Le riflessioni effimere proseguono anche dopo il grande sciopero per il clima del 27 settembre. Chiudiamo la serie dei commenti all’intervista di Gennaro Avallone a Jason Moore (qui la prima e la seconda parte) con il contributo di Laura Centemeri.

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Nella conversazione globale della world-ecology credo i tempi siano maturi per avventurarsi in terreni di dialogo forse meno familiari, ma proprio per questo potenzialmente capaci di contribuire all’identificazione di nuove prospettive di ricerca e di azione. Penso in particolare al dialogo tra approcci sociologici strutturalisti-sistemici (in particolare marxisti) – ad oggi il linguaggio più comunemente parlato nella comunità della world-ecology – e approcci pragmatici. Con quest’ultimo termine intendo la sociologia pragmatica iniziata da Luc Boltanski e Laurent Thévenot in Francia e la sociologia di ispirazione pragmatista, in particolare il movimento di riscoperta del pensiero di John Dewey.

Questo dialogo è da intendersi, dal mio punto di vista, non nel senso dell’utilità della giustapposizione di questi approcci bensì della necessità della loro articolazione per l’elaborazione di nuove narrative e l’apertura di nuove prospettive di ricerca e di critica.

Riprendendo a mio conto le recenti riflessioni di Luc Boltanski (2017) sulla “struttura della merce” e le “forme di messa in valore” – ispirategli tra l’altro proprio da una rilettura di Fernand Braudel – sostengo che questa articolazione è necessaria se realmente la world-ecology ha come progetto politico quello di contribuire a definire un nuovo senso di emancipazione, come emancipazione nella “tela della vita” (web of life) e non dalla tela della vita.

Il modo in cui Moore parla della tela della vita mi sembra, allo stato attuale, distante da una reale considerazione dell’esperienza. Ed è proprio l’esperienza il nodo intorno a cui cercare di costruire un’articolazione tra approcci strutturarli-sistemici e pragmatici.

Infatti, contrariamente a quello che molti pensano, gli approcci pragmatici non implicano l’abbandono delle strutture e, tanto meno, delle grandi narrative, perché sono ancorati nella tradizione di quello che Boltanski definisce uno “strutturalismo cognitivo”.

La sociologia pragmatica prende sul serio le rappresentazioni del mondo che sono storicamente generate dall’esercizio della riflessività sociale. Queste rappresentazioni del mondo includono anche un certo tipo di rappresentazione del legame “all’intorno” (il senso etimologico di ambiente). Ma quello che soprattutto interessa la sociologia pragmatica – in questo riprendendo un movimento à la Foucault – sono i processi che portano queste rappresentazioni a trasformare il mondo materiale e il modo in cui gli attori ne fanno esperienza e se lo rappresentano. In pratica, come le rappresentazioni sono inestricabilmente intrecciate a delle ecologie. Per questo gli oggetti centrali della sua analisi sono i dispositivi , le convenzioni di quantificazione e di monetizzazione (penso ai lavori di Alain Desrosières), gli strumenti tecnici, gli argomenti di giustificazione, le categorie del pensiero, del gusto e della sensibilità. In un suo articolo seminale, Laurent Thévenot (1984) parla di “investimenti nelle forme” per indicare tutti quei processi che contribuiscono al disciplinamento (o messa in forma) insieme delle cose, delle persone e dei loro ambienti, necessario a creare le condizioni per stabilizzare dei quadri comuni di valutazione e valorizzazione.

Mi sembra allora importante specificare, con Boltanski, l’apporto degli approcci pragmatici alla comprensione del potere economico nel mondo contemporaneo: esso è “potere di sviluppare un discorso sulle cose e di metterle in valore per negoziarle a un prezzo il più elevato possibile” e insieme “potere di iscrivere questo discorso e i profitti che genera nella trama della realtà, un potere distribuito in modo particolarmente asimmetrico” (p.622).

Malgrado la prossimità con alcuni temi della world-ecology c’è però un nodo critico che emerge: i limiti di un approccio al valore come realtà oggettiva, “estratta” e governata da “una legge del valore”. Cosa che perpetua l’alone insieme “misterioso e mistico” (Ibid, p. 612) di questa nozione.

L’intuizione pragmatica è quella di uscire dal dualismo valore-valori analizzando il farsi del valore nelle pratiche degli attori (cioè guardando alle operazioni concrete di valutare e valorizzare) ma sempre interessandosi anche ai contesti, con le loro infrastrutture materiali e immateriali. I contesti, con le loro infrastrutture, inducono negli attori un’inclinazione verso alcune pratiche di attribuzione del valore. Quando istituzionalizzate, queste finiscono per essere percepite come la normalità, come il modo giusto di valutare.

Gli attori che valutano sono, in questa prospettiva, sempre liberi di scegliere cosa e come valutare e sempre, al tempo stesso, vincolati e condizionati. Contro Durkheim, infatti, la sociologia pragmatica assume una relativa autonomia dell’esperienza. Questa posizione si esprime nell’idea che la relazione tra esperienza e struttura è rappresentabile come una relazione dinamica retta da un momento di “feedback”, cioè di revisione e di potenziale retroazione, definito “prova di realtà” (Boltanski e Thévenot, 2006). Si aprono così prospettive interessanti per mettere in luce sia forme insospettate di oppressione che risorse insospettabili per la critica.

E’ noto che gli approcci marxisti non sanno spiegare la dinamica dell’azione collettiva. Come scrive Alberto Melucci (1992, p.17-18): “La spiegazione fondata sulla comune condizione strutturale degli attori dà per scontata la capacità di questi ultimi di percepire, valutare, decidere ciò che li accomuna. Ignora cioè proprio i processi che permettono (o impediscono) agli attori di definire la ‘situazione’ come campo di un’azione comune. Sul versante opposto le motivazioni degli attori e le differenze individuali non bastano mai a spiegare come accade che certi individui si riconoscano e diventino parte di un ‘noi’”.

La strada che propone la sociologia pragmatica per uscire da questa impasse è quella di considerare le esperienze e le strutture come intrecciate nel piano dell’esistenza, dove il fluire dell’esperienza è sempre esposto al rischio di intoppi (troubles). Se non ignorati come rumore di fondo, questi ultimi possono indurre, come sosteneva Dewey, all’indagine. Si tratta allora di riconoscere che sono “struttura” – o forme strutturanti – tutti quegli operatori che permettono agli attori impegnati in un’indagine di riconoscere comunanze e differenze significative per l’esistenza del loro mondo in quanto mondo ordinato e giusto, e non caotico e oppressivo.

Lo strutturalismo sistemico e le sue narrative, nel caso qui in discussione la world ecology, producono questo tipo di operatori suscettibili di aiutare a identificare differenze e comunanze significative per permettere l’esistenza di un mondo ordinato in modo giusto. Bisogna però interrogare la loro adeguatezza e i loro eventuali limiti. Ecco perché bisogna prendere sul serio le situazioni e l’esperienza.

E’ fondamentale che la world-ecology vada oltre il richiamo di rito alle tele della vita, per riconoscere la necessità non solo di aprirsi, ma di ibridarsi almeno parzialmente con approcci capaci di restituire, il più finemente possibile, le loro trame. Queste trame sono generate dalla varietà di modi di valutare che strutturano le relazioni tra umani e tra umani e non umani in pattern riconoscibili ma mai identici a se stessi.

Questa conoscenza fine delle trame della vita non è un invito alla descrizione della varietà come obiettivo fine a se stesso: si tratta di un invito a praticare quelle che l’antropologa Anna Tsing definisce le “arti di fare attenzione”, cioè interessarsi alle diversità e alle incongruenze, e saperle descrivere. Questo passaggio è necessario per elaborare nuovi (o rinnovati) operatori, capaci di “fare presa” sugli attori alla luce delle loro esperienze e di favorire il riconoscimento di comunanze e differenze capaci di alimentare un discorso critico sull’ordine (o disordine) attuale.

La sfida è quella di un nuovo immaginario socio-tecnico capace di tenere insieme libertà e interdipendenze ecologiche. Questa sfida è da far tremare i polsi e sembra a tratti che Moore non ne misuri a sufficienza le implicazioni. D’altronde nel suo ragionamento non c’è accenno ai motivi a favore dell’emergere di un progetto moderno. La modernità è la legittimazione del capitalismo e del suo sistema di oppressione e sfruttamento.

Contro questa visione, ritengo invece storicamente più fondata l’analisi di Peter Wagner (2001) che considera la modernità e il capitalismo come due formazioni sociali distinte ma intrecciate: il progetto politico moderno crea il problema di come organizzare la risposta ai bisogni in modo autonomo dallo spazio feudale-domestico con le sue servitù. Il capitalismo offre una soluzione praticabile a questo problema ma, al tempo stesso, installa un campo di forze e condizioni sistemiche di oppressione che retroagiscono sul progetto moderno.

Quello che mi preme dire è che non bisogna dimenticare che ci sono state ragioni, nel progetto moderno, per cercare di mettere la natura a distanza, non solo legate al disegno oppressivo di sottometterla, ma anche a una volontà di emancipazione.

Oggi l’emancipazione va re-immaginata, ridando alla natura uno spazio di azione e di “co-progettazione” ma evitando il ritorno dei naturalismi e i rischi insiti nel pensiero che celebra natureculture fluide e modellabili a piacimento (Pellizzoni 2015). L’emancipazione nella tela della vita ha allora forse a che vedere con l’esercizio di trasformare i confini che separano in lisiere che rendono possibile il comunicare nella diversità: una diversità che gli strumenti della sociologia pragmatica possono aiutare a rendere almeno un po’ più intellegibile.

 

Riferimenti bibliografici

Boltanski, L. (2017). Pragmatique de la valeur et structures de la marchandise. Annales, 72(3), 607–629.

Boltanski, L., and Thévenot, L. (2006). On Justification. Princeton, Princeton University Press.

Melucci, A. (1992). L’invenzione del presente. Movimenti sociali nelle società complesse, Bologna, Il Mulino.

Pellizzoni, L. (2015). Ontological Politics in a Disposable World: The New Mastery of Nature. Farnham, Ashgate.

Stark,, D. (2009). The Sense of Dissonance. Accounts of Worth in Economic Life. Princeton, Princeton University Press.

Thévenot, L. (1984). Rules and implements: investment in forms. Social Science Information, 23 (1), 1–45.

Wagner, P. (2001) Modernity, capitalism and critique. Thesis Eleven 66: 1-31.

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