Vi ricordiamo che domani pomeriggio alle ore 15 a Venaus si terrà una tavola rotonda intitolata “Ricerca e movimenti: quando si congiungono scatta la repressione”. Il confronto è stato organizzato dal movimento NoTav in collaborazione con le istituzioni locali e con Effimera, a partire dall’appello lanciato in favore di Roberta Chiroli, dopo la condanna emessa dalla Procura di Torino per il contenuto della sua tesi di laurea in antropologia dedicata alle lotte in Valsusa. L’appello ha raccolto al momento 2300 firme. Qui il programma dell’incontro, la locandina, gli interventi. Di seguito, un breve contributo che allarga il problema ai metodi e ai contenuti della ricerca che viene svuotata di senso attraverso la governance repressiva dei processi di cooptazione del mondo accademico. Il ricatto della precarietà e i continui tagli alla ricerca con selezioni relative, inducono a forme di autocensura e autorepressione forse ancor più preoccupanti, perché più sottili e più estese

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I recenti fatti di repressione a livello giudiziario (Roberta Chiroli, condannata a 2 mesi di prigione per concorso morale con la lotta No Tav alla luce della sua tesi di laurea, Vinicio Enzo Alliegro, antropologo dell’Università di Napoli Federico II, imputato di avere presenziato all’occupazione di una stazione ferroviaria in Salento ad opera del movimento contrario alle eradicazioni degli ulivi affetti da xylella in Puglia) ci dicono che l’attività di ricerca non deve riguardare argomenti “sensibili”, né, soprattutto, essere partecipe a iniziative di lotta sul territorio. La ricerca, soprattutto se svolta da membri dell’accademia universitaria, deve essere “neutra”: non può e non deve mettere in discussione l’ordine costituito.

Non è una novità. L’accademia universitaria italiana, il suo essere corporativo, ha sempre impedito la libertà di ricerca. In particolar modo, negli ultimi anni, il processo di precarizzazione della ricerca ha ancora più consolidato questo stato di cose e questa situazione ha favorito il conformismo dominante, l’essere “servitore del principe”. Nelle università italiane, alcuni argomenti sono tabù. Il controllo dei cervelli, via induzione all’autorepressione/ricattabilità indotta dalla precarietà, funziona oggi come ai tempi del fascismo, quando più dell’80% dei professori universitari sottoscrissero “il manifesto della razza”. Chi non l’ha fatto allora è stato costretto a emigrare all’estero, come succede oggi a molti giovani ricercatori, che non vogliono sottostare alla situazione di precarietà e, conseguentemente, di assoggettamento complessivo, non solo economico.

In questo paese poco si è parlato del rapporto tra libertà di ricerca e repressione. I casi che abbiamo evidenziato ci parlano di repressione personale. Ma ciò che invece è molto più potente è il tipo di governance repressiva dei processi di cooptazione nel mondo accademico. Non è repressione evidente, come quella di cui stiamo parlando, in grado di smuovere le coscienze di molti esponenti del mondo universitario italiano.

Parliamo di un dispositivo molto più sottile, che passa attraverso i recenti strumenti della valutazione della ricerca e i principi della cosiddetta meritocrazia “scientifica”, strumenti che vengono presentati come neutrali (ma come si fa a “misurare” l’”incommensurabile”, un pensiero, un’idea?), ma che nella realtà creano meccanismi di selezione, tutti finalizzati a mantenere la struttura del comando (culturale e oligarchico) attuale.

La specializzazione della ricerca è oramai un fatto conclamato. Ci si deve occupare solo del proprio orticello e pubblicare sulle riviste create all’uopo, le uniche che hanno “impact factor” (ovvero riconoscimento accademico) quelle che ti consentono di fare carriera, perché testimoniano che sei membro della “setta” (accademica, ca va sens dire!) e quindi affidabile. Qualunque approccio interdisciplinare è visto con sospetto.

La divisione cognitiva del lavoro trova così nell’università una delle sue forme di sperimentazione più avanzate. È qui che viene testata. L’induzione al controllo dell’attività di ricerca, in grado di modellare i cervelli dei giovani ricercatori in modo pervasivo e senza lasciare traccia, si basa infatti su processi di autoselezione degli argomenti della stessa ricerca e soprattutto della metodologia con la quale vengono trattati. L’impostazione metodologica diventa sostanza e contenuto. E il metodo definisce l’appartenenza (ideologica).

Potrebbero essere tanti gli esempi al riguardo. Ci basta solo dire che nell’epoca in cui ogni misura nelle discipline scientifiche risulta problematica, nelle discipline sociali e umanistiche diventa il principale metro di valutazione. La conseguenza di ciò è che ogni approccio eterodosso e critico viene prima svalutato e poi marginalizzato.

Il caso della scienza economica è paradigmatico. La sua riduzione a problema squisitamente matematico (e oggettivo), una volta teorizzata una teoria del comportamento umano basato sull’ipotesi di razionalità massimizzante, consente di formulare una teoria e una pratica economica che sia valida eternamente, nel tempo e nello spazio.

In tal modo, le peculiarità storiche del capitalismo scompaiono. Inizia così a dispiegarsi un dispositivo ideologico di controllo e di trasmissione del pensiero dominante che non ha uguali in nessun altra disciplina scientifica e umanistica, almeno dopo la critica kantiana alla metafisica aristotelica. A differenza del dispositivo disciplinare, descritto da Foucault, agente sul lavoro e sulla società, in questo caso è forse più opportuno parlare, per la teoria economica accademica, di forme di auto-controllo sociale, della società del controllo descritta da Deleuze. Tale dispositivo si attua essenzialmente tramite due vie, come abbiamo sottolineato: quella metodologica e quella di merito.

Insomma, le forme dirette di repressione dell’attività di ricerca all’interno del mondo universitario emerse in questi ultimi mesi sono solo la punta dell’iceberg, quella più visibile e quindi che più facilmente induce all’indignazione, di un sistema di controllo e di cooptazione ben più pericoloso, sottile, sotterraneo, pervasivo, che colpisce la maggior parte degli attori in campo.

Come detto, tale processo di censura/auto-censura, si appoggia su un meccansimo strutturale: la precarizzazione della ricerca universitaria, i tagli di fondi a cui è perennemente sottoposta, con selezione relativa, con espulsione ed esclusione relativa. Questo secondo strumento è in grado di potenziare il primo meccanismo, di auto-repressione e di sussunzione dell’attività di ricerca all’interno del discorso dominante. Così, nel mondo universitario, vediamo agire i due dispositivi tipici del processo attuale di sussunzione del lavoro al capitale: quello dell’immaginario e quello della ricattabilità. Si tratta di dispositivi di auto-disciplinamento talmente potenti che rendono vana, al momento, ogni forma di reazione e di contrapposizione, anche propositiva. Il primo interviene sulla formazione mentale, il secondo sul corpo. Il primo forgia e indirizza la ricerca al punto tale che chi non si piega ad essa svolge un ruolo eretico poco comprensibile ai più, tale a giustificare forme di repressione (“non è uno di noi, è diverso”). Il secondo, molto più prosaicamente, ti fa capire che se vuoi mangiare, a loro devi sottostare. Il combinato dei due dispositivi ci spiega come i fatti a cui qui abbiamo accennato possano realmente accadere e, potenzialmente, estendersi.

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