Introduzione
Di fronte alla necessità di una risposta collettiva circa l’insistente domanda rispetto l’agire ed il pensare una ricomposizione di classe come volano per la sovversione di corpi, bisogni e territori quale contributo, seppur parziale, possiamo sviluppare? Forse ancor prima dovremmo chiederci: l’ontologia materiale si consegna ancora ad una lettura ricompositiva? E’ da qui che partiremo e su cui ci soffermeremo provando a mettere a verifica, nei mutati paradigmi di sfruttamento, l’operaismo come bussola politica. Non come prova di fideismo politico verso un operaismo che ci ha mostrato come «la continuità della storia del movimento operaio rivoluzionario è la storia della sua discontinuità, delle cesure radicali che in esso si danno» Aporie del dispositivo precario La cassetta degli attrezzi affinata dal conflitto sociale italiano ha indubbiamente permesso e premesso l’evidenziazione e la costruzione di sbocchi politici fondamentali[2], ciò nonostante di fronte alla mattanza sociale oggi in atto sembra mancarci la delineazione di paesaggi inediti dell’insorgenza sociale. In Italia le lotte stanno sicuramente pizzicando segmentazioni di classe ma la dimensione rivoluzionaria e l’affermazione del desiderio collettivo sembrano ricadere su di una fetta ancora marginale di iper-proletariato[3]. Analizziamo in questo senso i dispositivi di sfruttamento per poter sviluppare leve di scardinamento degli stessi. La condizione precaria oggi trasportata verso la sua massima dispiegazione, guadagna il sancimento formale di una totalizzazione materiale (peraltro quasi totalmente pre-esistente ad essa); con il Jobs Act la flessibilità defluisce definitivamente in ogni interstizio del mondo del lavoro grazie all’iniziativa renziana che si pone nel contro-e-oltre, come negazione determinata e superamento, della proto-precarietà: la sanzione istituzionale della trasformazione coincide con il pharmakon[4]-padrone della standardizzazione precaria come vera e propria uberprecarietà che necrotizza definitivamente i tessuti della stanzialità ad oggi a stento sopravvissuti. Il dispositivo precario che, tanto propulsiona l’interesse (nell’ossessiva ricerca della colonizzazione economica e della conflittualità regolamentata) tanto si proietta come dissimulazione ideologica allo stato puro, più viene demonizzato e riformato, più specularmente cresce ed affina le sue armi; se l’inserimento della precarietà funge da mancanza e perversione psicotica, la sua progressiva eliminazione coincide con il fagocitamento totale dell’altro[5], «essa viene sacrificata affinchè l’unità del logos venga ricomposta»[6]. Ogni sovrainterpretazione del ceto politico come ingannatore è inadeguata nell’analizzare il riformismo di Renzi, il quale effettivamente opera nel nome dell’annientamento di ciò che conoscevamo come flessibilità, distruggendo, con il Jobs Act, lo stato d’eccezionalità del dispositivo precario per normalizzarlo catarticamente nella sua diluizione velenosa; il dispositivo terrorista del precariato assume tratti cristologici e sprazzi di elementare dialettica hegeliana sacrificandosi nella purezza spietata del suo strutturale stato d’eccezionalità per la redenzione del totalmente altro: la transustanziazione precaria come morte ed infiltrazione nelle maglie del restante che partorisce una terza figura necrotica, uno zombie. Una perfetta operazione di double bind[7] che traccia la mobilità dell’esclusione[8], una triangolazione patologica della mancanza indotta dove la dislocazione di un flusso malato, di un fuoco di paglia è il primo passo per l’emergere di un suo antidoto: il paradigma precario. Del resto «Iniettarvi la mancanza, la penuria, la rarità, (è un’) operazione indispensabile per aver presa sui corpi […]: dal momento che manchi di qualcosa, non potrai che fondare le tue richieste che su questa mancanza»[9]. Biocapitalismo borg e diversificazione coatta Il capitale, nell’eterno ritorno del suo attacco, nel suo rapporto fantasmatico e surrettizio rispetto alle soggettività inglobate in esso e di esso forzate promotrici, ha vissuto dell’agitazione operaia come spinta cinetica propedeutica alla propria innovazione. Se «la società (del capitale) si mantiene in vita non malgrado il suo antagonismo, ma tramite esso»[11],, la necrosi padronale dei tessuti di ri-produzione collettivi è una sussunzione delle forme di vita che si pone il problema della loro potenza produttiva: una potenza come imprescindibile terreno di agganciamento speculativo che pone, suo malgrado, l’ambivalente e scivolosa caratteristica di un’espansione incontrollata ed autonoma. Più la portata della produzione collettiva e della potenza soggettiva apre campi di fuga dal capitale (o piuttosto una rideterminazione forclusiva[12] delle vite invase dai dispositivi biopolitici) più questo scommette sulla propria estinzione come riarticolazione delle forme di accumulazione ed allargamento degli orizzonti di colonizzazione; questo difficile equilibrio è il terreno di sostentamento insostituibile di un capitalismo che affronta la divaricazione tra ricchezza sociale e rendita proprietaria, cioè l’estendersi della crisi come strumento di attacco verso forme pericolose di massificazione rivoluzionaria oltre che come rigenerazione del proprio organismo nella rideterminazione puntuale del comando sull’eccedenza produttiva e la spinta autovalorizzante. Il rapporto lotte-sviluppo assume quindi entro il contesto biocapitalistico un consistente squilibrio che mina alla base il range di sostenibilità e governabilità: se, morto ogni confronto dialettico, si pone l’affermazione della nomadicità e dello strabordamento del general intellect come irriducibile esigenza di sottrazione e materialistica scissione, il nemico si pone l’eterno problema di mettere a valore (rendita) la nuova irriducibilità proletaria eludendone i tratti sovversivi. Sta tutto nell’attivazione perpetua e nella sua governance calibrata, nelle autonomie soggettive come scomposizioni politiche e direttrici economiche. Se l’economicità traghetta l’accumulazione verso la speculazione dei movimenti di agitazione degli atomi iper-proletari, la dritta politica è la repressione sistematica di ogni passo affermativo degli strumenti di autonomia nei confronti dei canali di governo iper-capitalistici attraverso il rovesciamento del diktat nemico dentro a quegli spazi che le nostre soggettività tracciano ma non riescono ad occupare. Economia politica della differenza come inserimento di corpi estranei, di frangiflutti all’interno del flusso continuo e collettivo della forza-invenzione «simulando false piccole autonomie e originalità esteriori: di superficie»[13], come odiosa pratica di amministrazione propulsiva dell’esistente; patterns per la fluttuazione produttiva dell’espansione diversificata. La realtà dell’iper-proletariato è quella di una straordinaria differenzialità purtroppo ancora coagulata nella mera individualità; la bioaccumulazione si pone la questione della differenzialità proletaria rovesciandone l’orizzontalità sovversiva nella psicotica verticalizzazione compartimentata: la fabbrica biocapitalistica trasforma differenzialità in diversificazione propulsiva ed individualizzata. L’arma del capitalismo borg, micidiale assimilatore e trasformatore di energia politica nemica (precaria) in vettorialità favorevole (capitalistica), si struttura come Biorank, come «meta-algoritmo destinato a classificare il vivente e a incasellarlo in scompartimenti di sfruttamento integrale privandolo della sua singolarità»[14]. Diversificazione parametrata contro molteplicità differenziale rizomatica. La lettura tendenziale della precarietà assume sempre più sostanzializzazione concreta, il dispositivo biocapitalistico coordina un’ontologia precaria che tragicamente agita la propria soggettività differenziale (necrotizzata in individualità diversificata) come volano dell’accumulazione, dell’impoverimento collettivo e della messa a valore del bios; la differenzialità è così colonizzata ed assimilata. Di fronte a tutto questo come possiamo rendere il nostro linguaggio cooperativo, permanentemente captato e assimilato dal capitale borg, in astrusa intraducibilità? Facciamo tappa nelle fabbriche nemiche. Le fabbriche delle soggettività come terreno di scontro Il tema, inflazionato e perennemente affrontato, è ancora quello della soggettività, del «soggetto (come) campo di battaglia»[15], nell’orizzonte di una contesa tra assoggettamento capitalistico ed autoformazione insorgente. Inchiestiamo l’organizzazione reticolare ed immateriale della fabbrica biocapitalistica come fonte di produzione di mondi, soggettività e forme simboliche provando ad immaginare forme di sciopero e sabotaggio della vita messa a valore, della vita come forma-merce. Linea di fabbricazione 1 – Individuo e assoggettamento Il soggetto, nel salto che lo ha condotto, stiracchiato e riproiettato in dimensioni eterogenee (dall’operaio-massa al precariato), coimplica liquidamente il proprio statuto ontologico con il mondo di cui è partecipe; la soggettività non scivola sul lucido piano del continuum ma, rimbalzando opacamente, determina stacchi e salti che riverberano diacronie e distonie. L’epidemica colonizzazione proprietaria del soggetto e delle sue pratiche ci pone il problema di significare partigianamente la questione dell’assoggettamento (eterodirezione nemica e biopolitica) e della soggettivazione (dispiegamento autonomo della potenza iper-proletaria e dei suoi bi-sogni) alla luce dell’assujetissement foucaultiano che sposta la territorializzazione capitalistica delle forme simboliche collettive verso la costituzione del soggetto, la genetica soggettiva dell’«assoggettamento in quanto costituzione dei soggetti»[16]. Tocchiamo un punto delicato nel fotografarci in un rapporto coestensivo di assoggettamento sia in termini di subordinazione che in termini di genesi soggettiva tout-court[17]; l’assoggettamento si prospetta come identificazione, come rapporto di significazione e battesimo che ci plasma nel solco della predestinazione pre-soggettiva. Nella bioproduzione siamo fissati nella strozzatura circolare perpetua della nostra vita come eterno sì all’interpellamento che Althusser identifica nell’allocamento ideologico assoggettante; la risposta all’appello porta «all’esistenza colui al quale è rivolto»[18], ed è un atto performativo di dominio ed assoggettamento. Con il dominio inscritto nella costituzione del soggetto e la produzione dell’individuo incasellato, l’assoggettamento sembrerebbe fortificarsi invischiandoci nella pericolosità di una sua apologia come meccanismo perpetuamente riprodotto e leviatano demiurgico di mondo e soggetto; l’attestazione brutale dell’invalicabilità della circolarità, meccanicamente riprodotta come anteposizione, lascia su di noi le tracce di un’incrementazione (socio-politica) del peso della normatività e della significazione biopolitica. L’assoggettamento costituente come etichetta della produzione soggettiva capitalistica, nell’organizzazione reticolare della diversificazione, in-forma individualità che castrano la soggettività; una costituzione statica e tendenzialmente eterna che si scrolla di dosso ogni potenza costituente dinamica: ogni carattere rivoluzionario è sradicato. L’alienazione che oggettivizza e reifica il soggetto si pone oggi non solo in merito al lavoro morto ma direttamente alla propria catena riproduttiva, salta il supporto fantasmatico del lavoro morto ed oggettivato: il soggetto è estraneo a sé stesso riscoprendosi espropriato nel momento in cui si legge (ed è interpellato) come individuo, come prodotto dell’assoggettamento: alienazione come contrapposizione dell’essere depotenziato (individuo) alla pienezza ontologica (soggetto). Se«funzione di ogni ideologia è quella di costituire individui»[19] il dispositivo ideologico capitalistico castra soggetti per produrre individualità; la costituzione, intesa come creazione/interpellamento di soggetti, ci consegna nella contingenza storica un potenziamento collettivo tale da pre-fissare il soggetto come elemento e propulsore di una ricchezza sociale estesa. La reversione nemica indietreggia il soggetto del montaggio collettivo e differenziale fino all’individualità ed agisce l’opzione individuo-soggetto come scelta di investimento politico; da ciò la scommessa politica precaria del: soggetto su individuo, soggetto dentro rizoma collettivo differenziale. Il soggetto collettivo del Noi come innervazione collettiva sul tessuto impazzito e rizomatico della soggettivazione differenziale. Accertate alcune condizioni di possibilità della fabbrica di soggettività (circolazione perpetua e chiusa di interpellazione-riconoscimento, individualizzazione assoggettante e ripetizione coatta ed innocua della diversificazione), facciamo un passo indietro e torniamo a sondare il terreno della soggettività attraversando il marchio di costituzione e la clausola di dominio del soggetto recuperando la soggettività con il peso determinante e gravido di conoscerne la rifrazione nemica, la sua fabbricazione. Sviluppiamo il sabotaggio. Sabotaggio 1 – Soggetto e (auto)soggettivazione Se l’assoggettamento, nei termini sovradescritti di produzione ontologica, depotenzia il general intellect ed i soggetti iper-proletari in ricevitori individualizzati, cerchiamo di inchiestare il sabotaggio dentro l’autovalorizzazione autonoma delle soggettività differenziali precarie. Arrivati al campobase dell’assoggettamento come genesi-genealogia-costituzione ed al rischio di una sua giustificazione teorica, proviamo a ricondurre la pratica sovversiva allo stesso dispositivo di potere che, non esternamente aggredibile ma postmodernamente sganciato dal rapporto dentro-fuori, sussume la propria sovversione: esatto, lo sganciamento insurrezionale foucaultiano non come impossibilità ma come ripetizione rovesciata nemicamente contro la propria genealogia. Potere contro trascendenza, falla dentro il movimento logaritmico di assimilazione-dominio. Nell’assoggettamento reiterato e permanentemente inaugurale, la deterritorializzazione dello stesso apre possibilità alla sua destituzione: «l‘apparato disciplinare genera soggetti (individui)[20], ma come conseguenza di tale atto generativo porta nel discorso le condizioni per il sovvertimento dell’apparato stesso»[21], il dentro-e-contro progressivamente trasmuta trasfigurando mostruosamente il rapporto in una perversione potenzialmente distruttiva; nella sussunzione totale si aprono decisi spiragli sovversivi, pieghe dove scorrere e moltiplicarsi, «spingere le cose al limite dove “del tutto naturalmente”[22] esse si capovolgono e si sfasciano»[23]. Le soggettività, sviluppando l’appropriazione di un’insorgenza che rompe il processo circolare dialettico lotte-sviluppo/assoggettamento-disciplinamento, aprono la faglia attraversabile del grande rifiuto, dell’indifferenza e della diserzione nei confronti dell’interpellazione ideologica[24]; prende forza il fascino di una scommessa sull‘«immaginario come possibilità permanente di non-riconoscimento, ovvero sull’incommensurabilità dello spazio tra domanda simbolica (il nome che è stato interpellato) e l’instabilità ed impredicibilità della sua appropriazione»[25]: nella ripetizione fallata leggiamo il mancato riconoscimento come liberazione e smarcamento. Grande rifiuto come lavoro politico di costruzione piuttosto che catastrofismo teologico, come ostacolo ai meccanismi di trascinamento individualizzato articolato nella contesa del campo e nella concentrazione su di un rapporto di forza traslato trascendentalmente[26] (accumulazione di alterità ed estraneità ostile proletaria) in non-rapporto e soggettivazione obliquamente aliena. Separazione unilaterale, scissione e conflitto autonomo, rivoluzione. Al movimento ideologico ed alla sua domanda permanentemente organizzata nell’appello, nell’interpellazione ed a fianco della dislocazione dal suo campo operata dal grande rifiuto, moltiplichiamo le nostre domande, bersagliamo il significante nemico di fuochi fatui, moltitudine di appetiti abnormati; l’inappellabilità al senso dell’assoggettamento assume i tratti di una soggettività nomade, sans papier ed indisponibile all’eterodirezione. Dentro il lavoro di dilatazione e divaricazione della ripetibilità nella traslazione differenziale rivoluzionaria, non possiamo non inserire elementi che spingano i passaggi a riprodursi fuori dalla predeterminazione nel non-riconoscimento e nella liberazione dall’appello alla forma individuale; questo significa lavorare su falle aliene per una tessitura sovversiva che trasformi l’assoggettamento capitalistico in soggettivazione comunista e che sfasi, deturni e trasli il movimento induttivo della ripetizione assoggettante in rizoma di soggettivazione differenziale. Prosopagnosia[27] come orizzonte del sabotaggio iper-proletario nell’assalto alle circonvoluzioni spazio-temporali del dominio reticolare. Rifiutare la normazione è soggettivarsi all’interno di un orizzonte collettivo rizomatico, è lottare insieme. Un lavoro politico come rottura insorgente che faccia si che l’eccezione-che-conferma-la-regola sia la stessa capace di abbattere e colpire l’ingiunzione stessa, la costruzione di una «risoggettivazione individuale e collettiva per fini autonomi e non sistemici»[28] che attraversi l’inceppamento di un performativo destinato alla ripetibilità infinita ma sabotato nella sua stessa perenne continuità immodificabile: una convulsione del rapporto di potere tale da delirarlo nella riconversione in potenza immanente di classe. La nostra disarticolazione dell’assoggettamento si fissa nella lettura propulsivamente catastrofica dell’assimilazione; l’internità organica e costitutiva al nemico ed il sancimento di un annichilimento del nemico si traslano nell’autoimplosione, nell’esodo, ossia il soffocamento del sistema capitalistico tramite i nodi che tristemente lo tengono in gioco: l’iper-proletariato e le sue soggettività rivoluzionarie. La determinazione materiale della soggettività rende il non-riconoscimento e la reiterazione inceppante delle importanti forme insorgenti attraverso l’introiettamento della tragica verità di una soggettività necessariamente appaiata ad un segno (colonizzazione o autovalorizzazione) e riconoscendo nelle soggettività espropriate, anzi costituite, dal capitalismo un segno chiaramente nemico: solo riconvertendolo immediatamente in potenza proletaria ed espansione rizomatica comunista disinneschiamo l’assoggettamento nemico. Il sabotaggio sistematico delle nostre vite (individualizzate e messe a valore) e del sistema di produzione nemico di soggettività si sostanzializza in scommessa politica: dislocare l’insubordinazione nelle viscere della coercizione disciplinare cui siamo costretti, superando, battendo e rovesciando la contingenza in contropotenza autonoma[29]. Se la soggettività, rovesciando la potenza nello squarcio eterotopico prodotto nella-e-dalla contraddittorietà permanentemente coercitoria, rompe la catena che rende il soggetto kafkiano accumulatore di potere nemico, il signor agrimensore[30] può raggiungere il castello o andarsene eludendo il vettore di accumulazione che lo costringeva all’immobilità politica: il circolo vizioso giace così in pezzi. La battaglia degli individui è la battaglia per la conquista dei soggetti dentro un passaggio di ammiccamento differenziale imprescindibilmente collettivo: costruire, abitare, pensare la soggettività. Se abbiamo con difficoltà verificato l’individualizzazione come segno di colonizzazione nemica ed alienazione collettiva, la soggettivazione si pone come arma delle differenze e leva proletaria. Contro la linea di costruzione individuale predeterminata e la sua rapina della ricchezza linguistico-cooperativa collettiva, «il ritorno al soggetto è dunque il punto di partenza della negazione del rovesciamento nell’oggetto»[31]: soggettivazione, si tratta ancora di questo. Soggetto su individuo, soggettività e differenzialità in un amplesso di appaiamento affermativo. L’alterità smarcante ed autonoma dell’ontologia precaria fanno assumere alla stessa un «carattere di in-assoggettabile presenza»[32] ossia un elemento che, sottraendosi a qualunque identificazione, si qualifica costituivamente come radicale ed immanente potenza selvaggia: «il soggetto sfugge sempre alla presa, ed e questo suo rischiare l’identità che ne fa un soggetto»[33]. La sfida è vivere l’intervento politico come lavoro vivo, scienza e sapere precario vivo che si pongano come condizione di produzione di soggetti. Punto pericoloso. Produzione di soggetti evidentemente intesa come dispiegamento libero, immanente ed infinito delle differenzialità invece che loro presupposizione e predeterminazione; contrapporre alla tristezza individuale, giocata ed agìta contro noi stessi, la potenza della ricchezza soggettiva nella sua libertà affermativa ed estensione rizomatica. Volgendo lo sguardo alla postmodernità del dominio che estorce ad ogni referente la propria temporalità risignificandola in un flusso indeterminabile, scongiuriamo ogni possibile ritorno alla dimensione lineare dell’elemento puro divenuto corrotto grazie all’azione di un elemento estraneo e scavalchiamo ogni banale ricerca del ciò-che-si-è-davvero; torniamo al punto. La trasformazione politica che agendo sul terreno individuale apre quello soggettivo, non ha i tratti della concrezione e della vettorialità ma quelli della deflagrazione e dell’estensione; il soggetto è soggettività, e dunque differenza intrinseca, infinità che lo delira e deflagra nella realtà della composizione materiale sociale odierna. Dobbiamo lavorare per l’esplosione delle soggettività differenziali, oggi castrate individualmente. La rottura dell’appello assoggettante e della valorizzazione biocapitalistica potrà svilupparsi solo come riproduzione differenziale, altrimenti ogni parametro, ogni omogeneità ci farebbero ricadere nella logica dello scontro frontale e dell’assimilazione borg[34] invece che in quella della sottrazione radicale, del conflitto come deflagrazione del Piano[35], come insubordinazione e contropotere di massa. Soggettivazione come sfida politica da intraprendere nell’organizzazione precaria, ed antagonismo sociale come scienza rivoluzionaria, tecnologia del sé e percorso di autosoggettivazione collettiva delle nostre differenzialità; insomma una grammatica rivoluzionaria che riacquisti consapevolezza di inserirsi nel difficile, ambiguo ed esteso processo di soggettivazione come costruzione-riappropriazione dell’essere-soggetto e come affermazione di potenza sociale ed ontologica. La rottura della governabilità differenziale spinge il discorso della tecnica rivoluzionaria nell’autosoggettivazione; l’irriducibilità comunista si evolve ed avviluppa attorno a quella differenziale in spirali che avvertono la frattura rivoluzionaria dello spazio-tempo. La piattaforma politica del conflitto contro il biocapitale e per la liberazione di saperi, corpi e vite vede la strozzatura di un abbordaggio del soggetto nel sabotaggio dell’assoggettamento capitalistico, la diserzione sistematica delle figure normate in cui la squallida individualità rituale e diversificata trova rigoglioso terreno di fermentazione: riappropriazione della soggettività dentro la costruzione di un propulsore della differenza ontologica. Ora che ridondiamo di ipotesi teoriche, possiamo apprezzarne le vibrazioni ed i contraccolpi: uscire dall’alienazione biocapitalistica non può risolversi nella costruzione del soggetto, sicuramente non di un soggetto pieno quanto di un movimento, un passaggio che macina il soggetto e lo deturna eccedendolo nella complessità della differenzialità collettiva; praticare il conflitto e dispiegare il contropotere vuol dire allora scorgere il soggetto ed al contempo rinfrangerlo assillandolo nella differenzialità. Il comunismo supera ed accelera il soggetto ponendolo, nella sua riscoperta, come corpo effimero. Lo strappo eterotopico ci riporta ad una soggettivazione come pratica, come conflitto che, nella e per la differenza, afferma collettività. La fabbricazione dell’individualità è lo scoglio che si pone alla costruzione di soggettività antagoniste, all’interrelazione come piattaforma di costruzione della massificazione differenziale. Ad individui corrispondono bisogni negati e soggetti castrati, a questi l’odio irriducibile delle soggettività iper-proletarie. Linea di fabbricazione 2 – Mondifabbricazione, scheletro spazio-temporale e dominio simbolico Dopo esserci scontrati con la fabbricazione nemica di soggettività (individualità) ed avendone inchiestato il sabotaggio, proviamo ad allargare la prospettiva nella dimensione simbolica consci della forzatura di una netta distinzione tra queste due sfere della fabbricazione biocapitalistica. La coimplicazione calibrata tra agenti, mondi e linguaggi più che assoggettamento ex-post[36] risulta radicalizzazione ontologica del dominio e coagulazione di un corpus costruito e sviluppato nelle tecniche, nelle pratiche e nei dispositivi. Ecco la sfaccettatura inaspettata nell’esplorazione genealogica dell’assoggettamento e del worldmaking[37] che indaghiamo al fine di svilupparlo come cuneo di riarticolazione e scienza precaria. La produzione di reale e mondi, l’economia della simulazione, è più che storytelling; Giustiniano a testa in giù e res sunt consequentia nominum[38] nella sua forma più cruda: un reale performato che il dispositivo padronale, come nomoteta[39] elevato ad uniNoi siamo i Borg. Abbassate i vostri scudi e arrendetevi, assimileremo le vostre peculiarità biologiche e tecnologiche alle nostre, la vostra cultura si adatterà a servire noi. La resistenza è inutile![10]