Bisognerebbe avere la grazia e la forza, in sostanza l’amore sufficiente, per ricostruire la propria esperienza di vita a partire dalla fine del percorso. Riuscendo a farne non un semplice addio, una autobiografia celebrativa, l’occasione per uno srotolamento nostalgico di avvenimenti, nomi e circostanze, ma un campo politico.
Di questo è stata capace Giovanna Ferrara, morta nel 2023 a 39 anni dopo il calvario obbligato da una rara malattia polmonare e il trapianto di entrambi i polmoni.
Prima di andarsene ci ha lasciato un libro, L’innocenza dei dinosauri (Fuorilinea, 2024), nel quale è riuscita a restituire il problema della malattia, della sofferenza, della vulnerabilità, della crisi del sistema sanitario nazionale, della salute pubblica precipitata in un impoverimento disumano dopo l’evento (la pandemia Covid, come lei lo definisce, non casualmente), che ha una profondità difficile da raggiungere poiché tutto è scritto sul/con il suo stesso corpo.
Le recensioni dovrebbero evitare di prendere parte al testo e tuttavia è difficile sottrarsi, per me, all’impressione della consegna di una verità estrema che si può cogliere solo quando lo sguardo si rende capace di distillare la luce interna degli avvenimenti terreni. Solo in taluni casi estremi si riesce, io credo, ad avere una sorta di rivelazione, a vedere il senso di ciò che un senso non ce l’ha, che, per lo più, resta, per tutte e tutti noi, incomprensibile, un caos ingiusto e insostenibile, impossibile da esorcizzare.
C’è tra queste pagine, il succedersi dei fatti: nel procedere del tempo della malattia la diseguaglianza e l’ingiustizia sono spesso nucleo centrale del racconto, ci sono stanchezza e lacrime, il trauma dei pronto soccorso e dell’ospedalizzazione, trapela la durezza di un destino davvero poco generoso. Eppure, Giovanna Ferrara non ha scritto per compiangersi ma per denunciare e per indurci a vedere. Riesce a dirci: “Mi pare, al netto dei conti, che la vita stia dalla parte del donarsi”. Oppure: “È stato incredibile che in questo roveto io abbia trovato tutta questa felicità. È così diversa da come me la immaginavo. Così piena, così per tutti. Come il profumo dei limoni”. E, più di tutto, dopo l’incontro con Donato, che sposerà: “Se tutto ciò è servito a portarmi a questo grado di commozione per chi ho intorno, alla forza che ho dentro, all’amore per la giustizia sociale che rinasce a ogni giro di boa della patologia, penso che ne è valsa la pena”.
Questa consapevolezza, costata una vita, è stata il dono doloroso di Giovanna, l’eredità che ci ha lasciato: “Prima il riso era assente da me. Mi vedo nelle foto del passato e vedo l’infedeltà a me stessa. Scrivevo per accreditarmi di fronte a un circolo di intellettuali di sinistra o per rendere migliore la società? Avevo relazioni per frequentare la gioia estatica o perché quella persona era un satellite che mi portava tra le stelle più splendenti?”.
La domanda mi attraversa, mi consegna a me stessa e alla ancestrale questione del demone amante di Robin Morgan. Ma abbiamo entrambe una possibile risposta: l’essere donne vicine al pensiero e alla pratica delle donne può salvare da certi crepacci. Ci sono storiche insicurezze, c’è il fatto di non pensarsi mai baricentro del mondo, ci sono fragilità che sembrano sempre colpe. Spesso, agli imperativi performativi del mondo si preferisce l’esodo, si preferisce una finestra sul mare. Fuori da certe rappresentazioni d’apparato – che, funestamente, ad alcune cominciano ad apparire essenziali – la millenaria esperienza femminile della profuganza è una alternativa concreta. Consente di proiettarsi lontano da lì, di aprire istanze e di fare spazio a un attivismo che non cerca di ottenere una semplice, effimera, insegna ma tenta di costruire un presente desiderabile, con chi è raggiungibile, prossimo, tangibile. Questa postura non è “qualcosa di brutto ma una libertà”, conquistata a fatica. Come Ferrara scrive: “La centralità dei bisogni, la loro improcrastinabilità è qualcosa che preserva, spesso sanamente”. “Le regole di pane”, le chiama lei, a cui rimanere fedeli, fuori da prestazione e competizione, quelle che consentono e continueranno a permettere la philia. In mezzo ai falliti e agli ammalati si può fare “la rivoluzione umana”. Si può contrastare il disamore.
Da questo libro, infatti, la gioia emerge dalla fatica del corpo che riesce finalmente a sollevarsi, dall’osservarsi i piedi e le mani, dal riuscire a camminare, respirando senza fame d’aria, per qualche chilometro. Si comprende meglio il valore della “vita piena” proprio quando la pienezza bisogna andarla a cercare “nel suo sottrarsi”.
“Non è appannaggio di pochi arrivare nel percorso dell’infermità alla conoscenza”, scrive Ferrara. Avendo attraversato infinte stanze di tanti ospedali, i gironi dei reparti, e osservato pazienti, parenti, medici, infermieri, avendo sperimentato la cura o l’assenza della medesima (il soddisfacimento-mancanza di Joan Tronto) e dunque anche il potere della cura, l’autrice è riuscita ad “unire i puntini” e a ricostruire la figura nascosta: il problema politico svelato da una questione privata. Si vede chiarissima la correlazione esistente tra dispositivi di potere, soggettività e modelli normativi.
Dietro il bagno di umiltà imposto dalla costrizione del corpo malato, nudo e consegnato ai dottori, ai sapienti, reificato, alienato ridotto a numero, cartella clinica, quasi fosse senza affetti, senza legami, senza reti, senza un passato e, probabilmente, senza un futuro, c’è l’immenso problema delle forme del dominio e della nostra urgenza di resistenza e di libertà. Vessazioni, attese interminabili, silenzi, rotti, qualche volta, da volti umani e da eccellenze nella professione medica e allora si è grate, delicatamente, per tale, inaspettata, accoglienza. Oppure, si osservano i turni infiniti degli infermieri, pagati pochissimo per un lavoro estenuante e imprescindibile, soprattutto se si è impossibilitate a muoversi, se si è inermi, vulnerabili: “Non so dire la commozione per questi esseri. Non ha ancora un nome”.
Tutto questo nel pieno dello svolgersi dell’evento, destinato a trasformarsi in epoca, la pandemia Covid che ha cambiato le esistenze della comunità umana, per sempre. La gestione di un’epidemia dalle proporzioni planetarie, è stata utile per sperimentazioni sociali inedite e si è fondata sul precetto del confinamento dell’altro, sulla retorica dell’untore come nel 1630, e sulla disuguaglianza: mentre la sanità pubblica, già in preda a gravi mancamenti, collassava, la salute dei cittadini è stata consegnata agli attori privati. Una analisi incompleta, quando non ottusa o, meglio, volutamente deviata da interessi economici e da modelli dove il welfare state scompare e si traduce in health and wellness sector. Il problema illuminato (l’imbuto dei pronto soccorso, i pochi posti nelle terapie intensive, la carenza di personale, “i numeri verdi menzogne”, i medici di base scomparsi, il disprezzo per l’entropia tra uomo e ambiente) è stato ignorato alla radice – e adesso è completamente deflagrato. Tra tanta emergenza, una giovane donna, ammalata di fibrosi polmonare, è stata costretta a denunciare la propria condizione ai giornali e alle televisioni per avere diritto ai vaccini. Oppure, a pagare di tasca propria – avendo mezzi che glielo consentono, come precisa – i tamponi, le visite private, un’ecografia a domicilio, perfino un’ambulanza, arrivata 24 ore dopo la chiamata, che la riporta da Padova a Napoli poiché aveva bisogno di ossigeno durante il trasporto: “Io ero su una barella. Mio padre su una sedia. Lo guardavo chiudere gli occhi. Gli prendevo la mano. Sembravamo due superstiti”.
Si svela, in questa storia incarnata, il dramma di un’assenza di politica con cui facciamo i conti, ancora e ancora, tutti i giorni. Leader incapaci di essere all’altezza dei loro compiti, incapaci di ascoltare ciò che le persone provano a dire (assenza di diritti sul lavoro, di reddito, di servizi pubblici, impoverimento, debiti che si accumulano…). Uno stato tanto preciso con le cartelle esattoriali ma dove chi doveva curarti è latitante e viene sospesa “la possibilità di romperti una gamba”. Cosicché, se nell’anno 2020 i tagli alla sanità si sono tradotti in “morti soffocati nelle proprie case senza ricevere assistenza” adesso “non si sa evitare di farsi travolgere dall’unica banalità che ci consegna tutti a un pericolo atomico: aumentare la spesa militare”, scrive con preveggenza Giovanna che non ha fatto in tempo a vedere quanto corretta fosse la diagnosi.
Oggi sappiamo che ogni anno sarà necessario scucire almeno 6,4 miliardi l’anno per spese militari in un Paese dove, in termini di percentuale sul Pil, il Fondo sanitario nazionale sta scendendo dal 6,12% del 2024 al 6,05% nel 2025 e 2026, per precipitare al 5,9% nel 2027, al 5,8% nel 2028 e al 5,7% nel 2029 (dati Il Sole 24 ore).
Il Covid, insomma, è stato una ferita collettiva che nessuno si è sforzato di curare, andando oltre la paura: “Avessimo almeno detto che noi, l’innocenza dei dinosauri, non l’avevamo mai avuta”.
La storia umana di questi due ultimi anni di Giovanna Ferrara è costellata di una miriade di amiche e amici, ci sono la madre, il padre che l’ha cresciuta, il padre biologico, la sorella, le cugine, lo zio, il figlio Gaetano (evocato, sempre protetto). Ci sono una serie di complicità emozionanti con le altre degenti. Solidarietà con le compagne di stanza, confidenze, sorellanza, comuni inaspettate. C’è sempre qualcuno con lei – feroci isolamenti ospedalizzi permettendo – e poi arriva anche l’amore di Donato Ferdori che per questo libro ha scritto una postfazione piena di tenerezza, di rimpianto e di sofferenza per il vuoto lasciato da un lutto tanto ingiusto: “Le radici malate che Giovanna è riuscita a mostrare in queste pagine […] aspettano solo che ce ne prendiamo cura”.
Infine. Non posso dire di essere stata amica di Giovanna Ferrara e me ne dispiaccio. Vivevamo lontane. Ci siamo incontrare di persona alcune volte, ci siamo lette reciprocamente su il Manifesto o su Operaviva. L’ultima volta che l’ho vista fu a Roma, prima dell’evento, lei era bellissima, felice. Ci siamo piaciute, ci siamo scritte. È capitato anche che non ci si capisse, una volta, via mail. Anche di questo mi dispiaccio, anche se chiarimmo. So che questa nota personale in una recensione proprio non ci dovrebbe stare. Ma la voglio scrivere lo stesso per dire, testimoniare, che non è mai parsa malata. Voglio che senta questo misero tentativo di restituzione. Sapevo del suo grave problema ai polmoni ma solo a posteriori, leggendola, ho scoperto le tribolazioni incredibili che ha passato mentre lei, viceversa, sprigionava sempre vitalità e faceva apparire tutto leggiadro, allegro, affascinante, magico. Mare e magliette a righe, aperitivi e viaggi in automobile per andare a ritirare gli esiti degli esami come fossero scampagnate di matti spensierati. E poi quella sua lingua “rabbiosa e dolcissima, caotica e immaginifica”, come sottolinea Ferdori. Insomma, a guardarla da fuori, sembrava fosse sempre in procinto di andare o di uscire da una festa. Ma, a pensarci bene, non è così, nonostante tutto, la vita? O meglio: non bisognerebbe imparare a disporsi esattamente in questo modo, finché c’è il respiro? Per fare della nostra presenza un’occasione di domande di senso, un gioco di forze creatrici.
Questo, almeno, è il messaggio dell’ultima riga de L’innocenza dei dinosauri: “Quanta felicità in questa strana storia. Quanto amore. Proprio là dove nessuno pensa possa abitare. Quanta politica”.
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Giovanna Ferrara (Cava dei Tirreni 1978 – Padova 2023) è stata una giornalista e una ricercatrice indipendente. Ha lavorato per Agcom e collaborato con il Manifesto, la rivista online Operaviva, la Radiotelevisione svizzera italiana. Nell’ultimo periodo della sua vita si stava dedicando allo studio delle figure di Eugenio Colorni e di Ursula Hirschmann e del Manifesto di Ventotene.
Giovanna Ferrara, L’innocenza dei dinosauri, Fuorilinea, Monterotondo (RM) 2024
Immagine in apertura: Eye Body: 36 Transformative Actions For Camera by Carolee Schneemann, 1963/2005. Source: MoMA, New York
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