In questi giorni circola, per consegna a mani o per posta, un opuscolo stampato in duecento copie. Il testo è di notevole interesse e lo segnaliamo volentieri, allegandolo nella sua stesura completa e integrale, sia nella versione per la tipografia sia in quella accorpata per la pubblicazione in rete. Per scaricarlo basta utilizzare i rinvii più sotto evidenziati.
Come potete leggere si tratta di un Manifesto, presumibilmente frutto di una stesura collettiva, approvato da una assemblea autoconvocata. L’incontro si è tenuto il giorno 27 dello scorso mese di ottobre a Stivigliano, un piccolo suggestivo borgo abbandonato, frazione del Comune di Valle Castellana, sui Monti della Laga, nel teramano, a 16 chilometri da Ascoli Piceno.
Il documento è, espressamente, ispirato da Operazione Mediterranea, l’impresa ribelle che sta conducendo nel Mediterraneo attività di monitoraggio e salvataggio.
Il contenuto ci è sembrato importante, in quanto introduce, sul tema spinoso dell’immigrazione (ma non solo dell’immigrazione) alcuni elementi di novità assoluta.
In primo luogo propone un piano di governo che sposta l’asse del discorso dell’immigrazione dalle politiche di accoglienza e integrazione, giudicate fatalmente perdenti, a una strategia economica e sociale espansiva basata sul recupero e (ri)valorizzazione anche culturale del territorio, a cominciare dalle vaste aree abbandonate sparse nelle regioni di questo nostro paese; e lo fa richiamandosi all’esperienza del New Deal roosveltiano. Si tratta quindi di un capovolgimento radicale dell’idea comune su cui ristagna e marcisce il dibattito: qui viene formulata la proposta di una vera propria chiamata all’impiego di massa, in attività che per la loro natura e intensità non possono che richiedere, anzi reclamare, l’arrivo nel nostro paese di diverse centinaia di migliaia di immigrati.
In secondo luogo la strategia economica del piano è descritta, anzi recuperata, in chiave leniniana (Nuova Politica Economica, NEP). Da un lato con il dichiarato proposito rivoluzionario di usarne la logica contro lo short-termism, l’orizzonte a breve termine ormai imposto a ogni livello dal capitale finanziario, dall’altro con l’intento di mirare a un contesto “più civilizzato” – non necessariamente anticapitalistico – delle relazioni economiche e delle dinamiche sociali, a partire dal quale nuove lotte e nuove autentiche dinamiche di liberazione possano in un futuro (anche prossimo) sprigionarsi.
In terzo luogo la prospettiva felice, e aperta all’immediatezza del meticciato, si coniuga con un nuovo approccio al contratto di lavoro, ormai da troppo tempo rinsecchito e rinchiuso nella categoria tendenzialmente residuale del lavoro subordinato, ed è a questo livello che si pone un progetto di carattere eccezionale, la creazione di un nuovo contratto di lavoro esistenziale che disciplini l’uso del comune assieme al complessivo rapporto di cooperazione sociale, con compensi stabiliti, secondo scelte discrezionali di ogni singola struttura mutualistica, non necessariamente in forma esclusiva di valuta corrente ordinaria. E qui si apre una porta sul domani.
Occorre aggiungere, infine, che gli estensori del Manifesto si sono spinti, coraggiosamente e consapevolmente, a ragionare sul terreno scivoloso della realizzabilità/compatibilità di un simile ardito piano con le gabbie del nostro ordinamento positivo, e dunque con la provvista necessaria, con le tecniche di gestione dei flussi migratori (attraverso regolari compagnie di navigazione, si propone), con le tematiche di genere così come con tutte le concrete discriminazioni che caratterizzano la condizione precaria.
Il Manifesto di Stivigliano assume il fenomeno migratorio come l’autentico fatto costituente dell’ordine futuro e allude alla necessità di un progetto politico completamente nuovo, tagliando i ponti con ogni reminiscenza nostalgica. Il passato viene consegnato alla storia, l’avvenire richiede un radicale cambio di passo.
Anche da questo punto di vista ci auguriamo che il documento possa sollecitare una discussione finalmente “non a rimorchio” di eventi sempre più fuori dal canone novecentesco, di cui siamo in genere testimoni passivi. (Gianni Giovannelli e Giorgio Moroni)
Per accedere al testo:
- Versione tipografica qui: Stivigliano web
- Sotto, la versione Word
Per i contatti diretti con l’Assemblea di Stivigliano:
manifestodistivigliano@hotmail.com
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MANIFESTO DI STIVIGLIANO
PRIMI LINEAMENTI DI UNA NUOVA POLITICA ECONOMICA
F. D. Roosevelt e V. I. Lenin in Italia
ASSEMBLEA AUTOCONVOCATA DI STIVIGLIANO
Ispirato da Operazione Mediterranea
UNO
Non esiste alcuna emergenza migranti. Nel 2017 in Italia si sono registrate 464.000 nascite, contro 473.000 del 2016, il 2% in meno. In aumento è stata invece la mortalità: 647.000 decessi contro i 616.000 dell’anno precedente, con incremento del 5,1%. È cresciuta l’età media della popolazione (attualmente oltre i 45 anni) insieme al numero dei funerali.
Gli indicatori dell’Istat (8 febbraio 2018) rivelano che il saldo negativo della popolazione complessiva ha segnato il massi- mo storico: un calo di 183.000 abitanti, che supera il record dell’anno precedente (meno 162.000); ciò, nonostante i rientri e le immigrazioni. Gli stranieri sono poco più di cinque milioni, circa 8,4% di chi vive nella penisola; nel 2017 l’incremento è stato del 3,6 per mille.
La vera emergenza è invece il discorso sull’immigrazione. È strettamente necessario uscire dall’orizzonte caritatevole dell’accoglienza, che per definizione è priva di futuro oltre l’esemplare generosità del gesto; e al tempo stesso dalla prospettiva conformista dell’integrazione, in cui il futuro si mostra tragicamente rinchiuso nell’irredimibile passato coloniale. Appare altrettanto necessaria l’uscita dalla logica asfissiante dei sovranismi locali e dei governi xenofobi così come da quella inevitabilmente strumentale dei suoi manieristici pretesi antidoti, il neo-antinazismo e il neo-antirazzismo (rinvigoriti per l’occasione dalle esibizioni dell’attuale ministro dell’Interno, che per quanto ripugnanti oscurano solo in par- te le bassezze di chi lo ha preceduto nelle funzioni). La missione è oggi spostare l’asse del discorso sull’immigrazione da una concezione di gestione dell’ospitalità a un programma di governo dell’inclusione, rovesciandone il senso attuale e imponendo una nuova agenda teorico politica. Solo l’ideazione e la realizzazione di un piano di governo, ovvero un atto di ribellione in forma di impresa, può riuscirvi. Prima di procede- re oltre, è giusto porsi almeno un interrogativo. Fino a che punto un esercizio di immaginazione progettuale può stare sollevato sopra il terreno della pratica e della sua esemplificazione, che è per natura scivoloso e così esposto a semplificazioni, al già visto e alle facili critiche? Dipende dal contesto, e quello attuale induce a pensare che l’obiettivo del piano, del New Deal, prevalga su quello dei contenuti iniziali, essendo l’idea stessa di piano, oggi, in grado di riscattare e riportare a nuova vita proprio quei contenuti e di generarne altri. Inoltre è preferibile affrontare un percorso su quel terreno scivoloso piuttosto che impantanarsi, badando solo a sfidare il neo ministro dell’Interno e il consenso che raccoglie e riesumando le categorie dell’antifascismo e il CLN. Occorre quindi andare fino in fondo, ben oltre il disegno generale, senza lacrime per le buone intenzioni.
DUE
La ormai cronica depressione, economica e sociale, del paese Italia può essere contrastata solo a partire dal riconoscimento immediato della sua principale ragione di crisi e dunque di emergenza: quella del territorio, devastato da una interminabile cementificazione, da irragionevoli abbandoni, dal progressivo deterioramento ambientale e paesaggistico. La fruizione e la valorizzazione del territorio, assieme alle ricchezze archeologiche e artistiche che vi insistono, costituiscono infatti la risorsa fondamentale di quello che fu il Bel-paese: è questa la scelta che deve stare alla base della svolta di politica economica che oggi si impone; non la conservazione e l’assistenza a fortezze per la produzione “italiana” di acciaio e di altri metalli o la rifondazione di cattedrali destinate alle lavorazioni chimiche; non il mantenimento illogico di industrie pesanti, legate al tempo degli stati nazionali e della loro tragica concorrenza violenta; non la perpetuazione testarda di una pretesa tradizione manifatturiera, spesso frutto di scommesse incerte e di rovine reali.
La fase storica dell’industrializzazione selvaggia e dello sfruttamento inaudito della classe operaia di fabbrica è trascorsa da tempo, è finita per sempre. Essa ha generato un certo qual benessere, abbastanza diffuso benché alienante; si è anche caratterizzata per una comunità di lotte grandiose, leggendarie: sulla rendita sindacale del primo e sulla rappresentanza formale delle seconde il sistema dei partiti ha vissuto fino all’altro ieri, oltre se stesso, fino a farsi recentemente sopraffare da una endogenesi barbarica. In questo periodo, soprattutto nel secondo dopoguerra, territori vastissimi sono stati aggrediti da un inquinamento barbaro e sconsiderato. Molti antichi agglomerati e numerosi comuni italiani, per secoli protagonisti dello sviluppo, sono stati interamente abbandonati o condannati a sopravvivere stentatamente, privi di identità e risorse. Sono almeno seimila i borghi fantasma, rimasti senza abitanti, Waste Land. Quasi sterminata nelle pianure e nelle colline si presenta l’area delle terre incolte, o, meglio, non più coltiva- te. L’assenza di manutenzione degli argini e dei corsi d’acqua peggiora di giorno in giorno la situazione e contribuisce a de- terminare frane o alluvioni. Anche il formidabile patrimonio storico, artistico e archeologico vacilla; ad eccezione di qualche apogeo museificato metropolitano o di qualche santuario tutto si consuma in un silenzio indifferente.
La propaganda mediatica si nutre di un preteso scontro fra sovranisti e anti-sovranisti, fra populisti ed europeisti, tra popolo delle partite IVA e finanzieri plutocratici, a questo riducendo il dibattito politico. Al tempo stesso l’apparato di comando nasconde la realtà, tace con grande disinvoltura sulla necessità di contrastare l’abbandono del territorio, una delle culle più ricche della civilizzazione occidentale, e di comprendere come davvero sia possibile porre un freno all’impoverimento, al deterioramento materiale e culturale della popolazione che vi risiede. I governi italiani che si sono susseguiti nella direzione del paese in questo inizio del terzo millennio presentano come dato comune, nonostante le affermate divergenze, il rifiuto pervicace di elaborare una credibile e possibile strategia di crescita che vada oltre un forecast al più trimestrale. Ogni esecutivo, in questo, è paradossalmente allineato con il capitalismo globale finanziarizzato, che agisce in una dimensione extraterritoriale ed è per sua natura rivolto verso orizzonti di previsione temporale ristrettissimi.
TRE
La comunicazione organizzata dal regime diffonde con largo dispendio di mezzi, e l’aiuto di finti oppositori, il convincimento che la responsabilità della crisi ricada quasi per intero sull’arrivo di nuovi soggetti, sul fenomeno migratorio. La riduzione dei salari, le pensioni tagliate, la svendita del patrimonio pubblico e il senso di angosciosa insicurezza altro non sarebbero che la conseguenza di un flusso eccessivo e incontenibile di stranieri, venuti a spartirsi il risparmio e le ricchezze degli italiani.
Lo spettro della crisi si accompagna alla rappresentazione spettacolare del terrorismo, per costringere lo sciame precario sotto la protezione dello stato e per garantire al sistema delle imprese il buon fine dello storico processo in atto di sussunzione reale del lavoro nel capitale. Per i governanti la paura è essa stessa una potenza economica. Il diverso viene presentato come il colpevole di ogni disagio; questo determina divisione e odio dentro lo sciame precario, lo straniero diviene nemico.
La costante diminuzione della popolazione italiana residente provoca l’abbandono di numerose aree, urbane e rurali, di montagna e di pianura. Il venir meno degli abitanti desertifica quei territori e, di conseguenza, li rende inospitali, incrementando il fenomeno. In assenza di soggetti che curino l’ambiente si perdono coltivazioni, corsi d’acqua, risorse energetiche; una straordinaria, unica, architettura che caratterizza i borghi italiani viene lasciata morire. Grigi contenitori, in cemento armato scadente, non di rado lasciati a metà, o ignobili villette con infissi raccapriccianti si affastellano, in modo disordinato, lungo le provinciali e le statali, a fianco di case coloniche un tempo splendide, oggi in rovina. Muore, in questo tempo, la memoria di un paesaggio, di una cultura artigiana e con- tadina, di un ecosistema; in luogo di coniugare le nuove tecniche abitative al patrimonio comune accumulato nei secoli, migliorandolo, viene messa in pratica una miope politica di distruzione, ispirata alla desolazione delle periferie urbane o delle zone industriali abbandonate. A giustificazione di questa follia, si teorizza che la mancanza di fondi da parte delle amministrazioni locali non può che far ricorrere a piani regolatori che consentano attraverso la cementificazione di far cassa con gli oneri di urbanizzazione; e soprattutto si teorizza l’impossibilità di consentire alle moltitudini migranti di stabilirsi nei territori abbandonati dagli autoctoni per constatata impossibilità di sopravvivere sul posto. Ma in Italia la fusione e il meticciato sono stati sempre una risorsa e l’intreccio delle lingue locali conferma l’esistenza di un laboratorio costante che non è stato mai – e non può essere – arrestato.
Esiste una sola possibilità di invertire il meccanismo che determina la crisi e l’incremento della povertà in Italia: recuperare le aree sviluppando la cultura del territorio, che non va confusa con la promozione dell’immagine del paese-cartolina, e con esso il settore agroalimentare, che è evidentemente altra cosa rispetto allo sviluppo di un mercato-emporio di prodotti “tipici”.
L’Italia è un paese caratterizzato da grandi diversità territoriali e climatiche che si sono plasmate in culture, storie e tradizioni, eccezionalmente varie e uniche. Recuperare e ricostruire utilizzando i residenti attuali in forme nuove e ragionevoli, chiamare altri, prendendo atto della necessità di farlo. Bisogna saper saldare la storia dei comuni italiani e la marcia migrante in fuga dalla miseria. L’immigrazione, per sua natura, vive con il futuro saldamente afferrato a mani nude e conosce il segreto di piegarlo. L’immigrazione non possiede alcuna nostalgia per un passato di sofferenza; porta il desiderio del domani, non solo e non soltanto per i singoli soggetti, ma per la comunità e per il nucleo della famiglia. L’orizzonte dei migranti non è rinchiuso nell’angustia di un piano trimestrale, come nella programmazione delle imprese finanziarie; essi guardano oltre, hanno scadenze ultradecennali. Il crollo demografico caratterizza i soggetti espropriati della speranza e privati dei sogni; chi intende lottare per sopravvivere vuol vincere e dividere con i nuovi nati quanto faticosamente ottenuto. Il meticciato è una scuola formidabile per apprendere un modo originale di riprendersi il futuro.
QUATTRO
È quindi falso affermare che vi sia attualmente eccedenza di presenze straniere nel territorio italiano. Vi è invece necessità di contrastare la caduta tendenziale dell’età media e la progressiva riduzione del numero di residenti. Non perché tale riduzione sia un male in sé, ma perché esiste un gigantesco problema di recupero del territorio, di finanziamento di attività che creino nuove forme di lavoro o di attività umana, affrontando tutte le questioni ambientali e dando corso ad un vero e proprio New Deal. Seimila frazioni abbandonate aspettano di essere riparate e ripopolate, servendosi della tecnologia e dei mezzi che ora sono utilizzabili. Bisogna recuperare le risorse idriche disponibili, perché l’acqua possa davvero essere di tutti, nel rispetto, finalmente, del referendum ormai risalente, ignorato dai pretesi democratici di tutte le fazioni e di tutte le correnti. Il recupero delle risorse idriche comporta un gigantesco contenimento della spesa straordinaria (divenuta ormai ordinaria e ricorrente) per le altrimenti inevitabili alluvioni periodiche. Bisogna, nei seimila borghi ricondotti a vita, utilizzare energia rinnovabile; e ancora consentire solo mezzi a inquinamento ridotto, restaurare conservativamente e secondo norme antisismiche, rispettare la natura e la bellezza dei luoghi. Unità composte da una media di almeno cento soggetti in ciascuno dei seimila borghi abbandonati, nell’ambito di un piano ventennale e vincolante, comporta l’impiego, oggi e subito, di almeno seicentomila nuovi addetti. Il recupero di seimila borghi spopolati, di migliaia di splendide case coloniche abbandonate, di boschi, sorgenti, pozzi e terre incolte, esige quindi di impiegare tutta l’immigrazione presente e di chiamarne altra. Non a bordo di scafi e canotti, ma con biglietti regolari e attraverso compagnie di linea, cui sia data l’incombenza di accertare l’identità e le attitudini dei migranti, sottraendo agli speculatori e ai signori della guerra l’organizzazione dei viaggi.
Le nuove comunità abitative, sebbene e proprio perché lontane dai centri urbani, diverranno attraenti per tutti, anche per i giovani e le giovani adulte immigrate o no, in quanto lì più che altrove dovrà installarsi il volano dell’economia. Saranno necessarie, con riferimento all’utilizzo del territorio disponibile, leggi draconiane che impongano alle proprietà, pubbliche o private, entro brevi tempi certi non prorogabili, la stipula di speciali contratti di locazione, o di affitto, o di comodato, o di enfiteusi, o di altri contratti ideati per lo scopo di una gestione delle terre incolte e delle case abbandonate. Sono norme in perfetta armonia con il nostro ordinamento giuridico, interventi di natura straordinaria a carattere temporaneo, che già abbiamo conosciuto proprio per il salvataggio del patrimonio immobiliare urbano: la legge 18 aprile 1962 n. 167, per esempio, fu varata dal governo centrista di Amintore Fanfani per dar casa ai meno abbienti e per contrastare la speculazione immobiliare. In tale impianto normativo si prevedeva il possibile esproprio di aree pubbliche o private, fissando l’indennità compensativa in misura inferiore al valore di mercato.
Merita una rievocazione anche il provvedimento 21 agosto 1945 n. 523 del governo Parri (ministro del lavoro era il futuro Presidente della Repubblica Gronchi), che vietava, per alcuni mesi, a qualsiasi impresa di licenziare i propri dipendenti al fine di rilanciare l’economia piegata dalla lunga guerra mondiale. Solo leggi mirate, recuperatrici del senso codicistico di regolare l’intero impianto di vita delle soggettività, possono sconfiggere una crisi straordinaria, dentro il tempo della transizione, anche con il pieno e certo riconoscimento di una percentuale della valorizzazione di case e terreni in favore dei nuovi abitanti. Verranno piantati milioni di alberi, ripulendo l’aria e la terra, migliorando il corso delle acque e la fruibilità dei parchi nazionali, contribuendo in forma concreta e creati- va a evitare, o almeno a spegnere tempestivamente, gli incendi boschivi, comunque ad arrestare il dissesto idrogeologico. La neurobiologia vegetale, con un centro importante presso la facoltà di agraria a Firenze, è una scienza: può insieme con- tribuire alla realizzazione del progetto al tempo stesso arricchendosi con la ricerca sul campo.
Pure il patrimonio archeologico richiede l’impiego di nuovi lavoratori, e si tratta di un potenziale organico complessivo ingente. I pochi interventi gestiti dalle istituzioni pubbliche o private, effettuati oggi con un apporto soggettivo per lo più volontario e quasi gratuito (con scarsità di mezzi e pochi fon- di), consentono di valutare in almeno 15-20 unità la composizione di ogni nucleo di recupero, scoperta o restauro. Una valutazione prudente di mille siti a rischio comporta quindi l’impiego di almeno 20 mila soggetti. Un sito artistico-archeologico salvato è un volano di bellezza e di ricchezza, che a sua volta determina un miglioramento di qualità dell’esistenza.
Esistono poi migliaia di edifici, pubblici e privati, che stanno cadendo a pezzi per trascuratezza, anche nelle metropoli o nei comuni a maggiore densità abitativa. Si tratta di inter- venire con ragionevolezza, seguendo le linee di un piano. In alcuni casi abbatterli migliora l’ambiente; in altri il recupero ha un senso.
CINQUE
Le norme in tema di immigrazione si sono susseguite, nel tempo, senza una logica coerente, sull’onda di emozioni e di suggestioni. La legge n. 39/90 (nota come Martelli) fu la prima a ridefinire lo status di rifugiato e di richiedente asilo; nacque con la pretesa di regolare il flusso d’ingressi, al tempo stesso creando i centri di concentramento coatto a fini di identificazione o espulsione (allora definiti di accoglienza), con la previsione, nuova e innovatrice, di sanzioni penali per contrastare l’ingresso clandestino.
La legge 6 marzo 1998 n. 40 (nota come Turco-Napolitano) sviluppa la linea di blocco del flusso migratorio, sia pure in forma contraddittoria; cade la maschera e il centro di accoglienza diviene un luogo di permanenza temporanea (naturalmente coatta). L’articolo 10 della legge appesantiva le sanzioni penali, con la reclusione fino a quattro anni a carico di chi favoriva la permanenza del clandestino in Italia per un proprio utile; veniva introdotto l’arresto per chi, espulso, rientrasse senza permesso.
Una cieca predisposizione a reprimere viene in qualche modo temperata da sanatorie imperscrutabili anche nell’ambito dell’attuale normativa detta Bossi-Fini (la legge 189/2002), sviluppo in senso repressivo della Turco-Napolitano, con aggravamento delle pene e riduzione dei residui diritti invocabili da parte dei migranti. La burocrazia poliziesca diviene strumento per mantenere la condizione di incertezza precaria e favorire forme brutali di sfruttamento della manodopera.
Da abrogare non è il singolo frammento legislativo in quanto tale, ma la complessiva ratio a monte dell’intera sequenza, dalla Martelli fino ad oggi, ovvero l’inaccettabile e antistorica concezione dell’immigrato quale automatico clandestino illegale. La presenza di comunità assai diverse per storia e provenienza impone di considerare problemi e opportunità non riassumibili nelle semplificazioni della propaganda; le politiche di gestione del fenomeno pretendono di evitarle e finiscono così per mostrare solo arroganza impotente. Vengono aggrediti i deboli, per poi soccombere di fronte alle strutture criminali organizzate che governano ampie aree territoriali e tiranneggiano intere comunità di migranti. Il vecchio impianto deve essere sostituito da un vero e proprio Statuto dei diritti dei migranti sovvertendo ogni testo pregresso. Lo scatto in avanti di una nuova costituzione formale deve per una volta precedere e anticipare le conseguenze nefaste dell’applicazione concreta delle regole e dei principi di quella materiale.
Il lavoro agricolo, quello di assistenza o di collaborazione fa- miliare, la logistica, il settore caseario e dell’allevamento di bestiame, il recapito e il trasporto, l’edilizia si caratterizzano anche per appartenenza etnica, seguendo specifiche tradizioni e utilizzando competenze acquisite nei luoghi di provenienza. A proposito dell’esercito di badanti, spesso provenienti dall’Est europeo o dalle Filippine, che già fu oggetto di una sanatoria ipocrita e strumentale, si tratta innanzitutto di procedere a riconoscere come professione sanitaria quella delle badanti.
Questo è possibile ai sensi della Legge 11 gennaio 2018 n. 3: “Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute”. Ciò contribuirà a rendere inapplicabile e priva di senso la percezione post-coloniale e occidentale del loro lavoro come “servaggio”, come occupazione umiliante e degradante. La dimestichezza con i commerci di molte popolazioni dell’estremo oriente rende i centri urbani un punto di riferimento delle loro comunità, articolandosi in filiere di credito bancario parallelo al circuito tradizionale; e l’importanza, dentro altre comunità, della gerarchia interna a particolari professionalità (il cuoco, il fornaio, il mungitore) viene messa a valore da chi organizza la messa a valore delle braccia precarie. La stessa propensione al risparmio che accompagna la fondazione di nuove accumulazioni della moltitudine migrante ha profondamente modificato la raccolta di denaro, nelle metropoli e nelle periferie, ad opera degli istituti finanziari internazionali e delle banche.
Nulla impedisce realmente all’esercito fantasma dei lavoratori clandestini, in un paese come l’Italia ove la quota di economia sommersa sfiora ormai il 30%, di accedere in qualche manie- ra ai meccanismi delle rimesse verso estero o ai money transfer; nel 2016 tali rimesse sono state superiori a cinque miliardi, di cui un quinto provenienti dalla sola Lombardia. Sia la Turco-Napolitano sia la Bossi-Fini evitano, strizzando l’occhio alle banche, di intervenire sul denaro che scorre. Ma quando un esercito fantasma diventa capace di rivendicare la propria identità e la propria appartenenza viene meno la necessità di far navigare il risparmio, nasce il desiderio di costruire nuove radici nell’area in cui ci si trova a vivere.
L’Unione europea sta accogliendo