In vista dell’incontro “Riflettere e coordinarsi. Giornata di studio per la tutela della libertà di ricerca e dell’etnografiache si svolgerà a Modena il 1 ottobre, continuiamo a riflettere sul tema della libertà di ricerca e della governance del lavoro cognitivo, con un contributo di Nora Precisa che riflette sul controllo dell’attività di ricerca a monte, a partire dal nodo dei finanziamenti.

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“Non si tratta di affrancare la verità da ogni sistema di potere

– sarebbe una chimera dal momento che la verità è essa stessa potere –

ma di staccare il potere della verità dalle forme di egemonia (sociali, economiche, culturali)

all’interno delle quali per il momento funziona”

Michel Foucault, Microfisica del potere

La storia la sappiamo tutti. C’era una volta lo schiavo che doveva lavorare o sarebbe stato ucciso. Venne liberato – “la vita è tua adesso!” gli disse il padrone – “bene!” disse lo schiavo, e poi aggiunse perplesso, “ma per sopravvivere ho bisogno di cibo e riparo. I soldi dove li trovo?” – il padrone sorpreso rispose “beh, devi lavorare per me”.

Le proibizioni esplicite riguardanti la ricerca scientifica, semplificando molto, si concentrano sui seguenti temi: la tutela del paziente, la tutela degli animali,  le questioni bioetiche e la ricerca “dual use”, modo carino per dire ricerca con applicazioni militari. Su queste proibizioni si concentrano i dibattiti – un tempo ricerca nucleare sì o no, oggi soprattutto esperimenti sulle scimmie sì o no, diritti agli embrioni sì o no, leggi della robotica sì o no (problemi che riguardano sostanzialmente i confini dell’umano, meno ben definiti di quel che si penserebbe). In breve, noi siamo a favore di una regolazione sociale e politica della ricerca, che non è capace di autoregolarsi più di quanto lo sia il mercato, e volendo proprio citare casi particolari siamo contrari all’uso bellico quanto alle proibizioni di matrice religiosa. Le questioni sul confine dell’umano sono comunque tendenzialmente passibili di essere discusse all’infinito e non saranno trattate ulteriormente in questo articolo.

Prendiamo però le questioni veramente centrali dal punto di vista sociale e politico: studi sul clima, studi sulla salute, studi economici. C’è qualche legge o provvedimento che proibisce a un ricercatore di dedicare la propria vita a studiare gli effetti ambientali dei trafori dell’alta velocità sul territorio, l’epidemiologia degli psicofarmaci o dei suicidi e le loro correlazioni con il mercato del lavoro, le simulazioni di tassazioni necessarie per stabilire un reddito di cittadinanza? No. Ma sarà molto molto difficile trovare fondi per farlo, e per avere un lavoro servono fondi e per avere un reddito serve un lavoro e per campare serve un reddito. Si può dedicare a queste ricerche il tempo libero, se esiste ancora e se le energie bastano per dedicarlo a qualcosa di più impegnativo di guardare le serie tv. Più probabile Più probabile che la maggior parte del tempo e delle energie siano dedicate a qualcosa per cui si è stati pagati, qualcosa per cui c’erano i fondi o si spera di trovarli e quindi si finisca a studiare geoingegneria del clima ad uso greenwashing, a sviluppare piccoli miglioramenti di app inutili, a dedicarsi ai richiestissimi anti-rughe e anti-calvizie, a dimostrare che le tasse fanno male all’economia, a mettere su startup che crolleranno dopo pochi mesi e tanti sacrifici.

Il vero controllo della ricerca è a monte. Nei finanziamenti, non nelle proibizioni. Una decina di ricercatori denunciati per qualche tipo di violazione sono un problema grave al quale va tutta la nostra solidarietà ma il problema socialmente rilevante sono le decine di migliaia di ricercatori precari che possono lavorare solo su un numero ristretto di temi sempre più vincolato ad interessi economici con una precisa connotazione politica.

Non viviamo, Inshallah, in un sistema perfettamente capitalista, anzi.  Al solito si tratta di trovare ciò che nell’inferno non è inferno e dargli spazio, e farlo vivere. Ci sono esperienze di ricerca autonoma (mai abbastanza e mai abbastanza lodate) e come in tanti campi il primo esempio positivo che viene in mente è dal movimento NO-TAV che ha elaborato gli anni un contro-sapere che va dallo studi dei flussi di merce a quello geologico, comprendendo membri dell’accademia e cittadini attivi. Oltre a questo, ogni tanto si trova il verso di forzare un po’ il tema di un bando per fare ricerche politicamente interessanti, ad esempio più regioni in cui si è trovato un pertugio attraverso il quale far passare simulazioni e studi sul reddito di base. Alcune ONG finanziano ricerche interessanti sul clima o sui farmaci low-cost, anche se di dimensioni irrisorie rispetto a quelle delle compagnie petrolifere e farmaceutiche. Sono tutti però esempi isolati e al momento non statisticamente significativi. Una loro federazione “accelerazionista” sarebbe quanto di più auspicabile, ma si tratta di un obiettivo decisamente a lungo termine. Soprattutto, ai fini di questo articolo, dobbiamo constatare che non sono ricerche in grado di assicurare un reddito anche precario a chi le fa. Si tratta di volontariato o quasi, quindi non possono costituire una soluzione politica al problema della libera ricerca.

Focalizziamoci brevemente sulla componente principale della ricerca italiana, cioè sulla ricerca pubblica. La situazione qui è mista. Come spiegato altrove,la principale fonte di profitti associati alla ricerca italiana è l’edilizia. Usare 150 milioni di euro di finanziamenti “alla ricerca” per riqualificare una minuscola parte dell’area Expo con un progetto scientificamente evanescente come Human Technopole è una scelta così sfacciata da aver attirato l’attenzione di politici, mezzi di comunicazione e pubblico, ma non è che il ripetersi in grande di una prassi consolidata. Si fa prima a fare così: se qualcuno è a conoscenza di atenei/istituti scientifici che NON siano stati oggetto di espansioni/ristrutturazioni macroscopiche del patrimonio immobiliare negli ultimi 10 anni o non li abbia in progetto è pregato di scrivere in redazione. A partire da questo dato, la produttività della scienza in termini di brevetti, impatto sull’industria e simili è per la politica e l’economia una questione secondaria. Il laboratorio del Gran Sasso è libero di fare ricerca teorica che più teorica non si può, l’importante è l’investimento edilizio dato da un laboratorio costruito sotto una montagna. Il problema dei fondi si pone però in modo pressante a livello dei lavoratori precari della ricerca (cioè praticamente tutti). Questi infatti, in seguito al restringimento progressivo, stritolante, umiliante e annichilente dei finanziamenti ordinari alla ricerca, sono per lo più pagati su progetti, bandi specifici “a tema” se non direttamente su finanziamenti privati “mirati” agli enti pubblici. Tali finanziamenti, oltre a essere strutturalmente a tempo determinato quindi a generare un loop di precarietà (se sei precario puoi essere pagato solo da fondi a scadenza quindi rimarrai precario), hanno temi fortemente connotati. Dato che il governo italiano questi bandi li lancia col contagocce (cercarli nei siti dei ministeri è un lavoro di per sé) essi vengono 1) dall’unione europea, e tendono a essere con una connotazione fortemente politica nei vari significati del termine, si veda lo scandalo dello Human Brain Project “commissariato” 2) dalle regioni, che anche giustamente hanno una prospettiva locale e di rendimento immediato, 3) dalle aziende che semplicemente usano la ricerca pubblica come un subappalto economico delle ricerche dall’esito incerto e passano poi a mietere il raccolto se vanno a buon fine. Quanta libertà resta a un ricercatore che ha come unica possibilità accettare questo o cambiare mestiere?

Un discorso a parte e un grande apprezzamento meritano istituti di ricerca come l’ISTAT o l’ISPRA che sono costituiti esplicitamente per sviluppare una ricerca pubblica direttamente a fini sociali. Non è però un caso che siano particolarmente sotto attacco dal punto di vista mediatico e organizzazione del lavoro, anche se la risposta non si è fatta attendere. Leggere per informazioni sul passato travagliato dell’ISPRA  e sul presente travagliato dell’ISTAT  Ancora una volta si vede come il controllo della forza lavoro sia la chiave per il controllo delle attività di ricerca.

Che fare quindi? Quattro sono i campi di battaglia al momento per sbloccare la situazione e ottenere una libertà di ricerca fattuale e produttiva. Purtroppo (per chi le deve fare) sono battaglie che devono essere condotte contemporaneamente.

La prima linea è quella del lavoro. Nel contesto in cui ci si batte contemporaneamente per l’aumento del tempo indeterminato e delle tutele per tutti i precari, è cruciale che tale battaglia includa i ricercatori, precari a vita. Non ci può essere ricerca libera con il livello di precarietà attuale, distruttivo di saperi di competenze e di vita. Quando una ricerca innovativa richiede più anni di quelli che prevedono i contratti della ricerca, l’impasse è garantito. Crediamo sinceramente che le condizioni di lavoro nella ricerca e nei dintorni siano uno dei motivi principali del momento di stasi totale che stiamo vivendo, brillantemente descritto tra gli altri nel manifesto accelerazionista. Poche proposte che andrebbero nella direzione giusta. Rendere la durata minima di un assegno di ricerca di due anni. Prevedere che tutti i livelli di finanziamento pubblico alla ricerca abbiano una durata minima di tre-cinque anni, anche diminuendo l’importo annuale. Mettere tra i metri di giudizio principali nella valutazione dell’università il rapporto ricercatori a tempo determinato (che è la categoria MENO precaria) e assegnisti, e vincolare anche a questo l’entità dei finanziamenti. Con ogni mezzo necessario limitare la precarietà.

La seconda linea è difendere la necessità di una ricerca che nasca e rimanga in larga parte pubblica. Nessuno degli interventi di cui sopra è possibile senza finanziamenti pubblici. Le fonti a cui attingere, cioè i settori economici parassitari da tassare a questo fine, sono innumerevoli e non staremo a ri-elencarli. Quello che è importante ricordare è che possiamo lamentarci quanto vogliamo della ricerca pubblica ma è l’unica su cui è possibile esercitare un controllo democratico. Naturalmente nuovi investimenti pubblici non dovrebbero conteggiare operazioni di ristrutturazione e acquisizione di edifici, altrimenti siamo da capo. Il problema dei fondi per il lavoro viene sempre prima dei fondi per le infrastrutture. I laboratori sono pieni di strumenti più o meno inutilizzati perché chi li sapeva usare è rimasto senza contratto. Inutile acquistare strumenti che richiedono sei mesi per essere tarati e compresi e iniziare a produrre risultati e poi dare contratti di un anno a chi ci deve lavorare.

La terza linea è quella di ampliare la ricerca comune (per non stare a rispiegare qui il concetto di comune diciamo la ricerca pubblica non accademica – si vedano gli esempi di cui sopra). Questo richiede a sua volta tre azioni: i) rendere accessibili i mezzi di produzione della ricerca – hardware, software e wetware ii) aumentare il livello di responsabilizzazione sociale degli accademici, adesso a dei livelli preoccupantemente bassi iii) aiutare la citizen science cioè il coinvolgimento dei non-professionisti nella ricerca, soprattutto con una attività continua di divulgazione.

Infine, una questione meno visibile ma cruciale. Ci si deve porre l’obiettivo di intervenire nella discussione sulla direzione in cui vogliamo che vadano i finanziamenti, a livello locale, nazionale e europeo. Il controllo politico della scienza avviene in larga misura lì, a monte. Le lobby (nel senso tecnico della parola) cercano continuamente di spingere i finanziamenti pubblici alla ricerca nella direzione a loro più conveniente. Dobbiamo giocare allo stesso gioco, con i nostri mezzi. Scegliere chiaramente gli obiettivi e perseguirli politicamente.

Un chiarimento finale. Non crediamo che tutte le ricerche vadano finanziate a priori, anzi. Siamo consci che ci sono numerosi vicoli ciechi, o spese politicamente e socialmente sbagliate, ma non faremo il gioco dei media di fare esempi di ricerca più o meno sciocca per mettere in croce i finanziamenti pubblici. Basta aver chiaro che i vicoli ciechi scientifici devono scientificamente essere confutati, e la direzione politica e sociale determinata da una democrazia il più possibile informata dei metodi e dei risultati scientifici. Quello che ci preme sottolineare è come la ricerca sia strutturalmente caratterizzata da rischi immediati e rendimenti (non solo economici ma sociali) a lungo termine. Niente può apparire lontano dalla realtà come la meccanica quantistica e la filosofia. Eppure la meccanica quantistica è stata indispensabile per molti elementi dell’hardware del vostro smartphone, e qualunque visione della vita e del mondo più elaborata del buon senso è formata più o meno consciamente con il contributo dei filosofi che hanno lasciato segni nella storia. Qualcuno deve assumersi il rischio di finanziare ricerche di base e ad ampio raggio per uscire da questo momento di stagnazione della tecnica e del pensiero.  Dati i tempi, il rischio va senza dubbio minimizzato e questo lo si fa con la tecnica del “camminare domandando” cioè avendo obiettivi ambiziosi per raggiungere i quali sia possibile fare un percorso disseminato di risultati immediatamente utili per la società. Non è facile, ovviamente.

 

Dark and difficult times lie ahead.

Soon we must all face the choice

between what is right

and what is easy.

Albus Silente – Harry Potter e il calice di fuoco

Foto: www.egnosis.is

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