Passati gli importanti appuntamenti al Lido di Venezia per la giustizia climatica, riceviamo e con piacere pubblichiamo uno sguardo critico sui recenti incontri nell’ambito delle Nazioni Unite: non solo cambiamento climatico, ma anche biodiversità e desertificazione. Il discorso istituzionale rimane tuttavia lontano dalle istanze dei movimenti.

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Dal 17 al 27 dello scorso Giugno si è riunita la Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici dell’ONU (UNFCCC) a Bonn, incontro con cadenza annuale in cui vengono formulati e discussi i negoziati e gli accordi poi rettificati durante le COP. Oltre a quello sui cambiamenti climatici in realtà le Nazioni Unite hanno avviato altri due negoziati per trattare i problemi connessi alla crisi ecologica: la Convenzione sulla Biodiversità (UNCBD) e quella sulla Desertificazione (UNCOD). Questi due temi – per ora – non sono ancora entrati nel mainstream mediatico: nell’ultimo anno infatti i media hanno parlato tanto di riscaldamento globale, grazie anche all’allarme lanciato dall’IPCC (l’Intergovernmental Panel on Climate Change) che richiama a interventi immediati per ridurre le emissioni di CO2 in modo da impedire un surriscaldamento globale superiore a 1,5 °C entro il 2030; poca invece è stata l’attenzione posta su altri processi di distruzione ambientale.

Iniziamo a far luce su questa circostanza: parlare di clima o più precisamente di cambiamenti climatici significa, in poche parole, parlare di emissioni di gas serra e di strategie mirate alla loro riduzione per mitigare il riscaldamento globale. Tali strategie possono essere genericamente di due tipi: ridurre le emissioni introducendo ‘tecnologie verdi’ nei processi produttivi o riducendo i tassi di consumo e rigenerare il ‘capitale naturale’ sulla terra. Gli strumenti più comuni ideati ed implementati per ottenere questi risultati sono stati: sovvenzioni alle ‘tecnologie verdi’ (energie alternative), investimenti in progetti di riforestazione e nell’implementazione di pratiche agricole ecologiche ed il mercato dei crediti carbonio; poco invece è stato fatto sui consumi.

Parlando invece delle altre due Convenzioni, esse trattano di tematiche di carattere ben diverso dal cambiamento climatico e ben più correlate tra loro: il tema della conservazione della biodiversità e della lotta alla desertificazione, temi di fatto molto più complessi da affrontare politicamente rispetto al riscaldamento globale. Essi prevedono azioni di carattere ben più sistemico e determinante rispetto agli investimenti sulle tecnologie verdi o al ricorso a strumenti di mercato per ridurre le emissioni. Il che significa stipulare impegni che prevedano azioni drastiche e radicali per modificare il sistema produttivo ed economico attuale, che riducano il sempre più accelerato tasso di estinzione (oggi si parla della sesta estinzione di massa nella storia della Terra) e di degradazione dei suoli a cui stiamo assistendo.

Ciò invece non accade per la convenzione sul Cambiamento Climatico: è molto più facile mettere d’accordo Stati e imprese attraverso strumenti finanziari come i carbon market. Abbastanza irrealizzabili invece sono lo stesso tipo di strategie se parliamo di Biodiversità e fertilità dei suoli. Questa è la motivazione reale per cui oggi la questione delle emissioni risulta essere la questione centrale quando si parla di crisi ecologica, tanto che le convenzioni UNCBD e UNCOD si tengono solo biennalmente e sono molto meno seguite. Nonostante non esista alcuna gerarchia di importanza o di gravità tra gli impatti ambientali dovuti all’attività umana e individuati dagli scienziati: riscaldamento climatico, perdita di biodiversità, degradazione dei suoli, consumo di acqua, eutrofizzazione ed inquinamento chimico sono tutti impatti equamente importanti e correlati, la cui mitigazione richiederebbe interventi complessi e articolati, che a loro volta prevedrebbero un totale ribaltamento culturale e politico della società globale in cui viviamo.

Il risultato, osservabile oggi, a circa 15 anni dall’implementazione del Protocollo di Kyoto, è che, nonostante tutto, le emissioni sono aumentate e la copertura forestale diminuita. In altre parole, dopo quasi 30 anni di trattative sul Cambiamento Climatico, iniziate con la conferenza di Rio de Janeiro nel 1992, ancora non è stato possibile intervenire in modo efficace.

Forse si poteva rimanere nel dubbio fino al 2015, anno dell’Accordo di Parigi; ma oggi la risposta è evidente. La COP di Parigi si è conclusa in modo alquanto inaspettato e ha lasciato poco spazio all’ottimismo climatico. I paesi hanno ratificato un accordo che lasciava l’implementazione degli NDCs (Nationally Determined Contributions), ovvero degli impegni finalizzati a mitigare il riscaldamento globale, a discrezione degli Stati aderenti – cioè su base volontaria. In altre parole, ciascuno Stato si è ritrovato a dover scegliere da sé quali interventi implementare e quali no, principalmente secondo il beneficio economico che esso stesso e/o le imprese si suppone possano trarne. Non proprio ciò che si può considerare una visione ecologista.

Ancora oggi, a due mesi dagli incontri di Bonn, non si sente un coro unito intento a far diventare vincolanti gli accordi sul clima, se non da parte dei rappresentati delle popolazioni indigene e africane; essi infatti hanno un forte interesse affinché i negoziati sul clima si realizzino in tempi brevi poiché già oggi sono coloro che stanno subendo di più i danni collaterali del collasso ambientale.

Con ogni probabilità alla COP25 – il prossimo dicembre a Santiago del Chile – il tema principale di cui si discuterà sarà l’Articolo 6 della convenzione sui Cambiamenti Climatici, l’articolo che tratta degli scambi e dei trasferimenti di tecnologie e investimenti tra Paesi in modo da permettere uno sviluppo equilibrato del Sud del mondo ed un riassetto del mondo sviluppato verso una maggiore sostenibilità. È evidente che senza un accordo vincolante che modifichi radicalmente i rapporti economici e politici tra le diverse potenze del mondo, l’Articolo 6 non potrà avere la potenziale efficacia che altrimenti pure in molti vi intravedono.

Se aspettiamo che siano i governi, i cui delegati alle Nazioni Unite sono per lo più rappresentanti di imprese e lobby, a determinare le condizioni per cui questo cambiamento possa avvenire, evidentemente aspetteremo invano. D’altra parte, un movimento sociale ecologista che guardi solo alla responsabilità individuale di ciascuno di noi a consumare meno e ad essere responsabili verso l’ambiente non è sufficiente e non lo diventa nemmeno se si limita a chiedere gentilmente ai governi di attuare gli accordi della convenzione sul Cambiamento Climatico, per le ragioni che abbiamo appena spiegato. Occorre percorrere un’altra strada, una strada scomoda ma necessaria, una strada capace di ribaltare finalmente i rapporti di forza dominanti oggi.

Nonostante l’interesse che abbiamo mostrato nel seguire questi grandi appuntamenti internazionali siamo convinti che il problema socio-ecologico sia direttamente connesso a una crisi ideologica e di senso. Non potendo qui portare soluzioni senza rischiare un eccesso di semplificazione preferiamo allora porre alcune domande da inserire alla linea di ricerca militante, che recentemente sta prendendo piede anche in Italia[1]. In primo luogo: siamo ancora in grado di immaginare rapporti sociali al di fuori della sfera del capitale? E poi: come rompere il ricatto che costringe le fasce più povere della popolazione a dover scegliere tra salute e occupazione[2]? Ancora: quali nuove strategie adottare alla luce di una nuova configurazione del nesso tra lavoro-natura-valore[3]?Infine: quali sono le forme del conflitto che si stanno dando nel processo di liberazione del “vivente”[4]?

 

Note

[1]Venerdì 14 giugno 2019 si è tenuto a Parma un convegno dal titolo “Ambientalismo operaio e emergenza climatica” che ci ha dato diversi spunti di riflessione sul tema – http://www.leparoleelecose.it/?p=35697
[2]Si veda il caso dell’Ilva di Taranto che a oggi è il caso più celebre in Italia, ma non più importante di tanti altri – http://effimera.org/taranto-citta-martire-dellera-industriale-affonda-tradita-da-poteri-locali-m5s-e-sindacati-che-inutilmente-si-prostrano-davanti-ad-arcelor-mittal-di-franco-oriolo/
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