Questo scritto nasce come commento al testo di Achille Mbembe “Brutalisme” (Editions la Découverte, 2020), di cui non si ha l’ambizione di riportare l’ampiezza di ragionamento e la vastità dei contenuti, e come prosecuzione del percorso intrapreso nel testo “Un popolo che abita”. Sebbene questo testo sia autonomo, alcuni dei temi che lì erano accennati sono stati qui ripresi; elementi lì sviluppati più diffusamente, qui sono soltanto accennati.

 

Senza speranza non è la realtà, ma il sapere che – nel simbolo fantastico o matematico – si appropria la realtà come schema e così la perpetua.”

M.Horkheimer, T.W.Adorno, La dialettica dell’Illuminismo

In questo commento mi propongo di accennare a qualche linea di indagine su una tesi che mi pare centrale riuscire a dimostrare, per dare luogo ad una forma di “ecologia politica del comune”. Questa è la tesi: “comune può essere solo ciò che si abita”. Essa non può, naturalmente, venire qui dimostrata per intero, e risulta quindi in buona parte una provocazione. Il testo di Mbembe al cui margine scrivo le seguenti pagine è però utile per chiarire qualche elemento.

Che il sogno di una parte (quella vincente) dei moderni sia l’appiattimento del globo e di tutte le sue componenti, nessuna esclusa, a uno spazio liscio senza zone d’ombra dato al dominio è quanto di più indubitabile ci sia almeno da quando uomini come Cortes e Pizarro, scesi dalle loro navi, hanno rivolto il loro sguardo verso l’orizzonte di una terra che a loro non era nota nella sua conformazione, eppure come già tutta disposta al loro sguardo. La riduzione è un’arma potente, più degli archibugi e dei cavalli, per gli spagnoli. La cartografia nasce, più o meno negli stessi anni, precisamente come astrazione, riduzione dell’orizzonte a linee stilizzate utili. Chiamare “autistico” l’atteggiamento di chi ritiene che i medievali non facessero cartografie perché “meno avanzati” significherebbe non comprendere l’autismo, che è piuttosto una continua attività di creazione di immagini, una indefinita uscita “fuori” di sé, una creatività portata al suo limite estremo. Chi accusasse i medievali di stupidità, non sarebbe autistico, ma “Narciso”: non vedrebbe, in tutti, che sé stesso.

Eppure, la cartografia è il mezzo con cui gli spagnoli “battono” gli Aztechi: in generale, ciò che determina la loro superiorità, come dimostrato da Cvetan Todorov nel capolavoro La conquista dell’America. Il problema dell’altro, è la loro capacità di raccogliere informazioni. Quello che Todorov non dice è che condizione di possibilità della raccolta di informazioni è il potersi muovere nel mondo dove queste informazioni si danno per essere colte; movimento possibile se si concepisce quello spazio mondano (di cui fanno parte umani e non umani) come pienamente dato alla vista, senza coni d’ombra. Montezuma, il signore dell’Impero Azteco, si perde su questo: per lui, gli spagnoli sono un mistero. Egli non può toccarli: forse sono dei, tutti quanti; forse Cortes è il dio Quetzalcóatl che torna dal suo viaggio al di là del mare; forse i loro cavalli non possono morire; bisogna lasciarli fare, sperare che se ne vadano, sperare che i nostri dei ci dicano qualcosa. Non sappiamo cosa sono, quindi non possiamo fare nulla. È noto che se gli Aztechi avessero potuto – cioè se il campo della loro esperienza fosse stato aperto all’evento della Conquista –, avrebbero massacrato l’intero corpo di spedizione spagnolo nel giro di qualche giorno, nonostante i suoi archibugi, i suoi elmi e le sue carte. Si dice che il grande imperatore degli Inca, anni dopo, non abbia quasi opposto resistenza agli uomini di Pizarro mentre stringevano intorno al suo collo il ferro della garrota. I moderni psicologi, studiando i resoconti indigeni e dei missionari cristiani, hanno parlato in modo forse non esatto ma significativo, di forme di depressione di massa, che colpì in primo luogo i signori di questi popoli.

Sono le informazioni che gli spagnoli riescono a ottenere, a differenza degli Aztechi, che danno loro quel vantaggio che gli ha poi consentito di massacrarne col ferro e con il fuoco i figli, gli anziani, le donne e gli uomini considerandoli come bestie, di metterli a morire nelle miniere, di infettarli con le loro malattie sterminandoli a milioni. Informazioni in parte coglibili proprio a partire da quel meccanismo di riduzione cui accennavamo (come la cartografia).

Non l’intero meccanismo di conoscenza occidentale è fondato sulla riduzione, né l’Occidente si risolve in questa operazione fondamentale. Sarebbe ridicolo sostenerlo. L’operazione stessa della critica, ad esempio, consiste nel valutare un oggetto preso nella sua più radicale complessità (il che non significa che la critica sia un empirismo assoluto: ma sono temi qui non affrontabili). Allo stesso tempo, che la riduzione sia necessaria è evidente: ogni scienza si fonda su una preliminare operazione di riduzione. Fino a quando non si crede che questa riduzione restituisca la realtà per come essa è nella sua interezza, l’utilità e l’importanza della scienza, la quale peraltro spesso assume la capacità di “pensare” rendendosi perfettamente conto del suo essere “astrazione”, rimane indiscussa.

Che gli studi postcoloniali abbiano mostrato però come il dominio sui territori al di là del mare sia fondato sulla riduzione sistematica, ad esempio, dei territori a “spazio per le piantagioni”, a spazio assolutamente neutro, svuotato di ogni qualità, è un dato di fatto. Colonizzabile è solo ciò che è disponibile al controllo, cioè ciò che sì da come spazio su cui il limite è dato solo dall’interno di chi agisce (ad esempio, il suo morire). Spazio senza limiti, perché senza caratteristiche; spazio piano, assolutamente dominabile.

Per Achille Mbembe tale processo di colonizzazione giunge oggi ad uno stadio ulteriore. Se in Necropolitica la questione era come si dà una politica dell’uccisione a fianco (ma comunque fuori) di una politica della vita (Biopolitica), in Brutalisme il tema è piuttosto come sul piano del globale si dia ormai una politica della morte dappertutto. Questa morte emerge, ma solo al suo livello più evidente e globale, con la crisi ecologica: essa è una specie di vendetta del ridotto, di ciò che per secoli è stato sempre e solo cartografato.

Tale espansione della morte dappertutto si fonda però su un’operazione preliminare, che Mbembe chiama “divenire Negro del mondo”. Tutto il mondo è ora disposto sotto quello sguardo coloniale originariamente rivolto più che altro al “fuori” dall’Occidente. Per mondo non bisogna intendere solo un insieme di territori astratti dagli umani e i non umani che li abitano (o che provano ad abitarli). Brutalismo è infatti l’applicazione di questo pathos per la demolizione e la produzione applicato anche agli stessi corpi: sono questi ultimi che divengono pura materia (nel senso che gli occidentali danno a questo termine) disponibile al profitto e all’entrata nella circolazione globale della merce. Il testo di Mbembe è strutturato non su un ragionamento teoretico (che è quello che qui interessa e che proviamo a riprendere dalla lettura), ma su diversi esempi concreti. Uno di questi, a proposito del corpo, è quello del biolavoro, per Mbembe segno di questo “divenire Negro” del mondo: i corpi, già razzializzati, vengono messi al lavoro nella loro stessa dimensione biologica (produttori di plasma, di feti, di sangue). Divenire Negro non significa altro che divenire disposto ad un’azione illimitata e sostanzialmente s-radicata che tratta l’oggetto (ciò che essa stessa considera tale) del suo agire come mera risorsa. Senza questa disposizione originaria, come già Jason Moore ha mostrato, non può darsi né capitale, né (come questo libro e il post-colonialismo mostra da decenni) colonia. Oggi, il mondo stesso è colonia, in questo rapporto così stretto tra produzione e distruzione, su cui conviene dire qualche parola. Questo nesso è il vero cuore del Brutalismo di cui parla Mbembe. Questi due momenti, sono intimamente legati. Produrre significa distruggere; giacché la produzione del brutalismo non è che la realizzazione più radicale dell’idea per cui non vi è alcun fuori, non vi può essere mondo o spazio altro da quello dato alla produzione stessa. Nulla è inappropriabile. Giacché però la produzione si dà sempre in un mondo che di fatto le resiste, perché essa possa avvenire vi deve essere distruzione. Inoltre, in quanto la produzione non è pensata come “lavorazione”, “trasformazione” dell’oggetto dato riconoscendo però la dipendenza di questa operazione dal fondo “naturale” del mondo, produzione può essere solo annullamento del dato. È il meccanismo che descriveva negli anni ’30 del ‘900 Alexandre Kojéve, lodandolo e considerandolo il cuore dell’umanità stessa nell’uomo. Produrre significa così divorare, sbranare, spezzare l’alterità. Non si tratta di nulla di diverso rispetto a quanto descritto, già da secoli, dall’operazione di colonizzazione. Ancora una volta, inoltre, è chiaro come ecologia e lotta al colonialismo si saldino: esse sono quasi la stessa cosa, sono la medesima lotta portata a livelli differenti. Se lo sguardo e l’azione coloniale si allarga su scala globale, la lotta anti-coloniale, che è prima di tutto lotta contro questa mostruosa macchina che produce-distrugge, diviene anche essa globale.

È indubbio che il lavoro di Mbembe sia più avanzato, da un punto di vista teorico-ontologico, che pure gli compete in minor misura, di quello di molti “studiosi” più interni alle università occidentali. Prova ne sia l’identificazione, da parte di Mbembe, di un nuovo problema: quello dell’abolizione del dualismo natura-cultura come mezzo per la distruzione. In Italia Luigi Pellizzoni ha ben mostrato questa dinamica, anche qui, su Effimera. Il progetto di un mondo senza alcuna esteriorità inappropriabile è reso possibile proprio dal fatto che questo processo Brutalista sa benissimo che non vi è dualismo tra natura e cultura, ed anzi ne gode. Che la tecnologia possa divenire il destino ontologico di quanto, un tempo, veniva considerato naturale, è possibile solo se quella natura e quel mondo dell’artificio vengono unificati radicalmente, senza porre alcuna differenza o alcuno “scalino” tra di essi. Chi pensa che l’ecologia sia la lode dell’ibrido, della continuità natura-cultura e si ferma a questo, non si rende conto di stare facendo lo stesso ragionamento di un sistema globale che, un tempo, aveva reso possibile lo sfruttamento della natura proprio perché la relegava in uno spazio “altro” rispetto a quello dell’umano. Oggi la catena del valore si fonda, ontologicamente, su un monismo fondamentale: senza questo monismo, è del tutto evidente, non potrebbe esserci biolavoro. Il biolavoro è precisamente l’idea che tra umanità e la materia (concepita sempre attraverso le lenti moderne, che la relegano a mero oggetto) non vi sia alcuna distinzione. Mbembe chiama questo monismo “animismo” quando esso si manifesta con l’idea secondo cui il reale sarebbe una serie di reti “virtuali”, completamente dominabile attraverso l’algoritmo dei big data. Il reale come generazione ininterrotta di ogni sorta di flussi. Lo avevamo detto: il riduzionismo è un’arma potente. È come se quell’idea di “Natura” moderna (oggetto, risorsa, ente disponibile) fosse stata allargata all’intera scala dell’essere. È chiaro come da questa impasse ci siano uscite radicalmente diverse tra loro: si può ripristinare l’antico dualismo (in realtà, da alcuni punti di vista qui non riportabili – ad esempio sulla questione dell’Antropocene – mai abbandonato) oppure si può cercare di ripensare la continuità natura-cultura senza assolutizzarla, ristrutturando il significato di entrambi i poli per mostrarne la relativa continuità. Questa seconda strada è quella scelta da Mbembe con il concetto di “inappropriabile”. Natura è ciò che fonda l’attività degli umani e dei viventi; ma essa si costituisce come fondo inappropriabile, pena la distruzione di quella medesima attività. È vero che noi siamo natura, ma la nostra posizione (parziale – “situata”) ci pone sempre all’interno di un orizzonte che non possiamo dominare e che nemmeno possiamo cogliere interamente, un’ecumene. Mbembe parla della Terra come spazio comune non appropriabile. Il Brutalismo è precisamente questo tentativo di dominio; la crisi ecologica ne è, in qualche modo, l’esito. Da questo punto di vista, sia detto per inciso, è certamente curioso e significativo della non importanza che si attribuisce alla questione del rapporto soggetto/società – mondo della vita/mondo naturale che alcuni, anche e soprattutto a “sinistra”, abbiano colto l’occasione del COVID19 per riflettere su quanto anche i processi più radicalmente biologici siano “dentro” al capitalismo globale, quando è piuttosto evidente a chiunque l’esatto contrario: è il capitalismo globale che si rivela dentro a una “rete della vita” che lo precede e lo rende possibile e con la quale esso interagisce, scatenando anche quanto abbiamo vissuto in questi mesi. La “logica” del Capitale si realizza sempre in un mondo naturale.

A questo proposito è importante sottolineare come centro, non nel senso di punto di origine causale ma piuttosto centro “virtuale” di questa rete di “senso” che è il Brutalismo, rimane il modo di produzione capitalistico. Nulla si capisce, per Mbembe, di questo immane fenomeno se si prescinde dalla critica dell’economia politica. È la circolazione globale della merce e il processo di valorizzazione “l’ago” del movimento di morte che è il Brutalismo, il suo sub-strato. La sottomissione del corpo umano e genericamente terrestre alla catena del valore ha senz’altro un’origine che non è riducibile al modo di produzione capitalistico medesimo (questo testo è essenzialmente sullo “sguardo coloniale”, su cui in questo e nello scorso testo abbiamo speso molte parole), ma esso rimane ora il fulcro intorno a cui questa dinamica tecnicamente infernale ruota; è naturalmente questo l’elemento su cui si gioca l’eredità foucaultiana di Mbembe. Non vi è una catena causale che spieghi ogni fatto, alla cui origine sta il modo di produzione; quest’ultimo piuttosto seleziona, sceglie, rafforza processi già in atto e permane come uno dei centri di tali processi. Il Brutalismo non è una “propaggine” della storia del capitalismo, ma il secondo è in ogni caso imprescindibile per la comprensione del primo.

Luogo privilegiato in cui analizzare questo allargamento della Necropolitica al piano globale è, per Mbembe, lo studio del fenomeno migratorio. Cos’è esso, in molti casi, se non l’esito della distruzione di qualsiasi chez soi da parte delle operazioni coloniali ancora del tutto dominanti in un continente come l’Africa? Il Brutalismo non solo distrugge l’abitare dei soggetti che costringe a migrare ma in seguito li uccide, li fa precipitare sul fondo del mare, li elimina come scarti ritenuti superflui. Questa messa ai margini è l’altro lato, in passato già notato dal filosofo africano, della Necropolitica che si dà sul piano globale.

Si pone, a questo punto, l’esigenza di pensare alla rottura di questa macchina di morte globale. Nel testo in oggetto Mbembe parla del tema dell’inappropriabilità, senza però svilupparlo eccessivamente. Mi sia concesso, quindi, di uscire un po’ dal testo e di confrontarlo con un’altra prospettiva, sempre di Mbembe, e con la situazione attuale.

In un recente articolo, Mbembe ha parlato di un “diritto universale di respirare” come novità emergente dalla fase che stiamo attraversando. Tipico del respiro è la non appropriabilità. Esso è universale, attraversa la vita nelle sue numerose forme, ed è necessario. Come leggere questo tema del respiro alla luce di quanto detto?

Respirare può solo chi vive in un mondo che glielo consente, un mondo la cui forma è tale da rendergli possibile il respiro. Che questo nostro Pianeta ci consenta il respiro non è affatto scontato o “naturale”, se per “natura” si intende qualcosa di astratto dalla storia (non tanto storia culturale, ma storia della Terra, storia della vita: tutto permane nel divenire, e non solo perché sia in contatto con l’umano, come pensano i moderni). Tale “mondo” (si intenda, ora con questo, l’unione di umani e non umani, storici, che attraversano gli ambienti di cui è composta la Terra) è sempre in un equilibrio assolutamente precario, che può essere incrinato da fenomeni mastodontici come il Brutalismo. Che oggi la nostra capacità di respirare sia intaccata non è un timore, è un fatto. Gli ecosistemi dell’Olocene sono in buona parte già perduti per sempre; anche Mbembe sa bene che i bianchi hanno tolto agli africani qualcosa che non potranno mai restituirgli. Noi viviamo in mezzo a macerie: non siamo fermi a trenta, quarant’anni fa in cui la crisi ecologica era (almeno per come veniva percepita) un avvenimento a venire che doveva essere fermato. Essa è qui: siamo già nell’Antropocene. Oggi Il Brutalismo, e lo sguardo coloniale che lo costituisce e ne è condizione di possibilità, attacca precisamente questa capacità del respiro. Abbiamo visto come inscindibile dal Brutalismo, e dalla mostruosa macchina produzione-distruzione, sia il modo di produzione capitalistico, che ne è l’autentico motore (sebbene non ne sia l’origine assoluta). Questo modo di produzione, come il colonialismo, è una struttura-mondo che permane sul piano del globo, con le sue differenze interne, e a livelli diversi ci priva di questo “diritto” di respirare. Ma se è così, viene da chiedersi che senso abbia parlare di un “diritto” al respirare. Meglio; cosa significa parlare di un diritto se non vi è forza in grado di esigere il rispetto di esso? Conviene allora pensare, piuttosto, all’ecologia politica critico-radicale come ad una politica del respiro. Cioè ad una politica che abbia la propria spina dorsale nell’istituzione di mondi dove sia possibile respirare.

Non è forse questo quello che l’interezza dei movimenti ecologici, in fondo, richiede? È possibile immaginare un’obiezione a questa lettura. Tale obiezione avrebbe la seguente forma: “non si può costruire una politica del respiro, poiché il respiro è quanto di più generico e universalmente vuoto si dia; tutti respirano, si tratterebbe di una politica senza “parti”, un cosmopolitismo buonista e intellettualistico”.

Questa obiezione contiene al suo interno la propria confutazione: essa permane nell’ambito del dualismo moderno, che separa la generalità e la vuotezza della parte biologica dell’umano dalla sua parte “spirituale”, “esistenziale”, “razionale”. Se c’è qualcosa che il COVID e la crisi ecologica ci hanno insegnato, è che tale distinzione non si dà. Noi siamo sempre nello stesso ambito che è al di qua della distinzione tra bios e zoé. Respirare è certamente l’atto più generico e più universale che vi sia: è proprio questo che viene messo continuamente in dubbio dal Brutalismo, nelle sue molteplici forme. Il processo più “mediato”, più “storico” attacca proprio quanto di più “immediato” e di “naturale” vi sia (mostrando anche la vuotezza di tali categorie). Allo stesso tempo, questo atto “immediato” sembra richiedere, per continuare a darsi, tutta una serie di accorgimenti e di trasformazioni socio-politiche assolutamente radicali. È dal “divenire Negro” del mondo che è emerso il COVID, malattia che letteralmente ferma il respiro un po’ alla volta, esito della devastazione degli ambienti di vita di migliaia di specie nell’Asia centrale; è dal “divenire Negro” del mondo che si è data la distruzione in Australia di milioni di alberi e la morte di milioni di viventi; è dal “divenire Negro” che viene, indirettamente, il fatto che migliaia di uomini, donne, bambini, riposino per sempre sul fondo del Mare Mediterraneo. Questi esempi di “soffocamento” contemporaneo mostrano come certamente non si possa dare un “Manifesto del partito del Respiro”, giacché il Respiro permane inevitabilmente nella dimensione dell’assoluta “immediatezza”, e proprio per questo è così importante. Eppure il tema del respiro è l’elemento che accomuna tutte le lotte al Brutalismo. Non vi sarà mai una politica “riducibile” interamente al respiro; ma ogni politica ecologica pone l’elemento del respiro come suo fondo ineliminabile.

Noi viviamo in questi giorni il dolore e la rabbia, evidente nelle manifestazioni di massa in tutto il pianeta, per la morte di George Floyd, simbolo di coloro a cui non è stato consentito di respirare. Il suo corpo, come quello degli Aztechi da cui abbiamo iniziato, come i territori dei suoi antenati in Africa, era già da sempre dato al dominio dello sguardo coloniale – che Mbembe ci ha insegnato essere anche interno alle “madrepatrie” –, per cui ciò che di più proprio vi è nello spazio e nei corpi è il loro essere “oggetti”, il loro essere disponibili all’azione negatrice. Solo chi non capisce questo può stupirsi e arrabbiarsi che i manifestanti taglino la testa alle statue di Cristoforo Colombo, che lo stesso Todorov ci descrive come primo colonizzatore. Se si ragiona su quanto detto, emerge come, paradossalmente, George Floyd, “oggettivamente” (intendo cioè dal punto di vista dell’universale), piangendo e implorando “I can’t breathe”, non stesse affatto “piangendo e implorando”. Stava lanciando il grido di guerra ad una massa in di soggetti che non ne possono più di respirare male e che vogliono costruire un mondo dove sia possibile abitare e quindi respirare.

Una politica del respiro è però sempre, appunto, una politica dell’abitare. Abitare è l’atto con cui i viventi si rapportano ad un mondo non vissuto come indefinitamente modificabile, ma come fondato sulla non-appropriabilità. Tale spazio in cui si vive (e che viene, certamente, trasformato) non è dato per essere integralmente distrutto e ricostruito, non è riducibile ad una piantagione. Esso ha dei margini che non sono costruibili. Risulterà chiaro come sia sempre inevitabile, trattando di questi temi da questo punto di vista, l’idea di intersezionalità. Si può respirare solo dove si può abitare; ma l’abitare viene distrutto dal Brutalismo che costruisce il razzismo, che impedisce le migrazioni, che soffoca George Floyd. Contemporaneamente, quello stesso Brutalismo ha come proprio motore il modo di produzione capitalistico. Allo stesso tempo, il Brutalismo è sempre un “virilismo”, la riproposizione di una forma di dominio fondato sulla potenza assoluta di un maschio: è il gesto di dominio dell’uomo sulla donna riportato su scala globale. La modifica di questo snodo produzione-distruzione, e l’identificazione della Terra come “inappropriabile” avrebbe dunque l’esito di cambiare l’insieme di questi rapporti di forza. Chi parla di de-crescita non pensa che a questo ultimo passaggio. Abbiamo visto la forza con cui produzione e distruzione siano saldate all’altezza del Brutalismo. Da questo punto di vista per Mbembe è lampante come una possibile uscita da questo meccanismo non possa assolutamente darsi sul piano di una “vita” contrapposta ad una “morte”. La crescita indiscriminata della vita, come è evidente ad esempio dallo studio sulla distruzione degli ecosistemi portata dallo sviluppo degli allevamenti intensivi, è solo l’anticamera della morte. Una politica contro il Brutalismo non può darsi sul piano di un vuoto vitalismo della potenza. La vita, nella sua crescita all’interno di un’ecumene (per usare un termine di Augustine Berque) non si dà mai come sviluppo as-soluto rispetto a ciò che la circonda, ma av-viene sempre nella “forma”. L’atto di “fiorire” non è mai un crescere infinitamente: è semplicemente l’assumere una forma (mai compiuta, mai definita), il relativo permanere in un limite che è ciò che rende possibile una vita. Tutto questo, di cui si era perfettamente reso conto Spinoza quando parlava di Letizia e di Tristezza in rapporto alla “potenza della causa esterna, confrontata con la nostra”, è quanto di più ovvio e allo stesso tempo dimenticato vi sia. “Abitare” significa precisamente, nel senso in cui viene inteso qui, permanere in quel relativo, mobile, non essenziale, spazio di limite.

Evidentemente, una modifica radicale della nostra stessa condizione non si darà mai solo come distruzione dello stato di cose presente. Una politica del respiro è sempre una politica che costruisce un abitare in cui sia possibile respirare: certamente questo costruire non si dà nella forma in cui lo hanno pensato molti membri della strana tribù dei moderni (creatio ex nihilo), eppure presuppone un movimento che dia luogo a delle “forme”, che non sia pura distruzione. Non creazione, ma istituzione, nel senso di Maurice Merleau-Ponty. Inoltre, se è vero, come sostiene Mbembe citando Fanon, che ogni lotta è lotta per la riparazione, questo non significa affatto che compito delle lotte sia ricostruire un mondo ormai definitivamente andato. Riparare significa certamente lasciare nella possibilità di sviluppo e di sopravvivenza quanto non è stato ancora spazzato via da questa Necropolitica globale di cui ci parla Mbembe. Riparare significa sempre, anche, curare. Tuttavia, già Canghuillem ci ha insegnato che ogni recupero dopo un grave male non è mai un ripristino, ma l’instaurazione di un tipo relativamente nuovo di automatismo. Non c’è un’origine essenziale, non si può tornare indietro e il mondo comune è un compito per l’avvenire, in cui però “costruire” significherà in primo luogo “lasciar crescere”, “allearsi” (“making kin”, suggerisce Donna Haraway, altra presenza nascosta nel testo di Mbembe), “convivere”, e non più, finalmente, creare. Noi non usciremo mai dall’Antropocene; possiamo solo abitarlo. Che il gesto del respiro sia reso possibile solo da una determinata forma sociale nient’affatto scontata, è quanto di più chiaro possa esserci contro la validità della dicotomia “mediato-immediato” quando si riflette sui temi qui in oggetto: posso ora rivelare che la ho utilizzata solo per farmi comprendere, senza credervi minimamente. Infatti, solo un popolo che abita può respirare, collettivamente.

In questo senso possiamo forse dire di avere accennato una linea di indagine per comprendere in che senso “comune può essere solo ciò che si abita”. Questo non significa dire, evidentemente, che la “social production” non costruisca in nessun modo il comune; quanto che quella produzione è possibile solo in un orizzonte in cui si abita.

La tesi non opposta, ma complementare ed altrettanto decisiva, è la seguente: “si può abitare solo ciò che è comune”. Questa deve essere qui indicata per venire subito ab-bandonata. L’opinione di chi scrive è che tutto il compito teorico per l’avvenire possa essere risolto nella dimostrazione, nella chiarificazione e nella comprensione reale di queste due tesi.

 

Print Friendly, PDF & Email