Il primo ottobre 2017 in Catalogna si è tenuto un referendum per l’indipendenza catalana. Il governo centrale di Madrid, guidato dal primo ministro conservatore Mariano Rajoy, e il Tribunale costituzionale, tra gli altri, hanno dichiarato illegale il referendum. La polizia è intervenuta pesantemente nei seggi, alcuni dei quali erano stati occupati per garantire la votazione. Da lì in poi si è sviluppato un acceso conflitto non solo tra governo centrale spagnolo e governo catalano (Carles Puigdemont è stato denunciato per ribellione, sedizione, appropriazione indebita, e attualmente vive a Berlino, con obbligo di firma; alcuni consiglieri sono stati arrestati e si trovano ancora in carcere) ma dentro la società spagnola stessa e dentro la stessa compagine catalana, conflitto favorito dalla costruzione di stereotipi, “atto politico di prim’ordine”. A guardarla dall’Italia, da “sinistra”, non tutto è risultato chiaro, sono state rimarcate alcune contraddizioni dell”indipendentismo”, insomma non si è empatizzato del tutto con il procés. In questa intervista di Amador Fernández-Savater a Edgar Straehle, storico e filosofo “a favore dell’indipendenza senza definirsi indipendentista”, vengono approfondite le ragioni di una forma di neo-indipendentismo che ripudia lo stato centrale e dove, più che per difendere la “nozione di identità”, la battaglia per l’autonomia è vista come passaggio verso una situazione migliore, “per ottenere una costituzione più giusta, o istituire la repubblica, respingendo la monarchia”. Per riuscire ad allontanarsi dalla deriva autoritaria che si è verificata nella politica spagnola ed europea
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Una intervista a Edgar Straehle, storico e filosofo sul “processo” indipendentista catalano (procés). A favore dell’indipendenza senza definirsi indipendentista
Negli ultimi mesi, pensando a ciò che era successo in Catalogna, mi girava in testa sempre la stessa domanda: come mai a Madrid (dove vivo), non si era vista una sola manifestazione significativa e rilevante da cui, pur a partire da posizioni politiche diverse, si sollevasse un voce collettiva per protestare su alcuni elementi basilari: contro la messa sotto giudizio del conflitto che si era aperto, contro la deriva repressiva del governo Rajoy, contro l’imprigionamento di leader politici, ecc.?
Non solo: ho percepito una indifferenza piuttosto generale rispetto al conflitto catalano, tra gli stessi amici della sinistra, del 15M e dei movimenti sociali. Come si spiegava? E non sto parlando della mancanza di simpatia per il movimento indipendentista, ma proprio dell’assenza di un’empatia minima che spingesse ad avvicinarsi, ad ascoltare, a capire una situazione complessa. Come se, per una volta, si fosse presa per buona la narrazione propagandata dalla televisione al riguardo.
Qual è in realtà la relazione tra la vittoria paralizzante degli stereotipi, quelle immagini prefabbricate che eliminano la complessità dell’intero procés e ce lo presentiamo come una pura reazione identitaria, elitista, etnicistica, suprematista, intollerante? Quale relazione esiste tra questo trionfo degli stereotipi – oltre la percezione, la sensibilità, il pensiero – e il dominio sociale della logica della rappresentazione, sia politica, che mediatica che culturale (con le bandiere e i simboli)?
Queste sono alcune delle domande intorno alle quali si sviluppa questa intervista con Edgar Straehle, di formazione storico e filosofo. Domande che ho deciso di porgli perché sono stato attratto da alcune delle sue riflessioni pubblicate sul tema su facebook. Pensieri che mostrano la complessità del procés contro il riduzionismo, che invitano a non schierarsi per forza, ma soprattutto a cercare di capire qualcosa, senza mettere a tacere dubbi e contraddizioni.
Edgar Straehle vive a Barcellona ma la sua origine non è catalana, ha avuto un’infanzia “castilianizzata” (quanto alla lingua che parlava in casa), è stato parte del 15M, ha votato a favore dell’indipendenza, ma non si dichiara indipendentista. Una voce unica che consente di entrare nel labirinto del procés da un’altra entrata, con un altro sguardo e un’altra sensibilità. Ha appena pubblicato Claude Lefort, la inquietud de la política (in catalano), per l’editore Gedisa
Molte persone che stanno dalla parte del procés in Catalogna oggi si dicono “indipendentiste” e “non-nazionaliste”. Che cosa significa?
Tradizionalmente, in Catalogna, la distinzione tra nazionalisti e catalanisti e stata spesso rappresentato da posizioni come PSC o Iniziativa per la Catalogna. Oggi, quando la stragrande maggioranza dei catalani hanno genitori o nonne che provengono dal resto della Spagna non ha senso perseguire un paradigma etnocentrico nazionalista. Così, in questi ultimi anni, pensatori catalani come Xavier Rubert de Ventos o Montserrat Guibernau hanno cercato di pensare il nazionalismo in modo diverso: come plurale e meticcio, civico, cosmopolita e bilingue; in breve, un nazionalismo poco nazionalista, privo di molte delle sue caratteristiche tradizionali distintive.
Con ciò, non stavano inventando nulla di nuovo, ma si adattavano a una realtà che li precedeva, una realtà più complessa e ibrida in cui adesso, ad esempio, non è raro sentire persone parlare in spagnolo in mezzo a dimostrazioni a favore dell’indipendenza o di eventi come l’11 settembre. Al momento, per questo motivo, non è strano che ci siano persone che sono a favore dell’indipendenza e che, almeno in parte, allo stesso tempo si sentono spagnole. Nel mio caso, senza andare oltre, sarebbe assurdo negare la mia origine o negare la cultura in cui sono cresciuto e di cui mi sento ancora parte.
Intendi dire che il nazionalismo “duro” non esiste più?
No, per niente. Ci sono ancora residui, benché trascurabili, di un nazionalismo classico che ha ancora contenuti etnici o xenofobi. Né possiamo negare l’esistenza di qualcosa di simile a ciò che Michael Billig chiama “nazionalismo banale”, un nazionalismo leggero, poco articolato e in molti casi non molto cosciente, dove l’orgoglio “del proprio” non implica necessariamente la negazione del (apparentemente) alieno. Tuttavia, uno dei punti più interessanti è che, secondo un’indagine del novembre scorso del Centre d’Estudis i d’Opinión,solo il 15,9% degli abitanti della Catalogna non si sente in alcun modo spagnolo. Cinque mesi prima tale percentuale arrivava solo al 12,7% e si può sperare che essa crescerà ancora, a meno che l’incipiente governo di Pedro Sanchez non riesca a invertire la tendenza.
Quali ritieni possano essere le ragioni e i desideri che maggiormente incoraggiano il movimento per l’indipendenza?
Per esempio, una ricerca del luglio dello scorso anno, dice che solo l’8,4% dei separatisti ha detto di basare il proprio posizionamento su questioni identitarie. Le ragioni principali che vengono addotte dai separatisti sono legate al desiderio di migliorare la gestione e di modificare il modello del Paese. Non so fino a che punto questi dati siano affidabili, ma certo forniscono chiavi di lettura interessanti e confermano la mia esperienza quotidiana, che dimostra la complessità del problema catalano. Ciò che è in questione in Catalogna è la possibilità di indipendenza di una collettività in cui molti dei suoi membri, a un grado maggiore o minore, non si sentono più parte della comunità che desiderano lasciare. Quindi il problema è più lo stato che la cultura spagnola in sé.
Ciò è evidente ogni giorno, dal momento che molti degli indipendentisti più radicali, anche se non lo riconoscono, non smettono di pensarsi, e pensare implicitamente, a partire da un quadro territoriale spagnolo. Ad esempio, durante le manifestazioni di condanna alla sentenza contro gli uomini della Manada (la scandalosa sentenza dopo uno stupro di gruppo avvenuto a Pamplona ai danni di una ragazza di 18 anni, ndr), la Plaça Sant Jaume a Barcellona era piena di indipendentisti con il nastro giallo. Avrebbe ottenuto la stessa rilevanza se la violenza sessuale di Pamplona si fosse verificato a Perpignan, nella storica Catalogna settentrionale, rivendicato come parte del Països Catalanos? Ne dubito. In Catalogna siamo molto più attenti a ciò che accade a Madrid o a Siviglia rispetto a ciò che accade a Perpignan.
Un indipendentismo non indipendentista
Ma tu ti spingi ancora più lontano dal “movimento indipendentista non-nazionalista”, perché dici che voteresti a favore dell’indipendenza, ma che non ti definisci indipendentista. Come può essere?
Così come votare per Podemos non trasforma qualcuno in un podemista, essere in favore dell’indipendenza non ti trasforma automaticamente in un indipendentista. Dobbiamo tenere presente che siamo chiamati continuamente a prendere decisioni politiche, come il voto o la mobilitazione, in situazioni complesse che si svolgono all’interno di quadri non scelti, non ottimali, nei quali dobbiamo posizionarci in qualche modo. Santiago López Petit lo ha scritto nel suo articolo “Prendere posizione in una strana situazione”. Quindi, il significato dei suffragi non può essere spiegato solo da una presunta identità.
Come qualificare infatti il gran numero di persone che votano per il CUP alle elezioni regionali e Podemos a quelle nazionali? Come chiamare le molte migliaia che per anni hanno votato Pujol per l’autonomia e Felipe González, in quelle generali? Uno dei grandi problemi nella comprensione del processo ha a che fare con la presunta proiezione che esista una forte nozione di identità in coloro che sono a favore dell’indipendenza. Questo è vero per una parte, ma ciò che mi interessa è l’altro aspetto, il più invisibile.
Fino a poco più di dieci anni fa solo tra il dieci e il quindici percento dei catalani si dichiararono indipendentisti; ciò significa che più dei due terzi degli attuali sostenitori dell’indipendenza sono neoindipendentisti, sostenitori da poco dell’indipendenza (rispetto a quelli che potremmo chiamare i paleoindepes, per contrasto ). Questo fatto dovrebbe essere il punto di partenza delle nostre riflessioni per capire i problemi politici che stanno dietro a tutto questo. Per questo motivo è necessario distinguere i separatisti dalle persone che, pur non riconoscendosi in questa etichetta, non smettono di essere a favore dell’indipendenza.
E come sono questi separatisti “solo su alcuni punti” o “paradossali”?
In molti casi sono indipendentisti in un modo che non è esente da dubbi e conflitti, basato su una situazione la cui trasformazione può cambiare il grado o il significato del loro “impegno”. E questo può accadere ora a seguito dell’investitura di Pedro Sánchez o della recente e controversa nomina di Quim Torra a successore di Puigdemont nella Generalitat. Cioè, ci sono molte persone che sono a favore dell’indipendenza, ma in un modo che non è incondizionato.
Spesso, la difesa dell’indipendenza non viene intesa come una sorta di sogno ideale ma come il passo verso una situazione migliore (come la possibilità di ottenere una nuova costituzione, che sia più giusta, o di istituire una repubblica, respingendo la monarchia). O anche come il male minore per riuscire ad allontanarsi dalla deriva autoritaria che si è verificata nella politica spagnola negli ultimi anni.
In altri casi, appare come una semplice decisione pragmatica in base alla conclusione che, a causa di un graduale processo di allontanamento reciproco, dove è inutile trovare per forza un colpevole, non sembra possibile un futuro e vero progetto congiunto tra Spagna e Catalogna . Per me, questo è uno degli argomenti più seri. Non è accompagnato dall’entusiasmo o dal sogno ma dalla delusione e dalle rimostranze, dalla stanchezza. La separazione non è quindi considerata un ideale, ma è la conferma di un fallimento, annunciato da tempo.
Questo gruppo senza un nome è certamente meno visibile e molto meno conosciuto…
Sì. Per cominciare, perché queste persone molte volte, come nel mio caso, preferiscono non avere bandiere di alcun tipo. Oggi guardiamo troppo le bandiere e i simboli, e troppo poco a quelle persone che, anche senza sventolare bandiere o indossare badge di alcun tipo, sono in ogni caso a favore dell’indipendenza. Non so in quale percentuale esatta possa essere quantificato questo gruppo di persone in questo momento, specialmente dopo che eventi come settembre e ottobre hanno contribuito alla radicalizzazione delle posizioni politiche, ma penso che sia una forza molto importante, senza la quale il progetto pro-indipendenza non può raggiungere una maggioranza elettorale.
Ora, dobbiamo anche dire che questo è un gruppo che potremmo definire irrappresentabile a livello politico. Le loro stesse incertezze e forse contraddizioni non possono essere riflesse in un partito politico che deve per forza proporsi come una formazione logica e coerente, dotata di un discorso chiaro, affermativo, praticamente invariabile e persino prevedibile. Uno dei problemi dell’attuale quadro politico ha a che vedere con il desiderio espresso da Albert Camus: “Se ci fosse il partito di coloro che non sono sicuri di avere ragione io ci starei”. Ma tutto ciò è in contraddizione con la logica politica della rappresentanza (rappresentazione).
Gli stereotipi e la complessità del procés
Come hanno funzionato gli stereotipi (risposte automatiche, immagini prefabbricate) durante il procés?
Gli stereotipi hanno un’importante funzione cognitiva e di risparmio di tempo che non possiamo ignorare. Generalizziamo perché è impossibile catturare in modo particolare tutta la diversità che ci circonda. Il problema, con cui ci confrontiamo ora, riguarda come questi stereotipi vengono costruiti, quali contenuti vengono introdotti attraverso di loro, come sono proiettati sulla realtà e come vengono assunti acriticamente e con interesse. Indubbiamente, c’è stata un’intenzionalità politica in tutto ciò che in realtà la maggior parte della gente non coglie (almeno quando quelli che realizzano tale disegno sono “gli altri”).
Ad ogni modo, forse è qualcosa di inevitabile in una situazione così impantanata. La stessa intensità e polarizzazione del conflitto ha costretto la maggior parte degli interessati a stare da una parte e a perdere le posizioni intermedie. Ciò ha portato a una sorta di moralizzazione del conflitto, che è caduto in una pericolosa dicotomia tra il bene e il male. Questa radicalizzazione, avvenuta da entrambe le parti, dimentica le sfumature e la complessità della posizione dell’avversario.
Ora, dimenticare questa complessità è un atto politico di prim’ordine. Il primo atto per denigrare un intero gruppo, prima ancora di definirlo con aggettivi concreti, consiste nel semplificare e omogeneizzare, nel negare la sua pluralità: i suoi membri debbono apparire come una massa informe, uguale, come una unità senza diversità e, naturalmente, allora essi possono essere descritti, secondo il gusto corrispondente, come la peggior feccia possibile.
Ecco allora che si cerca di assimilare la posizione unionista al franchismo. Oppure, per squalificare il procés, si ricade su discorsi che tirano in ballo l’indottrinamento e la manipolazione, come se nient’altro potesse spiegare ciò che sta accadendo e gli attivisti indipendentisti non fossero altro che poveri “manipolati”. La conseguenza implicita di questi atteggiamenti è che il problema non viene considerato come un problema politico ed è per questo che non è paradossale che non sia stato affrontato, in nessun momento, in modo adeguatamente politico. Il PP ha dunque preferito “giudicare” la questione, come se ogni autentico dialogo con gli indipendentisti fosse illegittimo, mentre dall’altra parte ha proposto di intervenire nell’educazione oppure considerato un rimedio l’eliminazione di TV3. Non volevano risolvere il problema ma dissolverlo.
La cosa più sorprendente è che anche nel vasto campo della sinistra sono stati stabiliti alcuni stereotipi in relazione a ciò che stava accadendo in Catalogna e che l’indifferenza è stata molto elevata. Come consideri questa cosa?
È un argomento interessante che ha generato non pochi dibattiti e delusioni in Catalogna. Uno dei più grandi esempi è arrivato il 1 ° ottobre: molti di noi, che sono andati a votare quel giorno, hanno ricevuto messaggi da persone provenienti da molti paesi del mondo che volevano informarsi, sapere se stessimo bene, ma nessun messaggio è arrivato dal resto della Spagna. Quel giorno, penso, è stata eretta una barriera, almeno comunicativa, tra molti di noi.
Molte persone si sono sentite tradite dalla reazione di gran parte di una sinistra che si pensava amica e per la quale si era votato (non dobbiamo dimenticare che molti indipendentisti hanno votato per Podemos che ha vinto comodamente in Catalogna nelle ultime due elezioni generali).
Né si è capito che le future vittime di quella deriva autoritaria – emersa in quella occasione – sarebbero state sicuramente le forze di sinistra stesse. Per questo motivo ho voluto ricordare, in suo momento, la frase di Engels che dice “Un popolo che reprime un altro popolo non può essere libero. Il potere di cui ha bisogno per reprimere gli altri alla fine si rivolge contro lui stesso”. La lettura del conflitto come qualcosa di esclusivamente nazionalista ha contribuito ad amplificare l’indifferenza, ha fornito il pretesto perfetto a molte persone per ignorare il problema e per non denunciare gli abusi di potere che in altri contesti sarebbero stati duramente criticati e combattuti. Paradossalmente, si sono comportati come se ciò che accadeva in Catalogna fosse un problema estraneo e non stesse accadendo nel loro stesso paese.
Dall’esterno della Catalogna abbiamo vissuto ciò è stato filtrato attraverso il livello di rappresentazione (quello che viene privilegiato dai media), come una questione principalmente giocata da politici, da cupole, da manovre di palazzo e intrighi, con il la gente per strada come semplice decorazione. Tuttavia, tu sostieni che ciò che è successo a quel livello è l’aspetto meno interessante…
L’inerzia della rappresentazione costruisce un enorme potere che non sempre sappiamo come comprendere, decostruire, avendo dunque la capacità di spostare la lotta politica in quello stesso spazio. Oltre il 1 ° ottobre e forse l’8 novembre (il giorno dello sciopero politico), riflettiamo sull’importanza del Parlamento in giorni chiave come il 6 e il 7 settembre (con le leggi del referendum e della transitorietà legale), il 10 ottobre (con la non dichiarazione di indipendenza) o il 27 dello stesso mese (con la dichiarazione politica di indipendenza). È sembrato che la vera politica fosse solo lì. Pensa alla dimensione simbolica che ha acquisito uno come Puigdemont, che è stato votato anche da molti sostenitori del CUP e che per mesi è riuscito a tenere in sospeso l’intera Catalogna per poi scegliere di passare la mano a un candidato controverso come Quim Torra. La rappresentazione si è appropriata di alcune delle caratteristiche più interessanti del movimento indipendentista.
Un mondo e un futuro comune
E che dire, allora, di quella metà della cittadinanza catalana che non vuole l’indipendenza? Come pensi, dalla tua posizione, possa essere la relazione con questa parte? Si sta lacerando la capacità di convivenza in Catalogna come spesso sostengono i media?
Si leggono così tante cose su questo argomento che è difficile sapere cosa sta realmente accadendo, quindi non posso parlare se non per la mia esperienza personale e quella delle persone che conosco. Ovviamente, il procés è stato al centro di lotte e disaccordi, ma non dovrebbe essere sopravvalutato, almeno per quanto accaduto fino a qui. Nel mio caso, i disaccordi si sono verificati più negli spazi virtuali, in reti come Facebook, che nella mia vita reale. Inoltre, è normale avere discussioni e momenti di tensione su questioni che ci riguardano così tanto, non è affatto insolito, anche se in nessun momento ho visto situazioni davvero serie, violente. Se ce ne sono state, e lo sappiamo attraverso i media, ripeto, almeno per il momento, non sono rappresentative.
Una delle bugie più grandi e più dannose ha a che fare con questa intenzione di presentare la società catalana come una comunità divisa e “ulsterizzata”. I membri della mia famiglia, ad esempio, sono chiaramente contro l’indipendenza, ma questo non ci ha impedito di mantenere una buona relazione. Ho chiesto a molti “sindacalisti” se hanno avuto problemi a causa del conflitto, per esempio sul lavoro, e hanno risposto di no. Forse è perché giro per Barcellona, dove si è circondati da persone di tutte le posizioni politiche. In contesti più omogenei a livello politico può essere che non sia così, non lo so, ma certo mancano molti articoli che mostrino come indipendentisti e non-indipendentisti possono vivere insieme in pace. Su fatto che questo venga raccontato sono piuttosto pessimista: i conflitti “vendono” molto di più e sono più utili come strumento di governo politico. Hegel ha sottolineato che i momenti di felicità sono pagine vuote nella storia dell’umanità.
Ad ogni modo, dobbiamo ricordare che il problema della convivenza può avere una proiezione più grande a livello politico. Uno dei problemi maggiori del pensare al referendum come a un trampolino di lancio per l’indipendenza è che l’ostinazione a raggiungere il 51% del sostegno può spingere a confondere il concetto di democrazia con una dittatura della maggioranza. Qualunque cosa accada, è essenziale che il governo sia riconosciuto da tutti. Se si ottiene l’indipendenza della Catalogna, è fondamentale che al processo costituente per definire il nuovo sistema politico partecipino non solo le persone che sono a favore dell’indipendenza, ma anche coloro che in questo momento sono contrari.
C’è una via d’uscita da questo conflitto? Riesci a immaginare qualcosa, a quel livello?
Non so se esiste qualcosa come un’uscita o una soluzione ideale, non sono molto ottimista, ma se esiste, può solo passare attraverso un referendum concordato. Nel migliore dei casi, Pedro Sánchez può alleviare il problema, ma non risolverlo senza una consultazione sul tema dell’indipendenza. Gli indipendentisti non si accontenteranno di meno e gli unionisti non riconosceranno nulla che non provenga dallo stato spagnolo. Molti di loro voteranno solo se si sentiranno in dovere di farlo. La domanda è se ciò è possibile. Perché sia davvero così, la Spagna dovrebbe riconoscere la Catalogna come un vero interlocutore politico e questo aprirebbe la porta alle altre richieste, di altri referendum, in altri territori, come Euskadi. Non la vedo per niente facile.
Traduzione di Cristina Morini
Pubblicata su el.diario.es
Immagine in apertura: un ragazzo e una ragazza con la bandiera catalana il 1 ottobre 2017, durante il referendum. (il Post)