Intervista a Lapo Berti, economista della rivista «Primo Maggio»

Questa mattina Effimera ripropone la lettura di una intervista davvero interessante all’economista Lapo Berti, che ha fatto parte del collettivo redazionale della rivista Primo Maggio e dell’area del postoperaismo italiano, realizzata da Paolo Davoli e Letizia Rustichelli. Ringraziamo il collettivo di ricerca indipendente Obsolete Capitalism, di cui i due autori dell’intervista fanno parte, nonché Obsolete Free Press e Rizosfera Edizioni per la possibilità di ripubblicare il testo (che potete scaricare in pdf qui:Marx_moneta_e_capitale-_intervista_con_Lapo Berti). Diamo con ciò avvio a una collaborazione con OC allo scopo di favorire fruttuosi scambi di materiali e la loro diffusione.

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L’intervista con Lapo Berti che qui presentiamo è parte del volume collettivo «Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski» pubblicato per Obsolete Capitalism Free Press lo scorso luglio 2016. La ricerca sulla moneta ha accomunato, certo in modo diverso, gli autori rizosferici francesi degli anni ‘60 e ‘70. Lo strumento «moneta» è stato da loro considerato come il dispositivo centrale utilizzato dalle economie di mercato del capitalismo avanzato per avviare à grande vitesse quella profonda trasformazione del regime produttivo fordista in una nuova forma di produzione altamente tecnologizzata, nonché dislocata, finanziarizzata e internazionalizzata. Non solo la Rizosfera francese ha saputo cogliere chiaramente questo cambio di paradigma economico nello stesso momento in cui si stava compiendo, ma è anche riuscita ad effettuare analisi efficaci e originali dello strumento «moneta» fin dal suo apparire nelle terre anatoliche dell’VIII secolo a.c. e nelle città greche del VII e VI secolo a.c.. La moneta, per i filosofi rizosferici, è dunque il dispositivo «accelerazionista» per eccellenza della politica di «dominio rapido» instaurato dalle nuove economie di mercato mondializzate e finanziarizzate.

Il senso dell’intervista «Marx, moneta e capitale» si situa qui: Berti, in quanto attore di primo piano nelle ricerche sulla moneta scaturite dall’area politica del post-operaismo italiano, è stato testimone dall’interno della crisi del marxismo degli anni ‘60 e ‘70, della mancanza di adeguate analisi e proposte della cultura comunista e della sinistra marxista verso la forma «moneta» e il successivo fenomeno del monetarismo. È importante, ai fini della nostra ricerca riguardo la nascita della «rizonomia», ricostruire quel milieu culturale – storico, economico, filosofico, politico – degli anni ‘60 e ‘70 nel quale si sviluppò quella critica radicale alla moneta, alle sue forme e alle sue funzioni, che segnò l’opera di Foucault (Le parole e le cose, Lezioni sulla volontà di sapere), di Gilles Deleuze e Félix Guattari (L’anti-Edipo), e di Klossowski (La moneta vivente).

 

1) Puoi riassumere per il pubblico d’oggi il contesto intellettuale e politico nel quale s’inscrive la discussione intorno a «moneta e capitale» nella sinistra marxista italiana e francese degli anni Settanta?

 

I primi anni settanta sono stati un periodo turbolento, socialmente, economicamente e politicamente. Non c’erano solo i movimenti di protesta scatenati dalle nuove generazioni di studenti cresciute all’interno dei vari miracoli economici e dai ceti operai che chiedevano una porzione maggiore della ricchezza prodotta. C’era stato il 15 agosto 1971, quando Nixon aveva di fatto posto fine, in maniera del tutto unilaterale, al sistema monetario internazionale creato a Bretton Woods nel luglio del 1944, che, sancendo la supremazia mondiale degli Stati Uniti, aveva accompagnato in maniera tutto sommato equilibrata lo sviluppo degli scambi internazionali e la crescita dell’economia mondiale. Ci fu il primo grande shock petrolifero nel 1974, che pose il mondo capitalistico sviluppato di fronte al fatto che non aveva più il controllo diretto sul prezzo di quello che era, ed è, il combustibile dello sviluppo come finora l’abbiamo conosciuto. E  c’erano, naturalmente, gli sconvolgimenti che, a seguito di tutti questi eventi, investivano la sfera della moneta, in primo luogo con l’esplosione inflazionistica dei prezzi, con la difficoltà di gestire i movimenti internazionali dei capitali, con la necessità di reinventare la politica monetaria a livello nazionale e globale.

Sul fronte dei movimenti sociali e nel ribollire di tentativi di dar vita a soluzioni organizzative che li proiettassero sul terreno della lotta per il potere, si assisteva, per lo più, a riprese acritiche di esperienze del passato, già sepolte dalla storia, o a fughe volontaristiche in avanti verso un futuro di cui si sapeva e si capiva ben poco. Specialmente in Italia, si respirava un’aria strana all’interno dei movimenti extra-parlamentari o, almeno, così la vivevo io. La fase dell’operaismo o, se si preferisce, del primo operaismo era definitivamente alle spalle. Chiusa nel 1966, con scandalosa consapevolezza, l’esperienza di Classe operaia, coloro che, a vario titolo, ne avevano fatto parte avevano compiuto altre scelte e le avevano portate avanti concretamente, anche dando vita a primi esperimenti organizzativi. Le cose avevano preso una piega diversa da quella che aveva costituito la ragion d’essere del primo operaismo. Alcuni di noi, dentro e fuori le organizzazioni che si erano formate, erano perplessi, specialmente di fronte alla drastica caduta dell’impegno innovativo sul piano dell’analisi e della teoria cui facevano da contraltare le cieche derive dell’azione violenta. L’attivismo dei movimenti portava necessariamente a una semplificazione delle parole d’ordine e, in parte, anche al recupero di atteggiamenti e stilemi che appartenevano a una cultura politica, quella comunista, che noi ritenevamo dovesse essere superata. Il problema dell’organizzazione dei movimenti sembrava prevalere su tutto. Non mancavano le forzature volontaristiche.

In questo contesto, nacque, per iniziativa principalmente di Sergio Bologna, il progetto di una rivista, chiamata programmaticamente “Primo maggio”, che tenesse fermo l’ancoraggio del discorso politico all’esperienza materiale delle lotte operaie, andando alla ricerca, nella concretezza storica, delle manifestazioni di quella autonomia operaia la cui enunciazione era il lascito più significativo del primo operaismo. La rivista era nata anche con un programma scientifico radicale e innovativo, che si proponeva di restituire nella loro autenticità, non mediata dall’ideologia, le esperienze di lotta, facendo ricorso alle testimonianze orali di coloro che ne erano stati protagonisti. C’era, inoltre, una forte spinta a innovare nelle metodologie delle varie discipline, dalla storia all’economia, alla politica. Per chi, come me, era fortemente preoccupato delle possibili derive cui si andava incontro con una radicalizzazione volontaristica dello scontro sociale, si trattava di un ancoraggio importante, che delimitava uno spazio di discussione libera, al riparo dalle forti pressioni che provenivano dal contesto. Era il tentativo di sottrarsi a scelte non convincenti o eccessivamente semplificatrici, foriere di sciagure, ritagliandosi uno spazio in cui costruire una elaborazione autonoma, anche di temi che erano allora estranei alla cultura elementare e improvvisata dei movimenti. Credo che in molti di quelli che più attivamente parteciparono all’elaborazione teorica della prima fase di “Primo Maggio”, sicuramente in me, si agitasse un’inquietudine generata dalla crescente consapevolezza dei limiti che erano posti alla comprensione del presente dal rimanere confinati entro il perimetro dell’ortodossia marxista, con il sostanziale rifiuto di confrontarsi con i punti di vista e le analisi elaborati dagli avversari. La formazione culturale dei militanti avveniva, per lo più, tramite la frequentazione ossessiva dei sacri testi del marxismo, non sempre di eccelsa qualità teorica, a parte quelli di Marx e alcuni di Lenin. Era inevitabile l’inclinazione all’ortodossia, perché quello era l’unico metro di paragone. Questo generava, almeno, in alcuni, un senso di asfissia, alleviato, per quanto mi riguarda, solo dall’esperienza innovatrice del primo operaismo. C’era bisogno di confrontarsi con altre correnti di pensiero, addirittura di andare a curiosare nel campo dell’avversario. Io, per esempio, in quegli anni avevo cominciato a studiare intensivamente la letteratura monetarista e trovavo che ci fossero più stimoli in questa lettura che nella ripetizione pappagallesca delle formule marxiste. L’esperienza dei “Quaderni rossi” e di “Classe operaia”, con la sua tensione verso l’analisi del presente e il suo tentativo di immettere linfa vitale nella lettura dei testi marxiani, facendo saltare l’ortodossia sclerotizzata, ebbe anche questo effetto.

Il via al “dibattito sulla moneta” in “Primo Maggio” lo dette, di nuovo, Sergio Bologna, con la sua felice intuizione di riproporre gli scritti, pressoché sconosciuti, di Marx sulla crisi del 1858 quale potente sollecitazione a ripensare i rapporti fra moneta e crisi capitalistica. Convinto com’ero che gli strumenti teorici con cui la sinistra, in tutte le sue componenti, affrontava l’analisi della crisi in atto fossero del tutto obsoleti e insufficienti e che la chiave di tutto, su cui far leva per elaborare un nuovo approccio alla crisi capitalistica, fosse proprio un’analisi più realistica del modo di funzionamento del sistema monetario e del suo ruolo nella gestione del comando capitalistico, aderii con entusiasmo alla proposta di partecipare a un lavoro collettivo di approfondimento di questi temi. Nacque così, all’interno di “Primo Maggio”, il “gruppo sulla moneta”, in cui si raccolsero e si incrociarono percorsi di ricerca e insofferenze politiche, dando luogo a un lavoro collettivo molto aperto e creativo, in cui ciascuno cercava di portare quegli che gli sembravano i punti di vista più innovativi e promettenti, spesso niente di più che spunti e intuizioni allo stato grezzo, ma che avevano il pregio di nascere dall’osservazione disincantata della realtà sociale e della dinamica dei conflitti. Il metro di giudizio che portavamo con noi era quello della più efficace rappresentazione dei processi economici in atto come manifestazione di una crisi che percorreva tutto l’universo capitalistico e aveva la sua linea di faglia nel confronto con le lotte sociali che avevano caratterizzato gli anni precedenti.

Concentrare l’attenzione sui fenomeni monetari e sulla politica monetaria rappresentava uno scarto importante, perché la lettura codificata del marxismo ci aveva abituato a osservare in primo luogo, se non esclusivamente, la sfera della produzione, ad analizzare i rapporti di produzione, i conflitti che attengono ai rapporti di lavoro o, se si preferisce, di subordinazione del lavoro al capitale. Non si trattava di abbandonare quel terreno, anche se ci appariva sempre più chiaro che, anche se quello era l’epicentro del conflitto sociale, non esauriva l’ambito del conflitto. Occorreva alzare lo sguardo a quell’insieme di fattori e di pratiche cui Foucault (1978) avrebbe poi dato il nome di “governamentalità”, perché ci si rendeva conto che esistevano strumenti e poteri sovraordinati alle lotte operaie e studentesche, di cui era necessario e urgente comprendere la logica di funzionamento, per pervenire a una rappresentazione più efficace della crisi e delle dinamiche che in essa erano in gioco.

 

2) Qual’è stato il tuo ruolo dentro a «Primo Maggio» e come è nato, e poi sviluppato, il confronto con Suzanne de Brunhoff?

 

Non sta a me, ovviamente, definire il mio ruolo dentro “Primo Maggio”. Del resto, analisi e giudizi su quell’esperienza sono già stati espressi (Bologna 1993; Bermani 2010; Karl Heinz Roth e Stefano Lucarelli ibid.; Steve Wright 2013; Lucarelli 2013). Essendo già impegnato in studi sull’economia monetaria, a me toccò il compito di stimolare e coordinare il lavoro, ma questo fu, nel senso più lato, un lavoro collettivo. A me, in particolare, fu affidato il compito di formulare un primo resoconto dei risultati cui era arrivato il gruppo e dell’orientamento che esso cercava di proporre e di argomentare.

Denaro come capitale (“Primo Maggio”, n. 3-4, 1974), pur nella consapevolezza dei limiti nel grado di elaborazione teorica, voleva rappresentare, se non proprio un manifesto, un programma di lavoro, che si muoveva lungo due assi prospettici, che volevamo fissare come punti fermi. Da un lato, c’era lo sforzo e l’impegno di ripartire dalle cose stesse, da un’analisi dei processi in atto quanto più possibile scevra da posizioni preconcette. Dall’altra, il proposito di “testare” la validità dell’approccio marxiano, con la ferma intenzione di rimanere ancorati ai fatti invece di adattarli, come era abbastanza diffuso nell’ortodossia marxista. Naturalmente, le due linee erano strettamente intrecciate. La nuova rappresentazione della crisi capitalistica veniva prendendo forma in un serrato confronto con i punti di riferimento marxiani e con i processi reali, nonché, per quanto mi riguarda, con gli strumenti di analisi messi in campo dall’avversario intellettuale (il monetarismo). Eravamo convinti che la funzione e il modus operandi della moneta fossero profondamente mutati, in particolare con la fine di un sistema monetario internazionale imperniato su cambi fissi, e che si fossero enormemente ampliati i confini della politica monetaria ovvero della manipolabilità della moneta con finalità più o meno dichiaratamente politiche. Per essere più precisi, ritenevamo che la moneta, ormai svincolata da qualsiasi legame diretto o indiretto con un valore fisicamente definito (l’oro), fosse diventata una variabile interamente manovrabile e che questa manovrabilità della moneta si stesse costituendo come uno dei principali strumenti di governo dell’economia capitalistica, se non il principale. La moneta era diventata un’istituzione ad alta valenza politica. Era inevitabile, dunque, che la politica monetaria, divenuta a tutti gli effetti strumento di governo politico, intervenisse direttamente nel regime dei rapporti di forza fra le classi. Questa era la nuova realtà del conflitto che andava portata alla luce. In questo progetto ci eravamo impegnati. L’attenzione era concentrata sulla gestione politica della moneta quale strumento principe del comando capitalistico sull’economia e del controllo dei conflitti sociali che avessero il potere di influenzare negativamente il processo della produzione industriale e, soprattutto, l’andamento dei profitti. In altre parole, la politica monetaria come strumento di controllo della distribuzione del reddito a salvaguardia dei livelli di profitto e, quindi, a favore delle imprese. Questa era l’avventura intellettuale in cui ci sentivamo impegnati.

Denaro come capitale tentava di gettare le basi di questa prospettiva teorica; il successivo Inflazione e recessione: la politica della Banca d’Italia (1969-1974), ancora scritto da me, tentava di applicare questa impostazione teorica a un caso concreto, quello italiano. Si narra che quest’ultimo articolo abbia suscitato una certa sorpresa e qualche sconcerto all’interno della Banca d’Italia, fra coloro che prestavano attenzione alle cose della sinistra, fino al punto di sospettare che in realtà provenisse dall’interno. Segno inequivocabile che avevamo colto nel segno e messo il dito nella piaga! In realtà, l’articolo aveva uno scopo molto ambizioso, perché intendeva mostrare, sulla base di un esempio concreto e piuttosto rilevante, come il governo dei flussi monetari non fosse affatto un compito puramente tecnico, ma avesse una forte valenza politica. Questa prospettiva analitica era resa possibile dal fatto che avevamo compreso, in primo luogo, che la moneta non era affatto neutrale rispetto ai processi dell’economia produttiva, come sosteneva la dottrina monetarista dominante, ed era, invece, manovrabile e manovrata quale strumento per intervenire in quello che era allora il terreno di scontro sociale più aperto, quello della ripartizione del reddito tra salari e profitti. Avevamo capito che la banca centrale aveva il potere di determinare il modo in cui la moneta entrava nel sistema economico e deciderne la quantità. Tramite queste due leve era in grado di intervenire sui prezzi relativi, per esempio dei beni e della forza lavoro e, quindi, di spostare gli equilibri sociali e attutire l’impatto delle rivendicazioni salariali. La novità che intendevano portare nella considerazione dei fenomeni monetari era tutta qui, ma aveva implicazioni teoriche e politiche dirompenti, che rimasero, in buona parte, allo stato embrionale o del tutto inespresse.

Nei numeri successivi comparvero altri articoli prodotti dal gruppo sulla moneta, tra cui quello di Franco Gori sulla spesa pubblica e quello di Mario Zanzani sull’inflazione. Erano carotaggi in campi per noi inesplorati. Davano conto della fecondità delle ipotesi, ma non erano ancora i capitoli di una ricostruzione organica e sistematica del quadro economico che avevamo davanti. Da questo traguardo rimanemmo decisamente lontani e negli anni successivi, per tanti motivi, nessuno riprese e tanto meno portò avanti il lavoro iniziato. Quello che poteva essere un nuovo stadio nello sviluppo di una teoria del capitalismo che riprendesse le istanze marxiane di fondo rimase in fasce, senza neanche raggiungere l’adolescenza. Ci furono, in seguito, tentativi sporadici di riprendere le fila del discorso, ma il lavoro si era ormai rinchiuso nello spazio sterile delle aule universitarie. Non respirava più l’aria pungente dei movimenti sociali che l’avevano originariamente ispirato.

La breve controversia con Suzanne de Brunhoff nacque a seguito di un seminario su “Il discorso marxista sul denaro alla luce della crisi monetaria”, cui non potei partecipare (risiedevo a Firenze), che si svolse presso la Fondazione Feltrinelli fra l’11 aprile e il 13 giugno 1975 e a cui, oltre alla de Brunhoff, partecipò anche Jochen Reiche, un economista tedesco in contatto con Sergio Bologna. La de Brunhoff era una marxista rigorosa, ma non dogmatica, impegnata a sviluppare e ad arricchire la teoria marxiana della moneta, applicandola, in particolare, all’analisi della politica monetaria, ma mantenendosi rigorosamente entro in confini dell’impostazione marxiana. Non era sorda alle novità e non rifuggiva dell’innovazione, ma tutto il suo lavoro teorico era rivolto a difendere la teoria del valore quale punto archimedico dell’analisi marxiana del capitalismo. In un articolo pubblicato su “Politique aujourd’hui”, maggio-giugno 1975, la de Brunhoff coglieva impietosamente i punti deboli e le lacune contenuti in Denaro come capitale per contestare un’impostazione che, pur nelle sue insufficienze, considerava, evidentemente, interessante e stimolante, tanto da meritare una confutazione. La de Brunhoff, tuttavia, non affrontava il punto centrale della nostra argomentazione ovvero la manovrabilità e, quindi, la valenza politica della moneta. Due erano le critiche principali avanzate dalla de Brunhoff. Da un lato, ci rimproverava di non aver elaborato a sufficienza la nozione di moneta utilizzata nell’argomentazione e, dall’altro, critica ancora più bruciante, di essere succubi, più o meno consapevolmente dell’impostazione keynesiana o, peggio ancora, monetarista. Con giovanile baldanza, le rispondemmo, più o meno, che non ci importava molto il colore del gatto purché prendesse i topi. In altre parole, la nostra prima preoccupazione non era di difendere l’ortodossia marxiana e di preservarci puri rispetto a eventuali contaminazioni “borghesi”. Ci sentivamo liberi di prendere gli strumenti che ritenevamo più utili ovunque li trovassimo, perché l’obiettivo principale era quello di disporre di un apparato teorico che facesse presa sulla realtà e che fosse in grado di fornire ai soggetti sociali in lotta idee capaci di farsi azione. Era quel tentativo di mettere in comunicazione teoria e pratica che costituiva un tratto caratteristico dei movimenti usciti dall’esperienza del ’68 e che, in seguito, tante critiche avrebbe attirato da parte di intellettuali che di pratica non volevano sentir parlare.

Per quanto riguarda la nozione di moneta, è vero che non avevamo elaborato una definizione originale e compiuta, ma ci sembrava di avere colto quello che contava e che non era scritto in nessuna delle teorie monetarie correnti, ovvero che la moneta è un’istituzione che fa parte dell’apparato in cui si articola il governo della società. E questo, per il momento, ci bastava.

 

3) Quali erano i limiti che avevi riscontrato in Marx e nella sua teoria generale della moneta? Quali erano invece le posizioni ‘ufficiali’ del movimento marxista europeo? Perché non ci si è accorti – se non con grave ritardo – che il capitalismo stava avviando quello «switch» fatale tra produzione e finanza e tra plusvalore umano e plusvalore macchinico?

 

In generale, la situazione del marxismo in quegli anni era deplorevole. Un’immensa e soffocante scolastica, fatta di chiose e commenti del tutto ripetitivi e assolutamente autoreferenziale. La correttezza era il presupposto, non il risultato dell’analisi. I fatti avrebbero dovuto adattarsi o altrimenti peggio per loro. Era così in Francia, in Germania, in Italia, fatta salva l’esperienza (moderatamente) eretica del primo operaismo. Anche quando c’erano autori che tentavano di rinnovare la prospettiva marxista, come, per citarne due molto diversi fra di loro, Della Volpe in Italia e Althusser in Francia, il dibattito non filtrava all’esterno e rimaneva confinato nel chiuso delle parrocchie, sostanzialmente incapace di confrontarsi con quanto veniva elaborato al di fuori del perimetro del marxismo. C’era, implicita o esplicita, una presunzione di superiorità scientifica dell’impostazione marxista che esimeva dal confronto.

Per quanto mi riguarda, dopo aver passato anni sui sacri testi, letti in italiano, in tedesco e nel francese dei primi due volumi della mitica edizione di Maximilien Rubel, i panni del marxismo mi stavano stretti e mi agitavo per liberarmene. Pensavo di avere appreso tutto quello che contava, e che ancora era vivo del marxismo, ed ero pronto per imbarcare me stesso in imprese intellettuali meno certe e rassicuranti. Pensavo, in particolare, di avere acquisito un metodo di analisi dei fatti economici che mal sopportava gli angusti confini disciplinari e non intendeva rinunciare a considerarli nel loro contesto politico, mettendone in luce le implicazioni per il governo della società. L’elemento scatenante furono i movimenti sociali della fine degli anni sessanta e la crisi che ne seguì.

Mi ero convinto che il marxismo ortodosso non fosse più in grado di cogliere e di elaborare teoricamente le mutazioni del capitalismo. L’impennata inflazionistica dei primi anni settanta e la fine del sistema di Bretton Woods attiravano inevitabilmente l’attenzione sui fenomeni monetari in generale e, in particolare, sull’evoluzione del sistema dei pagamenti e sulla centralità acquisita dalla gestione della politica monetaria, sia a livello nazionale che internazionale. Oggi è difficile comprendere l’effetto dirompente di quegli eventi che intervenivano a porre fine ai “trenta gloriosi”, allo sviluppo impetuoso del dopoguerra, e sembravano aprire una nuova fase di instabilità del capitalismo e quindi di spazi aperti per chi pensava alla possibilità di un suo superamento. C’erano stati gli anni delle grandi lotte e delle rivendicazioni salariali e non era difficile cogliere l’esistenza di una connessione fra i due insiemi di eventi. Ma qui sorgevano domande cui, al momento non c’erano risposte. Il marxismo, anche nei suoi sviluppi più recenti, non sembrava in grado di fornire chiavi interpretative utili e utili strumento di analisi. Avevamo compulsato furiosamente le dense pagine dei Grundrisse dedicate alla moneta e, in particolare, alla moneta come capitale (35-162) nonché i geniali abbozzi della sezione V del terzo libro del capitale sul credito, sul capitale monetario e sul saggio d’interesse. Ma, anche qui, erano più gli interrogativi che le risposte. Se si volevano cogliere appieno questi cambiamenti, occorreva uscire dalle gabbie intellettuali del passato, anche se firmate Karl Marx.

Allora, stiamo parlando di più di quarant’anni fa, forse non era possibile intuire gli sviluppi cui la moneta priva di valore intrinseco, la fiat money, come la chiamano gli americani, avrebbe potuto dare luogo in direzione di una progressiva estensione dell’area occupata dall’attività finanziaria e, soprattutto, di una crescente sovra-determinazione dell’economia da parte della finanza. Non era possibile, allora, immaginare la formazione di un’oligarchia finanziaria globale come quella che oggi abbiamo di fronte. Ma avevamo cominciato a porre le basi di uno schema teorico che avrebbe consentito di analizzare e di comprendere questi sviluppi. Il punto di forza stava in un’analisi interdisciplinare, che non guardava solo all’economia ma anche alla politica, ripristinando lo spirito originario dell’“economia politica” offuscato dalla deriva tecnocratica della scienza economica contemporanea.

Gran parte dell’intellettualità di sinistra che si confrontava direttamente con i testi marxiani era impegnata a difendere la teoria del valore-lavoro, perché riteneva, non a torto, che con questa crollava l’intero impianto della costruzione teorica marxiana fondato sulla denuncia dell’appropriazione indebita, da parte della classe dei capitalisti, di un plusvalore che non sarebbe stato altro che una parte del lavoro erogato non pagata. A nostro avviso, tuttavia, il mantenimento della teoria del valore-lavoro come architrave della interpretazione marxiana del sistema capitalistico, impediva di comprendere l’essenza e la funzione centrale della moneta nel capitalismo attuale. L’impostazione marxiana, nonostante alcune brillanti intuizioni, rimaneva ancora all’idea della moneta-merce, strettamente intrecciata alla teoria del valore-lavoro. Non ci ponemmo il problema di elaborare una visione più ampia e più avanzata che riuscisse a tenere insieme l’istanza critica rappresentata dalla teoria del valore-lavoro con la nuova, seppur embrionale, interpretazione dei fattori monetari che noi consideravamo parte integrante e caratteristica del sistema capitalistico. Urgeva la necessità di dotarsi di strumenti di analisi adeguati, anche se rozzi, per comprendere la nuova realtà del capitalismo e dotare i movimenti sociali di una conoscenza capace di tradursi in azione.

Le analisi dei fenomeni monetari portate avanti all’interno di “Primo Maggio” erano una vicenda tutta italiana, dovuta, forse, all’intensità che qui avevano raggiunto i movimenti sociali e alla forte domanda di teoria nuova, di un pensiero più fresco, capace di aggredire i fatti e renderli leggibili a un’ampia platea di soggetti non adusa a frequentare la teoria. Non mi risulta che altrove vi fosse una simile vivacità nella ricerca. Era anche questo, forse, un lascito del primo operaismo, che ci aveva abituato a non aver paura dell’eresia e al gusto di spostare sempre la visuale rispetto a quello che era l’asse dell’ortodossia, con l’occhio fisso alle dinamiche del conflitto sociale. In quegli anni, nei paesi caratterizzati dalla presenza di forti partiti comunisti, il marxismo era una ortodossia soffocante, i cui sacerdoti erano impegnati in discussioni che a noi sembravano bizantine su questioni irrilevanti. L’interpretazione prevaleva sull’analisi. Neanche i nuovi movimenti erano del tutto esenti dal richiamo dell’ortodossia, dietro cui nascondere una certa incapacità di elaborare i problemi oltre alla dimensione della quotidianità.

 

4) Visto con gli occhi di oggi, cosa ne pensi del dibattito che si sviluppò in quegli anni? È servito, a sinistra, per rendere più accurata la critica al capitalismo oppure lo ritieni un’occasione sprecata? La moneta, e la finanza in particolare, non continua ad essere – tutt’oggi – la «bestia nera» della sinistra?

 

In tutta onestà, direi che quel dibattito non fu nulla più che un’ouverture. La strada, ritengo, era quella giusta, ma su quella strada riuscimmo solo a muovere i primi passi, largamente incerti e confusi. Due cose basilari avevamo capito, che non erano certo patrimonio condiviso della sinistra, né in Italia né altrove. Avevamo capito, in primo luogo, una cosa molto semplice: che la natura della moneta era definitivamente cambiata e che questo cambiamento rendeva possibile strumenti interamente nuovi e impensati di intervento nell’economia. Strumenti potenti, che possono agire su uno degli aspetti più delicati di una società, quello della distribuzione del reddito, dotati, quindi, di una fortissima valenza politica. I fatti ci hanno dato ampiamente ragione. La politica monetaria, ancorata all’indipendenza formale e sostanziale delle banche centrali, sarebbe diventata il perno della nuova governamentalità. E, studiando il modus operandi della moneta, avevamo capito anche un’altra cosa fondamentale, che attraverso di essa si manifestava uno dei problemi irrisolti delle società moderne, quello del potere economico, lasciato libero di agire indisturbato, senza soggiacere a nessuno dei vincoli e dei limiti cui le costituzioni moderne hanno assoggettato gli altri poteri fondamentali nella società. Nell’architettura dell’equilibrio e della distinzione dei poteri, che, pur nella sua imperfezione, ha reso possibili le società democratiche, il potere economico era assente. Se avessimo proseguito su quella strada e approfondito quelle analisi, forse, non saremmo stati sorpresi e non ci saremmo fatti trovare disarmati di fronte al dilagare del potere economico su scala globale e si sarebbe, forse, potuto porre argini, anche solo con la piena consapevolezza, alla colonizzazione della politica da parte di un potere intimamente oligarchico, come è quello economico, e quello bancario e finanziario in particolare. Forse, ci saremmo accorti prima della deriva cui andavano incontro le democrazie, svuotate di