, troppi umani. Sfide etico-ecologiche della crescita demografica (Eretica Edizioni 2018).

 

NOTE

[1] “The American way of life is not negotiable!” Così sentenziò il presidente americano George Bush senior in occasione del Summit della Terra a Rio de Janeiro nel 1992 rievocando la celebre affermazione di Ronald Reagan.

[2] L’esempio più dissonante citato dalla Fleming è la famosa pilota automobilistica Leilani Münter. Bisogna considerare che la stessa Münter, come più volte ha dichiarato, è consapevole della non eco-logica del proprio sport, ma che attraverso la popolarità guadagnata dalle gare può divulgare in maniera molto più efficace tematiche urgenti. Certo l’idea di un’ambientalista racer ha un che di ossimorico ma, per quanto la Münter faccia attivamente per l’ambiente, non è rilevante ai fini del discorso la critica ad personam avanzata da Dal Gobbo: «È interessante notare che una delle intervistate, la quale si auto-definisce ambientalista (e per questo vegana e child-free), è una racer professionista. Ossia: vive di gare automobilistiche, uno degli “sport” più inquinanti in assoluto nonché, mi sento di rilevare, pienamente in linea con una certa cultura capitalistica fatta di accelerazionismo (piuttosto letteralmente in questo caso), auto-affermazione, competizione e appropriazione. Questo già dovrebbe metterci in guardia rispetto al tipo di ambientalismo che qui si propone a modello». Alice Dal Gobbo in Effimera (12/07/2018 Effimera).

[3] Questo in particolar modo se si tiene presente l’interpretazione genocentrica dell’etologo Richard Dawkins. Occorre ricordare che lo stesso autore de Il gene egoista sostiene come Homo sapiens abbia la possibilità di essere più di un mero replicante genetico grazie alla cultura (un processo memetico).

[4] «Qualche inintelligente dice: “Siamo in troppi”. Gli intelligenti rispondono: “Siamo in pochi”. Affermo che, dato non fondamentale ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle Nazioni, è la loro potenza demografica». Benito Mussolini, Il discorso dell’Ascensione, Libreria Litorio, 1927.

[5] Si pensi, ad esempio, alle proposte dell’associazione radicale Rientrodolce voluta da Marco Pannella.

[6] Tutta la retorica sulla decrescita felice, da Maurizio Pallante a Serge Latouche, tende ad ignorare il ruolo decisivo della non crescita demografica. Quest’ultima, però, è conditio sine qua non di quella che Luca Pardi e Jacopo Simonetta chiamano “decrescita tollerabile”. Luca Pardi e Jacopo Simonetta, Picco per capre. Capire, cercando di cavarsela, la triplice crisi: economica, energetica ed ecologica, Luce Edizioni.

[7] Si pensi al dibattito filosofico tra Leonardo Caffo (antispecismo debole) e Marco Maurizi (antispecismo politico).

[8] L’errore di pensare che l’impatto ecologico di una nazione possa essere correttamente calcolato all’interno dei confini ufficiali di quella nazione.

[9] Natan Feltrin, Umani, troppi umani. Sfide etico-ecologiche della crescita demografica, Eretica Edizioni, 2018.

[10] Marquis de Condorcet, Abbozzo di un quadro storico dei progressi del genere umano, Einaudi, Torino, 1969.

[11] Qui un mio breve contributo dal titolo “Eremocene e Alterità”: http://www.veganzetta.org/tag/natan-feltrin/

 

Immagine di apertura: Marc Chagall, L’Eden.

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