Proponiamo la recensione di Andrea Ghelfi a un libro importante, da poco uscito in Italia per Rosenberg & Sellier a cura di Nicola Manghi: Nel tempo delle Catastrofi. Resistere alle barbarie a venire, di Isabelle Stengers. Pubblicato per la prima volta in francese nel 2009 nel contesto della crisi finanziaria, il testo rimane di grande attualità per leggere il presente e le traiettorie a venire.

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Sesta estinzione di massa, riscaldamento globale, impoverimento dei suoli, acidificazione degli oceani, migrazioni climatiche, deforestazioni, coronavirus. Le tracce della crisi ecologica globale sono ovunque, le modificazioni della composizione chimica, biologica e geofisica della Terra ingovernabili, le loro conseguenze imprevedibili. Questa condizione di imprevedibilità ci costringe a stare con le molte intrusioni di Gaia: i molti eventi ambientali che sconvolgono, interrompono, destabilizzano e minacciano il mondo umano fanno sì che la scomoda verità della nuova condizione ecologica faccia parte del nostro presente e futuro. Gaia, ci dice Stengers, è il nome di una divinità mitologica greca, un essere che mostra una risoluta indifferenza rispetto agli effetti delle sue azioni: essa non agisce per punire qualcuno o per ristabilire la giustizia. Agisce, punto e basta.

Tradotto con cura da Nicola Manghi, Nel tempo delle Catastrofi. Resistere alle barbarie a venire (Rosenberg & Sellier) ci invita ad essere lettrici e alleate esigenti di Isabelle Stengers e della sua arte di fare attenzione. Scritto prima della crisi finanziaria e economica del 2008, questo libro non ha bisogno di essere riscritto nel tempo del coronavirus: oggi è più evidente di ieri che Gaia è qui per restare. Leggendolo mi è tornata in mente una frase che nel 1995 Michel Serres pronunciò in una conversazione con Bruno Latour: “non dipende più da noi che tutto dipende da noi”. Le intrusioni di Gaia interrompono qualsiasi idea di progresso storico, di umanesimo geocentrico, di natura passiva. Questo libro-intervento, però, non è un invito all’inazione. Al contrario, esso sembra contenere un appello a non arrendersi a ciò che ha creato le intrusioni di Gaia, un invito a sperimentare modi di vivere, a intraprendere azioni senza garanzie nella nuova condizione ecologica, a riattivare la nostra capacità di fare attenzione.

In prima istanza dobbiamo fare attenzione a ciò da cui dipendiamo perché, ci dice Stengers, gli umani dipendono da qualcosa di più grande di loro, da un concatenamento di forze suscettibili e con le quali, tuttavia, dobbiamo comporci. E dunque, fare attenzione qui significa sperimentare dei modi situati per comporci diversamente, provando a mettere in sospensione le pressanti richieste dell’alleanza Imprenditore-Stato-Scienza che del non fare attenzione ha fatto la sua regola di funzionamento. L’autorità della Scienza, l’ordine pubblico, le necessità dell’accumulazione ci chiedono di non esitare, di arrenderci al Progresso e dunque alle barbarie. La riappropriazione collettiva della capacità di fare attenzione è l’oggetto di questo libro: la natura sperimentale delle pratiche scientifiche, il riunirci attorno a un ‘fare comune’ e l’impresa del prenderci dei rischi sono esempi, alcuni dei molti modi possibili per riprendere in mano il senso di ciò che si fa. Un senso determinato, precario, vulnerabile, allacciato all’invenzione di mezzi pratici, alla fabbricazione di dispositivi politici.

Non si tratta solo di opporre un rifiuto e di tirare il freno a mano, ma di lavorare praticamente alla costruzione di alternative materiali in grado di permettere a qualcosa del passato di farsi spazio, di reinventarsi nel presente. Nel mezzo del libro Stengers si sofferma su un evento politico: il movimento di resistenza agli OGM in Europa e la sua capacità di creare una rete larga di alleanze e soprattutto di generare attorno a questa parziale vittoria un nuovo campo di visibilità in grado di mettere in questione cosa sia diventata l’agricoltura della modernizzazione. L’agricoltura del Progresso, quella in grado di mettere fuori dai giochi sementi tradizionali e piccoli contadini, dopo questa battaglia, non appariva più tanto ‘razionale’. Viceversa, un insieme di tecniche di coltivazione, di modi di vivere, di intendere ruralità e cibo che si supponevano appartenere a un passato contadino destinato a passare, cominciavano ad emergere per quello che sono – alternative materiali nel presente.

La cultura dei dispositivi politici è una faccenda farmacologica, ci dice Stengers. I farmaci, come ogni artificio, possono essere assieme rimedio e veleno. E tuttavia dobbiamo fare i conti con l’ambiguità che ogni pragmatica della costruzione politica porta con sè. L’epoca è cambiata: le teleologie della salvezza, l’eroismo epico e le verità dell’utopia non appartengono alla cultura del pharmakon. Le commoners, coloro che si radunano attorno a ‘cause comuni’, si accordano con prudenza, imparano a dare valore, ad agire, sentire e pensare con le altre: “molteplicità radunate attorno a ciò che forza a pensare e immaginare assieme, attorno a cause ‘comuni’ di cui nessuna ha il potere di determinare le altre, benchè ciascuna richieda che le altre ricevano questo potere di far pensare e immaginare le persone che radunano” (p. 106). L’ecologia delle pratiche, di cui Stengers si fa promotrice, comporta l’alleanza tra eterogenei e questa non è una situazione priva di pericoli, ma scongiura il gruppo di fusione e il pericolo del terrore come forma della politica.

Noi sappiamo, voi credete. Questo è il motto della alleanza del Progresso. L’ ecologia delle pratiche di Isabelle Stengers prende congedo da questo modo di intendere l’incontro. Questo bellissimo libro nutre la nostra immaginazione. Ci suggerisce dei modi attorno ai quali radunarci attorno a ciò da cui dipendiamo: un fiume, una foresta, una scuola, un presidio sanitario, un consultorio, un campo coltivato. Ci invita a pensare a come le situazioni possono essere trasformate se quelli che le subiscono trovano delle tecniche e delle pragmatiche per pensare e agire assieme.

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