In un articolo di qualche tempo fa Bifo sosteneva che la sinistra avrebbe fatto bene a liberarsi di due feticci divenuti negli anni piuttosto ingombranti: il lavoro salariato e la crescita economica. Rispetto al primo, la comunità di Effimera – ma direi quella neo-operaista nel senso più ampio e inclusivo del termine – ha da tempo preso parola, con esiti molto significativi. Del secondo feticcio, invece, si è parlato poco. Certo, abbiamo preso di petto la questione ecologica, sottolineandone opportunamente la dimensione politica. Però il problema della crescita non è stato sollevato in quanto tale.

C’è chi ha percorso la strada opposta: critica approfondita della crescita economica e scarso interesse per il lavoro. Mi riferisco alla decrescita, etichetta che richiama un arcipelago di associazioni, movimenti e programmi di ricerca (accademici e non) che negli ultimi anni ha visto aumentare considerevolmente la propria sfera d’influenza, sia in termini numerici sia di riconoscimento. Per non fare che un esempio, la quarta Conferenza Internazionale della decrescita, tenutasi a Lipsia nel settembre 2014, ha visto la partecipazione di quasi quattromila persone (tra cui una fetta davvero rilevante dei movimenti “autonomi” tedeschi).

Bene, lo scopo di queste righe è quello di proporre un percorso di riflessione finalizzato in primo luogo (obiettivo “umile”) a esplorare il pensiero della decrescita per approfondire la critica del secondo feticcio indicato da Bifo. Inoltre (obiettivo “ambizioso”) il cantiere di ricerca mira a produrre una contaminazione politica, un’alleanza o un orizzonte di coalizione tra le due “aree”.

Sottolineo fin da ora che credo sia importante mettere l’accento sulla diversità interna che caratterizza entrambi i mondi: su quello neo-operaista credo di poter soprassedere, mentre rispetto alla decrescita qualche parola può tornare utile. Il movimento emerge in Francia nei primi 2000, legato in particolare alla critica dell’idea di sviluppo (ma anche della pubblicità onnipresente): il nome più noto è quello di Serge Latouche. Attorno alla metà della decade nasce la costola italiana della decrescita, oggi divisa in (almeno) due soggetti: il Movimento per la decrescita felice guidato da Maurizio Pallante (che punta molto, ma non esclusivamente, sul tema dell’autoproduzione) e l’Associazione per la decrescita (tra i soci: Mauro Bonaiuti, Paolo Cacciari, Marco Deriu). Dal 2010 circa – uso come data simbolo la seconda Conferenza Internazionale, tenutasi a Barcellona – prende forma la “via catalana” alla decrescita (che diventerà globale in pochissimo tempo) legata inizialmente al nome di Joan Martinez-Alier, autore di Ecologia dei poveri, e ormai da qualche anno anche ai tre curatori di Degrowth. A Vocabulary for a New Era, cioè Giacomo D’Alisa, Federico Demaria e Giorgos Kallis. Ora, posto che i confini tra le varie sensibilità sono tutt’altro che netti – e che in ognuna si trovano elementi di interesse – a me pare che nell’ottica di un dialogo con il neo-operaismo sia quest’ultima “anima” a risultare decisiva. In lingua italiana si trovano tracce di questo percorso nel libro a cura di Deriu Verso una civiltà della decrescita, mentre in inglese – oltre al già menzionato dizionario – va segnalato il recentissimo In defense of degrowth, di Kallis.

Queste riflessioni prendono le mosse dagli studi sul metabolismo sociale (cioè il rapporto tra quantità di materia ed energia che attraversa il sistema produttivo e le istituzioni che ne regolano il funzionamento) condotti da alcuni economisti ecologici a partire dai tardi anni Ottanta, ma finiscono per trasporne gli esiti su un piano immediatamente politico. Per esempio, se ancora nel 2010 la definizione di decrescita proposta faceva riferimento a un’“equa riduzione della produzione e del consumo”, oggi si parla piuttosto di “un impegno volto non solo alla protezione della natura e alla mitigazione degli effetti del capitalismo, ma anche e soprattutto alla creazione di un’ecologia sociale alternativa e di una base d’azione fondamentalmente diversa”. Da un’accentuazione del meno si è passati a un’enfasi sul differente (ampliando senza rinnegare il punto di partenza): ecco perché alcune tessere del mosaico decrescitista fanno oggi riferimento a concetti quali il tedesco Postwachstum o l’inglese post-growth economy.

In questo quadro, la riorganizzazione della società proposta dai teorici “catalani” della decrescita ruota attorno a tre assi: limiti, cura, dépense (il concetto batailleano di dispendio). Rispetto ai primi, non si propugna un adattamento passivo alla supposta oggettività di soglie al di qua delle quali il pianeta ritroverebbe la salute perduta; al contrario, si sottolinea la natura politica e anti-tecnocratica di un’autolimitazione collettiva del metabolismo sociale nel processo di produzione della ricchezza. In secondo luogo, tale ricchezza deve fondarsi sulla cura, cioè sulla riproduzione della vita e delle sue relazioni e non sull’accumulazione di capitale; il lavoro di cura si presenta dunque come la fonte primaria di una produttività “altra” rispetto a quella capitalistica. Infine, si propone il dispendio improduttivo e collettivo di quote consistenti di surplus economico come alternativa politica alla “privatizzazione dell’eccesso” implicita nel consumismo contemporaneo; si inverte dunque nettamente il punto di vista: il problema non è la scarsità, bensì l’eccedenza.

Sperando che la comunità neo-operaista ritenga di proseguire lungo il percorso di riflessione qui proposto, nelle prossime settimane verranno tradotti e resi disponibili alcuni dei materiali citati, aggiungendone altri per completare il quadro informativo. Ora, invece, vorrei soffermarmi rapidamente su due questioni che tale percorso potrebbe aiutarci a mettere più nitidamente a fuoco:

  1. Perché alla critica del lavoro salariato condotta dal neo-operaismo – la si declini nei termini di sussunzione vitale, accumulazione biopolitica, industrializzazione del cognitivo, estrazione, imprinting: il discorso vale per tutte queste forme – non si è affiancata la critica della crescita economica? Probabilmente perché si ritiene che il problema del produttivismo riguardi esclusivamente il modo di produzione capitalistico e che, dunque, al di là del valore stia una ricchezza che può crescere all’infinito in quanto fondata sul General Intellect e quindi svincolata dal principio di scarsità. Si tratta di un’idea di fondo che non mi sento di abbandonare in toto. Due elementi però mi sembrano rilevanti: in primo luogo, se si pensa tale ricchezza come creazione del lavoro cognitivo liberato dal giogo dello sfruttamento, sarebbe tuttavia il caso di non perdere di vista i requisiti energetici (altissimi) dell’economia digitale; il sogno accelerazionista dell’automazione di massa pianificata potrebbe facilmente trasformarsi in un incubo ecologico di cui non si sente il bisogno. Inoltre, mi ha colpito la provocazione di Kallis: una volta che si sia fuori dalla logica del valore, infatti, che bisogno c’è di parlare di “crescita”? Certo, ci vorrà più riproduzione e meno inquinamento, ma le relazioni affettive “si intensificano”, non “crescono”; le arti e i piaceri “fioriscono” (si utilizza il termine inglese flourishing), non “crescono”. E così via. Il punto è questo: una volta abbandonato il terreno esclusivamente quantitativo del salario, da cosa discende l’esigenza di mantenere il sistema di misurazione fondato su di esso? Non si tratta naturalmente di indulgere in improbabili mitologie premoderne, bensì di tornare a interrogare il concetto fisiocratico di classe sterile – come suggerisce Christian Marazzi nel suo ultimo libro – cioè la possibilità di immaginare l’attività lavorativa come capace di: a) trasformare la materia, b) senza aggiungere valore, c) pur risultando essenziale alla produzione di ricchezza. Insomma: si può costruire politicamente una dimensione ecologica del rifiuto del lavoro?
  1. Perché il riferimento neo-operaista alla logica del “dentro e contro” (il rapporto di capitale) rischia sempre più spesso di girare a vuoto, fagocitato dal rischio – quasi sempre inverato – della cooptazione, cioè del recupero del conflitto alla logica del valore? Probabilmente perché non si sono tirate tutte le conseguenze del caso dalla presa d’atto dell’esaurirsi del nesso lotte-sviluppo elaborato dall’operaismo degli anni Sessanta. Lo schema diceva, grosso modo: dato che il motore dello sviluppo sta nella lotta di classe operaia, l’attacco va portato al punto più alto perché solo da lì sarà possibile reindirizzare la finalità della cooperazione senza depotenziarla. L’esigenza della biforcazione non si poneva dunque alla radice, bensì – per restare nella metafora arborea – al livello del frutto. Bisognerà studiare bene questo passaggio fondamentale perché ho l’impressione che sia solo sulla base del “produttivismo” operaista che qualcosa come un “oltre” la logica del valore è diventato visibile (penso in particolare alle lotte sulle nocività industriali). In ogni caso, nel contesto neo-operaista mi pare esserci consenso rispetto alla constatazione che, tra rifiuto del lavoro (agito) e frantumazione del lavoro (subita), il divenire sempre più eterogenee delle pratiche di valorizzazione renda impossibile stabilire oggi quale punto dello sviluppo sia effettivamente il più alto. La tendenza è l’eterogeneo. Saltata dunque l’immediatezza lineare del nesso lotte-sviluppo – e con essa l’individuazione relativamente agevole del “soggetto rivoluzionario” incaricato della biforcazione – la logica del “dentro e contro” comincia a fare problema. Senza arrivare a sostenere la posizione di Carlo Formenti (peraltro non chiarissima) secondo cui “se si è dentro non si può essere contro”, potrebbe non essere inutile interrogarsi da un lato sulle diverse modalità di stare “dentro” e dall’altro sul potenziale trasformativo del “fuori”. Mi pare che la strada verso un anticapitalismo ecologicamente desiderabile debba passare sia da una coalizione tra i segmenti eterogenei che partecipano alla produzione di valore (dagli operai del manifatturiero ai contadini, fino ai knowledge workers) sia da un’alleanza tra quei segmenti politicamente riuniti e le espressioni del “fuori” (cosmo-visioni indigene, comunità legate all’agricoltura di sussistenza, lavoratori dell’economia “informale”). In altre parole, credo si debba considerare più attentamente la questione del rapporto tra quei soggetti che scrutano l’“oltre” il valore a partire da ciò che fu il punto più alto dello sviluppo capitalistico e quei soggetti che vedono l’“altro” dal valore da una posizione di (relativa, graduabile) esternità – poiché o non vi sono stati inclusi oppure hanno opposto un rifiuto. Insomma: i diritti della Pachamama e il reddito di base possono salire sulla stessa barca rivoluzionaria?

Questi due nodi non esauriscono assolutamente lo spazio di un possibile confronto tra neo-operaismo e decrescita. La speranza è che altre questioni emergano e ci permettano di comprendere il presente per meglio aggredirlo. Tuttavia, è bene segnalare in conclusione che non si comincia da zero. I due ambiti di riflessione e attivismo condividono infatti un riferimento fondante alla voce di André Gorz. Già in Ecologia e libertà (1977), Gorz mostrava come l’eco-socialismo avesse bisogno simultaneamente di una re-invenzione radicale del lavoro, di una riduzione e ri-localizzazione dei volumi di produzione e di una ri-appropriazione autonoma della tecnologia. Da questo specifico punto di vista, la decrescita e l’ecologia politica più avvertita (penso per esempio al seminario Ecologie politiche organizzato da Millepiani e Officine filosofiche) calcano già lo stesso sentiero. Si tratta quindi, per ricordare il rivoluzionario francese nel modo migliore, di continuare a camminare, di proseguire qui e ora la sua ricerca su nuovi terreni, di trovare nuove pratiche di conflitto per aprire un passaggio verso la civiltà del tempo liberato.

 

Immagine in apertura: Banksy, Regent’s Canal, London 2009