Il prezioso libro di Dardot e Laval (qui già commentato

[1]) che illustra in modo chiarificante la duplice parabola epistemologica del liberalismo classico d’origine settecentesca e il neoliberismo novecentesco [2] offre materiale per riflessioni anche sull’attualità politica più recente. Seguendo la sua ricostruzione dell’epoca del trionfo della globalizzazione neoliberista, avente il suo apogeo tra gli anni ’80 e gli anni ’90, ci si può in effetti convincere che questa epoca sta entrando oggi in una fase di contrazione, di declino: un declino, la cui durata è tutta da vedere e forse sarà anche controvertibile, ma che nel presente è attestata almeno da due chiari sintomi.

Anzitutto, il progressivo calo di fascino intellettuale delle opere fondatrici del neoliberismo e dell’ordoliberismo, dottrine risalenti al primo dopoguerra: quelle dei componenti della famigerata Mont Pelerin Society, da Von Hajek a  Von Mises, a Friedman, o anche successivamente di Gary Becker, solo per fare qualche nome. Oggi sembra dunque giungere alle sue più estreme conseguenze il paradosso che ha segnato tutta questa storia: il paradosso per cui  tanto più clamorosi sono stati i successi pratici di queste dottrine neo e ordoliberiste (nel legittimare la globalizzazione finanziaria, nell’imporre il dovere per chiunque di comportarsi come manager di se stesso, nel favorire lo smantellamento di servizi pubblici, nell’asservire tramite debito economie deboli ad economie forti e così via), tanto meno unanimi sono divenuti i loro consensi su un piano teorico e intellettuale. È così accaduto che a partire dal terzo millennio, riconoscimenti e conferme a livello di opinione sono andati a testi critici del neoliberismo, come quelli dei nobel Stiglitz e Krugman, ma anche quelli del “nostro” Toni Negri e di tutta la vasta scuola di pensiero che vi fa riferimento – anche qui per fare solo qualche nome tra tantissimi.

Altro sintomo della svolta in corso sta nel fatto che da qualche anno, all’intensificarsi delle critiche anti-neoliberali si sono venute affiancando strategie e governi  che traggono i loro consensi proprio dalla contestazione  della globalizzazione finanziaria e neoliberista, con tutte le loro implicazioni etiche, sociali e politiche. Un fenomeno questo, chiamato populista e sovranista, di cui sono noti protagonisti personaggi quali Trump, Orban, Kurz, May, così via e non da ultimo il nostrano Salvini, oramai leader di un partito nel quale sono destinati a confluire anche gli storditi partner pentastellati.

Tali sintomi sono passibili di diverse interpretazioni.

1) Da un lato, se ne possono ridimensionare le conseguenze, nella convinzione che sempre di capitalismo si tratta e che quindi il cambiamento in corso si ridurrebbe ad alcuni effetti limitati destinati a moderare gli eccessi della finanziarizzazione più pericolosi per la tenuta del sistema. In termini politologici, questo tipo di argomentazione si può  tradurre nell’interpretazione della svolta in corso come semplice svolta a destra, regressiva, in gran parte dovuta all’incapacità della sinistra di sapere valorizzare gli aspetti  progressisti della globalizzazione neoliberale. Nel qual caso resterebbe comunque sempre da chiarire come si possano dissociare i presunti aspetti progressisti della globalizzazione da quelli devastanti quali quel vorticoso aumento delle differenze sociali che infinite lotte ed esperimenti hanno sì contrastato ma raramente giungendo a risultati esemplari .

2) Dall’altro lato, si può ricondurre tutto il problema della svolta in corso ad un ennesimo caso della classica contrapposizione tra il capitalismo produttivo all’interno di contesti nazionali e il capitalismo finanziario agente su scala globale. Tra i tanti altri, Nancy Fraser[3], ad esempio, ha riproposto questo schema per commentare la vittoria elettorale di Trump. In effetti, in questa vittoria come in quella referendaria della Brexit, così pure in quella della Lega e dei 5 Stelle, si può ben vedere la rivalsa del capitale più vicino alle industrie sedentarie (in Italia, la fatidica “piccola industria” di cui Grillo si è sempre proclamato paladino) rispetto allo strapotere di cui per più di trent’anni ha goduto il nomadismo finanziario.

Del tutto fuorviante, a rischio di detestabili scivoloni “rosso-bruni”, sarebbe però considerare il capitalismo produttivo “reale” e quello finanziario “fittizio”, cosicché il primo apparirebbe sempre e comunque più sobrio e progressista, mentre il secondo starebbe all’origine di ogni disastro economico. Tra i tanti altri, Pierre Noel Giraud[4] ha chiarito perfettamente le confusioni connesse a un simile dualismo. In effetti, se nella storia del marxismo il capitalismo industriale su scala nazionale è stato considerato con qualche rispetto (come quando negli anni ’60, al tempo del movimento dei paesi  “non allineati”,  si parlava con favore di “borghesia nazionale” opponendola alla “borghesia compradora”, asservita alle superpotenze imperialistiche), ciò è avvenuto perché esistevano ancora paesi dove industrializzazione e mercato non erano ancora sviluppati. Una condizione, questa, oggi oramai ovunque quasi inesistente, per cui ad esempio la pretesa di difendere l’economia reale italiana dai supposti complotti della finanza globale non significa altro che incitare ad una più agguerrita concorrenza tra i paesi più imperialisti del globo dei quali appunto l’Italia fa parte. Del resto, tutto ciò non può non ricordare argomenti e scelte che pur in tempi e condizioni incomparabili con gli attuali caratterizzarono l’autarchia fascista quando provava appunto di farsi spazio tra le potenze finanziarie dell’epoca.

3) Giungiamo così ad un’ulteriore possibile diagnosi dei sintomi del cambiamento storico in corso, segnato com’è dal contrasto tra la globalizzazione neoliberale più o meno declinante e il diffondersi recente di governi populisti e sovranisti. Secondo questa ulteriore diagnosi i sintomi succitati vanno interpretati come indici di cambiamento profondo, grave, tale da costituire una discontinuità di lunga portata: di così lunga portata come appunto fu la discontinuità che a suo tempo produsse il fascismo negli anni del primo dopoguerra, creando una frattura rispetto a tutta l’epoca iniziatasi sessant’anni prima con l’Unità d’Italia. Solo avendo in mente questo precedente si comprende come oggi a tanti venga spontaneo urlare “fascisti!” in faccia a Salvini e al suo seguito. In tal modo si esprime infatti la percezione del tutto esatta di essere tornati, per la drammatica gravità della situazione politica, in tempi non troppo dissimili ai primi anni ’20. In effetti, da questo punto di vista, come allora fu disastroso ridurre il fascismo a semplice svolta di destra, tra le tante compiute dalla monarchia sabauda, così pure oggi sarebbe disastroso considerare il governo giallo-verde niente di più che l’ultimo dei tanti orrori ordinari contemplati dalla galleria repubblicana – quella includente personaggi tipo Fanfani, Andreotti, Craxi, Berlusconi, Renzi… Al contrario, secondo la diagnosi ora argomentata la conclusione non può che essere ben più radicale: che certo la cosiddetta prima repubblica i suoi inenarrabili difetti li ha avuti rispetto alla sua fondazione partigiana; che certo la svolta “mani pulite” i suoi danni li ha fatti, che certo la seconda repubblica di Berlusconi e Prodi ha provveduto a confondere ulteriormente le cose; che certo Renzi ha seminato quel che oggi si raccoglie; che certo tutti questi governi hanno funzionato al servizio del capitalismo, ma che nonostante tutto ciò con Salvini & soci c’è da aspettarci il peggio del peggio.

Per convincersene, quindi pensare ed agire di conseguenza, probabilmente ci vorrebbe un cambio di paradigma rispetto a quello assunto per criticare e contrastare la globalizzazione neoliberista. Di questi tempi, il fronte delle ricerche e delle sperimentazioni volte a ridurre le ingiustizie sociali si è sdoppiato: ora il nemico non è più solo la globalizzazione neoliberista, ma sono anche e sopratutto i governi populisti e sovranisti.

Questa nuova situazione rende più problematico che mai rivendicare ciò che Fassin[5] insegna a vedere come una componente ideologica cruciale dell’epoca della globalizzazione neoliberale: quell’etica compassionevole, quella ragione umanitaria, quella propensione filantropica necessarie a lenire le catastrofi create dalle ingiustizie sociali crescenti o dall’esportazione della democrazia a furia di bombardamenti che hanno caratterizzato questa epoca. Ora, è proprio questa componente ideologica che le nuove strategie populiste dimostrano di voler abbandonare ad ogni costo. In sostituzione, si sta apprestando la riedizione di una delle peggiori operazioni di stampo prettamente fascista: la nazionalizzazione dell’idea di giustizia. Slogan come “America first!”, copiata dal “prima gli Italiani!” tipici dei nuovi leader populisti e sovranisti non vogliono dire altro che l’immiserimento particolaristico, domestico, di quell’idea di giustizia che per tradizione – non solo religiosa, ma anche liberale e soprattutto socialista e comunista – ha avuto senso unicamente in quanto universalistica.

Se è questa la tradizione da riattivare oggi più che mai, non si può continuare ad avallare la sua impostazione etica, umanitaria e compassionevole così com’è stata promossa dalla globalizzazione neoliberale. Ora, specie dove, come in Italia, ci sono governi populisti e sovranisti, la sfida che unisce nelle lotte stranieri e cittadini declassati non può più contare in un ambiente etico, per lo più favorevole: non le resta che diventare tutta politica, pensata e praticata anzitutto dai diretti interessati.

 

NOTE

[1] http://effimera.org/governo-umanitario-neoliberalismo-populismo-valerio-romitelli/; http://effimera.org/proposito-didier-fassin-opinioni-confronto-salvatore-palidda-valerio-romitelli/

[2] La nouvelle raison du monde. Essais sur la société néolibèrale,La Decouverte, Paris 2009,  trad. it.( R. Antonucci e M. Lapenna), La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Deriveapprodi. Roma, 2013

[3] https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/11299-nancy-fraser-dal-neoliberismo-progressista-a-trump-e-oltre.html

[4] Le commerce des promesse. Pétit traité sur la finance moderne, Seuil, Paris, 2001

[5] i La raison humanitaire. Une histoire morale du present, Seuil, Paris, 2010; trad. it (di L. Alunni), Ragione umanitaria. Una storia morale del presente , DeriveApprodi, Roma , 2018, anch’esso già qui commentato negli articoli già segnalati.

Immagine tratta da Global Project

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