[Per le coreografie sociali → Rebel Girl | Bikini Kill]

 

Il corpo del performer è corpo queer per definizione. Sono maschio. Ora è il secondo atto, sono femmina. Come Tiresia. Ora sono femmina. Dopo sono animale. O corpo astrale. Come Medea. L’attore è sempre un travestito.

Come sciopera un’artista? Un’attrice? Una tecnica luci? Una montatrice? Una regista? Un@ drammaturg@? Un performer? Una lavoratrice del corpo e del simbolico?

Uno sciopero delle vocali? Uno sciopero dei muscoli?

Domande ricorrenti. Ora queste questioni tornano a interrogarci e ci fanno domande più intime e più politiche, ci chiedono di noi, del nostro corpo. Ora siamo immerse dentro la potenza di un movimento che non ha niente di settoriale e svela così il nesso tra condizioni materiali e violenza, tra rappresentazioni/finzioni/narrazioni e violenza. Ecco perchè questo spazio – lo spazio della parola, del corpo, della cultura – è doppiamente sensibile. Per rendere visibile l’invisibile, dovremmo riuscire a scioperare nei luoghi dell’immateriale e del creativo, dove la valorizzazione passa tutta attraverso la messa al lavoro della passione, del desiderio. Qui il lavoro assume le sembianze del lavoro di genere e riproduttivo. Si assomigliano. Riuscire a riconoscere queste somiglianze ci dà strumenti per nominare: disuguaglianze, asimmetrie, divisione del lavoro sessuale, ricatti materiali o affettivi che è difficile portare a parola. La questione – lo sappiamo – non è soltanto sindacale. Per scioperare da precarie e intermittenti bisogna inventare forme nuove. E uno sciopero femminista e dei generi dentro il mondo dell’arte e della cultura deve significare anche scioperare dai linguaggi. Dentro i linguaggi. Abbiamo bisogno di tenere insieme i piani: lavoro e linguaggi. Forme dello sfruttamento (o della messa a valore) e forme della rappresentazione. Un doppio ingranaggio che si innesta sul genere, e lo riproduce. La rappresentazione si esercita anche come violenza epistemica, e dunque le pratiche artistiche possono agire un grande potenziale di sovversione. Abbiamo bisogno di nuove immagini. Tracciati figure diagrammi connettivi. Abbiamo bisogno di nuovi testi. Di infilare la lingua dentro il linguaggio.

Play the Role. Ora userò scioperare come verbo transitivo, si può? Scioperiamo i ruoli di genere. Scioperiamo Mirandolina. Scioperiamo le segretarie delle fiction, le lesbiche bianche borghesi scritte da sceneggiatori etero, le precarie con i capelli in piega e gli appartamenti di lusso, le poliziotte dal cuore tenero. Scioperiamo i canoni di bellezza, i lieti fine, le storie banali. L’otto marzo scioperiamo da tutte le storie d’amore del cinema italiano mainstream. Sciopero le sceneggiature preconfezionate e le narrazioni che insegnano solo “io”. Sciopero la psicologia dei personaggi, che rinnova il mito della mente che sta da un’altra parte. Anche se può sembrare un po’ retrò, scioperiamo i registi maschi, eterosessuali e ministeriali. Che dirigono anche i teatri. E anche i festival. Dirigono tutto loro. Scioperiamo dal ghetto dell’arte al femminile, delle serate al femminile, della scrittura al femminile. Le “donne” non sono un tema. “Dobbiamo essere nude per entrare in un museo?” [quote Guerrilla Girls: @Met meno del 4% degli artisti sono donne, ma 76% dei nudi sono femminili] Scioperando vogliamo mettere in imbarazzo le istituzioni culturali.

Tutte queste raffigurazioni, queste rappresentazioni sono violenza di genere. Dobbiamo iniziare a romperle, a interromperle. Non presto il mio corpo e la mia voce ai Racconti Tristi del Patriarcato.

Uno sciopero delle parole, dicevamo. Alcune parole sono stanche, hanno fatto troppo lavoro, vogliono riposare. Altre sono così giovani, stanno venendo al mondo. Sono parole-laboratorio, parole-per-fare-cose. Insieme con le altre, in questi giorni, stiamo immaginando modi diversi di scioperare. Non andare in scena. Ma anche: scioperare tutte le vocali, scioperare tutti gli articoli, scioperare la parte sinistra del corpo. Scioperare un gesto. Scomporre e ricomporre le coreografie sociali. Possiamo praticare uno sciopero dall’autore. Per un giorno, le parole sono di tutte. Ogni parola. Parola per parola. Il mito dell’artista/autore – unico irripetibile e separato dal mondo – è un mito patriarcale. Sciopero l’identità, sciopero il mio nome e cognome. Sciopero l’originale, l’opera autenticata, la proprietà delle idee. Siamo tutte copie contraffatte. E quello che ho nelle mutande sono affari miei. Che sia fica, pianta, macchina o artificio.

Cosa è una e cosa è l’altra. Io sono te. Possiamo essere un noi. Indagine. Per lavorare usi il tuo corpo? Anche le parti più intime? Lavori di sera, prevalentemente? Sei pagata a prestazione? Per lavoro ti capita di mettere in scena una certa idea di “femminile”? Ti capita di simulare emozioni? Ti capita di indurre emozioni ad altrx? Sex Work o Body Art: il lavoro è lo stesso! Per secoli in Europa le attrici non venivano sepolte nei cimiteri, bensì in terra sconsacrata. Di notte, di nascosto, senza riti. Erano considerate delle puttane, e questo ora è per noi un motivo d’orgoglio. Danzatrice del TanzTheater o ballerina di pole dance, il lavoro è lo stesso! L’educazione fisica è in mano alle fanciulle. Per l’otto marzo sogno un’alleanza tra tutte le lavoratrici del corpo e delle passioni e dei desideri. Tra sex workers e lavoratrici dello spettacolo. Nessuna gerarchia tra culture alte e culture basse del corpo. Abbiamo bisogno anche di sconformare un po’ le forme. Rifare immaginazione. La fica è futura! Radicalizzare il linguaggio. Disossare il conformismo. Mettere in moto il culo. Ah, e alleniamoci all’autodifesa. Fitness is Revolution.

Abbiamo bisogno però anche di mantenere la materialità dello sciopero. Agire il linguaggio e il simbolico senza perdere niente di presa sulla materialità delle condizioni di vita. Faremo l’una e l’altra. Materialità e immaginazione. Prendere spazio. Farci spazio. Istituire altri luoghi della politica. Lo sciopero vale non solo come momento di astensione. O di interruzione. Possiamo immaginarlo e praticarlo come momento istituente. Una politica dell’immanenza, che non chiede e non rivendica e non rappresenta, ma genera da subito le pratiche di cui abbiamo bisogno. L’otto marzo bloccheremo e scriveremo. Staremo immobili e faremo twerking. Ci asterremo dalle scuole e faremo lezioni in strada. Faremo l’una e l’altra. Simultaneamente. Scioperemo anche la logica. Disseminare costellazioni di sensi. Erotizzare altre parole altre modalità della politica. È il momento – ora – di trasformare anche la politica di movimento. Revolution is my Girlfriend.

 

 

 

 

 

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